Seppellire la teologia politica. Malevič, Lenin e il mausoleo

DOI : 10.54563/revue-k.697

Résumé

As a critical moment of the Bolshevik revolution, which suddenly lost its collective signifier, Lenin’s death was soon claimed in its political significance by the Immortalization Commission. In addition to doing its utmost for the preservation of the body, it also instituted a plan of “architectural immortalization”. Although the architect in charge was explicitly inspired by Malevich’s Suprematism, the latter will strongly deny any link with such an undertaking. This contribution aims to address, through an examination of the notes dedicated to Lenin, the attempt made by Malevich to counter the foundation of a new political theology.

Plan

Texte

L’architettura concerne sempre le stesse cose: il potere, la gloria, lo spettacolo, la memoria, l’identità.
Deyan Sudjic 
 
È diventato ormai evidente che, se si spodesta Dio dal cielo, questi cadrà sulla terra.
Deyan SudjicKazimir Malevič

1. La punta spezzata

In una serie di appunti dedicati a Psicologia delle masse e analisi dell’Io, testo pubblicato da Freud nel 1921, Lacoue-Labarthe e Nancy non mancano di ricordare che l’epoca della psicoanalisi “è anche l’epoca della rivoluzione bolscevica, della guerra mondiale e del nazionalsocialismo” (Lacoue-Labarthe, Nancy, 2018, p. 41). Tale nesso non era certo passato inosservato ai suoi contemporanei, i quali in più occasioni (Bataille e Berneri, tra i primi) erano proprio ricorsi al testo sopra citato quale preziosa risorsa teorica per comprendere la psicologia di massa, in primo luogo quella del fascismo e degli altri totalitarismi monocefali. D’altra parte, non si dovrà tuttavia scordare di come tale testo, il cui intento è quello di illuminare alcune componenti della psicologia individuale attraverso l’indagine delle modificazioni psichiche a cui il singolo è sottoposto ogni qualvolta è inserito entro una dimensione collettiva, oltre ad anticipare puntualmente la frenetica ricerca di capi svoltasi lungo tutto il corso del secolo, sia a sua volta l’esito del colossale sradicamento operato pochi anni prima dalla grande guerra. Elaborato nello stesso periodo di Al di là del principio di piacere (nel quale viene per la prima volta formulata l’ipotesi della pulsione di morte), anche questo testo sembra pervaso dai temi della distruzione, della disgregazione e dell’anomia, quali fossero altrettante tracce indelebili impresse sul divenire dall’evento bellico.

Sia il caso delle considerazioni dedicate alle masse artificiali. Queste sono definite tali da Freud in virtù delle tecniche con cui la loro esistenza è intenzionalmente prolungata, ben oltre la durata delle folle: qui i singoli soggetti si trovano avvinti da un doppio legame libidico, tale per cui, da un lato, hanno tutti elevato un unico e medesimo Altro a comune ideale dell’Io, e, al contempo, in virtù di questo stesso processo, si trovano pertanto tutti accomunati da una medesima identificazione (tutti perfettamente subordinati al medesimo ideale dell’Io, perfettamente sostituibili di fronte a esso). Persino là dove l’interesse di Freud è portato sulle aggregazioni sociali più stabili e durature quali la Chiesa e l’esercito, “masse altamente organizzate e protette dal dissolvimento” (Freud, 2013, p. 31) per la presenza di una coercizione esterna tale da scongiurarne repentini mutamenti, la scrittura presto vira sulla fragile e illusoria consistenza dei legami con cui tali masse si mantengono in essere: “[d]a questa illusione dipende tutto; se venisse meno, chiesa ed esercito si disgregherebbero subito” (ib.). Istruttivo è, in tal senso, il fenomeno del panico, che Freud descrive in termini diametralmente opposti rispetto a quanto in precedenza espresso dalla psicologia sociale: se, per questa, il panico si determinerebbe in risposta a un eccesso affettivo, a un “contagio”, scatenato da un qualche evento, la psicoanalisi risponde indicando al contrario, come causa, la repentina scomparsa dei legami reciproci e l’“allentamento della struttura libidica della massa” (p. 34): non è il panico a dissolvere la massa recidendone i legami, bensì è l’attenuarsi dei legami che rinsaldano la massa a provocare l’esplosione di panico. Il panico si configura, dunque, come il sintomo rivelatore della sempre incombente minaccia di dissoluzione dei legami sociali, ossia ogni qualvolta l’ideale dell’Io, il capo-feticcio del legame sociale, ciò che preserva il gruppo dalla dispersione, si trova a sua volta minacciato: “la perdita del capo, di qualsiasi natura sia, il venir meno della fiducia in lui, fanno esplodere il panico; quando si dissolve il legame con il capo, di norma scompaiono anche i legami reciproci fra gli individui-massa. La massa si disperde come una lacrima di Batavia alla quale sia stata spezzata la punta” (p. 35).

Capitale diventa allora, per esorcizzare la disgregazione del politico, la possibilità di anticipare la sempre imminente perdita del capo neutralizzandola all’interno dei più svariati dispositivi simbolici, tali da farsi carico di tutti quei “soggetti sull’orlo del panico” (Lacoue-Labarthe, Nancy, 2018, p. 34) che precariamente desiderano fare e disfare il politico stesso. L’elevazione di solidi costrutti simbolici, sorretti da una densa stratificazione discorsiva, estetica ed emotiva, costituisce pertanto un supplemento, tanto artificiale quanto la massa da questi sorretta, nei confronti di una simile precarietà. Se il panico ha luogo là dove una simile presenza è sul punto di ritrarsi, esso sarà compiutamente esorcizzato solo da una presenza tanto ingombrante da vegliare infaticabilmente su ogni singolo legame, tanto spettrale da costituirsi quale scena originaria del politico stesso. Ecco perché, secondo Freud, le masse religiose si sono sempre dimostrate più solide rispetto alle altre tipologie: se, per queste ultime, la perdita del capo e il problema della successione si presentano come un’eventualità costante (e costantemente affrontata ricorrendo all’espediente della burocrazia o della gerarchia), per destabilizzare le prime è necessario un passo ulteriore, coincidente con la sconfessione o la destituzione della propria medesima scena originaria.

Ben si comprende, allora, perché in molti movimenti politici sul punto di diventare istituzione sia sorta la tentazione di deificare il proprio fondatore, sottraendolo − e con ciò sottraendosi a propria volta − alla fragilità intrinseca di un capo troppo umano. Se, come ha avuto modo di ricordare Ernesto de Martino, buona parte delle mitologie politiche contemporanee è fallita proprio perché “mancava dell’equivalente che fu per la religione cristiana la incarnazione di Cristo” (de Martino, 2002, p. 188), ben si comprende la spinta alla divinizzazione di un capo così assurto al rango di Cristo immortale, garante di una stabilità inedita alle sue controparti mortali. Il culto di un capo sottratto al proprio destino di sparizione, reso infallibile nella sua persistenza, avrebbe infatti permesso al potere su di esso costruito di aggirare ogni rischio di svalutazione dovuta alla fallibilità politica, un’evenienza che il culto di un leader vivente avrebbe certo comportato. Cosa accade, allora, quando il capo stesso è eretto ad archetipo della comunità indistruttibile? Quando la massa artificiale, per preservarsi dalla sua intima possibilità di dispersione, ricorre all’artificio di conservare il capo oltre la sua stessa morte, donandogli la consistenza dell’eternità e della pietra?

2. Tecniche di preservazione

Testimone privilegiato della sacralizzazione dei capi rivoluzionari, Kazimir Malevič è tra i primi ad accorgersi della svolta religiosa dei moderni movimenti politici: in anticipo di oltre un decennio sull’uso di concetti quali “religione secolare” (Adolf Keller) e “religione politica” (Eric Voegelin) (Gentile, 2001, pp. 3-24), e con una sorprendente consonanza con quanto più tardi scriverà Georges Bataille circa “l’apoteosi, la divinizzazione di Lenin” (Bataille, 2013, p. 21), egli si interroga in merito alla sorte di una rivoluzione che, per poter salvare se stessa e garantirsi una durata, è costretta ad accettare le più impervie condizioni. Fin dalle prime manovre perpetrate dal partito bolscevico in seguito alla morte di Lenin, avvenuta il 21 gennaio 1924, Malevič diventa acuto osservatore della creazione di un nuovo sistema cultuale in grado di rafforzare il legame tra lo Stato e la società mediante l’istituzione di un feticcio mantenuto artificialmente in vita quale “simbolo identitario essenziale” (Brossat, 1997, p. 172, trad. mia) per la tenuta stessa del tessuto politico sovietico: un vero e proprio “fantasma”, secondo le parole usate dall’artista, che “diventa invulnerabile e trattiene in suo potere tutti coloro che hanno una memoria” (Malevič, 1976, p. 319, trad. mia), indirizzando e orientando le loro azioni, guidando senza interruzioni il loro movimento e con ciò lo stesso divenire entro un orizzonte che è al tempo stesso di origine e di destino. Allo scopo di sventare il panico di una situazione in preda all’anomia, stretta tra la rivoluzione e la guerra civile, lo zelo con cui il partito si impiega nel celebrare la memoria di Lenin segna presto l’avvio di quella “rituale esaltazione del capo” (Carr, 1965, p. 326) tanto odiata dallo stesso Lenin da risultare non solo estranea alla stessa tradizione bolscevica1, ma perfino in grado di decretare, con il proprio successo, qualcosa come una deviazione impensabile, un tradimento inatteso dell’evento rivoluzionario stesso. Al fine di trasporre il nome e la figura di Lenin in un simbolo tale da racchiudere in sé la pretesa infallibilità del potere centrale, si dimostra infatti necessario riabilitare forme religiose allestendo una nuova ritualità, “che mantenesse alto il coinvolgimento emotivo di quelle masse rivoluzionarie, convinte di partecipare alla costruzione di un progetto totalmente nuovo e inaudito nel mondo” (Piretto, 2001, p. 16). La presenza vivente del capo scomparso sarà così ribadita attraverso la proliferazione di immagini, monumenti e rituali, ossessivamente riproposti, per consolidarne l’eredità di un simile Padre al di là di ogni corruzione, fino alla decisione di conservarne le spoglie, appositamente trattate, entro un monumentale mausoleo accessibile ai visitatori.

Punto emblematico di riunificazione tra corpo e simbolo, la salma di Lenin, con la sua esposizione significante, attira e lega i soggetti alla sua esemplarità. La perdita del capo viene così rovesciata nella sua costante presentificazione, mediante un dispositivo ottico adibito alla permutazione della morte in eterna promessa di vita, mentre il pericolo di dispersione della massa (ora che la “lacrima di Batavia” ha visto la sua punta spezzarsi) è scongiurato dall’erezione di un monumento funebre volto a seppellire la morte stessa: nella sua staticità apparente2, il mausoleo dimostra la capacità di orientare il movimento della politica e delle masse, facendo del corpo vivo-morto del capo qualcosa come una vera e propria forza gravitazionale, riconosciuta nella sua capacità di mantenere aperto lo spazio politico appena inaugurato. Tuttavia, come non mancherà di osservare lo stesso Malevič, tale spazio di conservazione, benché inaugurato nell’urgenza di difendere la rivoluzione, finisce per scambiare surrettiziamente il divenire incalcolabile proprio di quest’ultima con un falso movimento, con un “culto statico. La fluidità dinamica è diventata statica. […] Poiché è stato stabilito un centro, si è verificata di conseguenza una rotazione statica” (Malevič, 1976, pp. 325-326, 334, trad. mia). E ancora: “La parola sacra, la deificazione, ha avuto per la religione lo stesso significato di una tecnica di preservazione. Ogni religione è statica” (p. 352, trad. mia). Nonostante le legittime perplessità che quest’ultima asserzione può suscitare, converrà piuttosto riconoscere la tempestiva precisione del paragone qui usato, tale da esporre senza reticenze la vera posta in gioco della deificazione forzata del leader morto: anziché proseguire l’opera di Lenin pur in assenza di quest’ultimo, in modo che tale opera non fosse solo opera di Lenin, i suoi discepoli finirono per conservare l’immagine di Lenin benché al prezzo del sacrificio della sua stessa opera.

Una simile volontà di controllare gli eventi mediante la staticità della pietra si trova così pienamente espressa nel mausoleo di Aleksej Ščusev, l’opera che più simboleggia il mutamento epocale provocato in seno al regime bolscevico dalla morte di Lenin, e la crescente attenzione del primo verso la sacralizzazione del secondo: un monumentale progetto pronto a riempire con la propria mole non solo il vuoto prodotto dalla morte e attorno a cui si organizza il lutto collettivo di un intero popolo, bensì anche il vuoto di legittimità su cui avrebbe dovuto erigersi la nuova direzione del partito. Quale momento critico della rivoluzione bolscevica, rimasta improvvisamente orfana del proprio significante collettivo, la morte di Lenin viene presto reclamata nella sua valenza politica dalla Commissione per l’Immortalità, presto istituita per eternare la figura del capo defunto. Oltre a prodigarsi per la conservazione della salma mediante imbalsamazione3, essa istituisce al contempo un piano di “immortalizzazione architetturale” (secondo le parole di Leonid Krasin4) che avrebbe dovuto provvedere alla costruzione di un mausoleo appositamente progettato e tale da superare in efficacia e splendore qualsiasi luogo di pellegrinaggio: coniugando attentamente le due funzioni memoriale e pubblica, quale monumento funerario e tribuna di rappresentanza politica, l’edificio avrebbe infatti sovrapposto proprio sul luogo di esposizione della salma del capo l’esposizione dei suoi successori viventi. Il mausoleo divenne così quel dispositivo in grado di rovesciare in vittoria del partito la stessa perdita irrimediabile del proprio leader, organizzando il movimento dei popoli all’ombra della sua tribuna, da cui incessantemente si esporranno i nuovi capi investiti di legittimazione proprio in virtù del loro occupare, in tale luogo di raccolta dei corpi e dei ricordi, il fulcro della scena originaria.

Tale opera si inserisce nel lungo strascico del programma di “propaganda monumentale”, voluto dallo stesso Lenin nel 1918 con il decreto sui monumenti della repubblica, mirante a rendere i nuovi messaggi rivoluzionari il più possibile comprensibili e attraenti. Questo prevedeva lo smantellamento degli idoli del precedente regime e la loro sostituzione con nuovi monumenti il cui compito consisteva, a detta di Malevič, nell’“immortalare i ritratti” dei nuovi eroi della rivoluzione, “propagandando attraverso i loro volti quello che ciascuno voleva realizzare in vita” (Malevič, 1977, p. 212). Benché sia proprio una simile operazione a decretare l’inizio delle politiche bolsceviche relative all’arte, esso segna anche l’avvio di una prima riflessione sulle tecniche estetiche di consolidamento del regime, nonché sull’opportunità − con buona pace di ogni pretesa vittoria sul religioso − di erigere un nuovo pantheon sui piedistalli precedentemente occupati da quello appena detronizzato.

Incaricato di realizzare un primo, provvisorio mausoleo di legno per proteggere l’esposizione della salma di Lenin sulla Piazza Rossa, Ščusev procedette alla costruzione di una forma geometrica scomponibile in tre volumi a base rettangolare, uno dei quali allestito da camera mortuaria. La struttura iniziale, inadatta al compito di accogliere il costante flusso di visitatori in pellegrinaggio, lasciò presto il posto a una seconda costruzione, sempre in legno, ma più maestosa e sacrale nel suo esplicito richiamo alle architetture funerarie dell’antichità. Nemmeno quest’ultimo riferimento venne lasciato al caso o alla semplice fantasia dell’artista, poiché ogni forma era funzionale al fine ultimo di celebrare la persistenza del leader pur di fronte alla sua morte (è lo stesso Ščusev a rammemorare la sfida offerta da una simile impasse: “Cercai analogie in tutta la storia dell’architettura. La forma della piramide la trovavo non consona per il mausoleo, ‘Lenin è morto, ma il suo operato vive’, ecco l’idea che mi sembrava dovesse esprimere l’architettura del mausoleo” (A. Ščusev, citato in Rossi, 2017, p. 154)). Solo nel 1929, dopo un infruttuoso concorso che decretò la vittoria della forma già attuata, si procedette alla sua edificazione permanente in granito rosso, marmo, porfido e labradorite, una scelta che, con le sue forme geometriche e la sua gamma coloristica, non mancava di segnalare come l’architetto, pur discostandosi dall’avanguardia, ne avesse per lo meno incorporato gli stilemi (Collier, 2011). Conclusosi con la riconferma della precedente configurazione, ormai divenuta punto di riferimento sulla Piazza Rossa, il concorso indetto cinque anni prima per trovare una nuova forma al mausoleo vide coinvolti numerosi architetti e progettisti, i quali proposero diverse variazioni sul medesimo tema monumentale, ricorrendo a figure ormai familiari quali la piramide, già ipotizzata e poi scartata, o lo stesso cubo a cui era ispirato anche il progetto di Ščusev.

Anche per la conservazione della salma si fece ricorso a un immaginario lungamente consolidato: inizialmente giustificata quale misura temporanea per permettere l’ultimo saluto dei fedeli, l’esposizione fu poi convertita in un’incessante operazione di preservazione. Solo in tal modo, infatti, solo decretandone in qualche modo una vita eterna al di là dell’effettivo decesso (“Lenin è morto, ma il Leninismo vive”, oppure “Anche se abbiamo perso Ilich, abbiamo ancora Lenin”5), si sarebbe reciso quel nodo gordiano che univa indecidibilmente la volontà di celebrare “la costante dinamicità dell’eroe sovietico” con “l’inconsueta necessità di doverlo celebrare da morto” (Piretto, 2014, p. 189). Per tutte e tre le varianti del mausoleo, venne allora previsto un medesimo sarcofago trasparente, in grado non solo di esporre ai visitatori la salma del leader, ma di mostrarla chimicamente intatta e incorrotta, confermando e perfino superando tecnicamente la credenza ortodossa secondo la quale il corpo dei santi sarebbe persistito inalterato dopo la morte. Così, riconoscerà Malevič, sarà proprio confiscando gli stessi dispositivi ideologici del cristianesimo precedentemente avversato, che la nascente religione leninista potrà procedere alla “deificazione” del suo capo, alla “creazione di uno spirito guida svettante nei cieli” (Malevič, 1976, pp. 334-335, trad. mia) e posto al riparo da ogni avversità terrena.

3. Dislocare Lenin nella quarta dimensione

Il concorso per la revisione del mausoleo provvisorio non fu l’unico ad essere bandito allo scopo di consolidare il culto del leader morto. Le autorità di numerose città indissero ulteriori campagne per la costruzione di nuovi monumenti, tanto da rimodellare radicalmente e nel più breve lasso di tempo la fisionomia delle piazze sovietiche. Lo stesso Malevič non mancò di partecipare a uno di questi concorsi, presentando un monumento a Lenin che verrà prontamente scartato dalle autorità competenti di Pietrogrado. Il settimanale newyorkese «ARTNews», nella sua edizione del 5 aprile 1924, in un articolo intitolato Bolshevism Balks at Bolshevist Art, commenterà con queste parole lo scacco della proposta suprematista:

Malevič, che, come tutti gli altri artisti bolscevichi, aveva lavorato per rappresentare la grandezza di Lenin in un modello per il suo monumento, mostrò orgogliosamente un enorme piedistallo formato da una massa di strumenti e di macchine agricole e industriali. In cima a tutto c’era la “figura” di Lenin: un semplice cubo senza nessuna particolare indicazione. “Ma dov’è Lenin?” chiesero i giudici all’artista. Con aria offesa egli indicò il cubo: chiunque di loro avrebbe potuto vederlo, se avessero avuto un’anima, aggiunse. Ma i giudici rifiutarono senza esitare quell’opera d’arte. Deve esserci una reale immagine di Lenin (così ragionarono), se a essa dovrà ispirarsi anche un semplice contadino (Clark, 2005, p. 215; Akinsha, 2007, p. 156).

Nel considerare la proposta di Malevič, nonché il giudizio con cui essa è stata respinta, si dovrà anzitutto evitare l’errore di rubricarla al rango di mera provocazione, come se l’artista avesse voluto porsi su un piano del tutto altro, propriamente elitario, rispetto a quello del “semplice contadino” a cui l’esito del concorso, in fin dei conti, sarebbe stato rivolto. Non ci si deve infatti scordare di quanto Malevič e i suprematisti, al pari di altri esponenti dell’arte d’avanguardia, fossero sinceramente convinti della portata comunicativa − solo provvisoriamente avanguardistica − dei propri gesti, ritenuti in grado di inaugurare significazioni in sintonia con le nuove forme di vita che andavano sperimentandosi (come riferì El Lisitskij, citando le copertine disegnate dallo stesso Malevič ed esposte dai contadini a fianco delle icone, “il villaggio russo da parte sua si riconobbe nel suprematismo” (Lisitskij, 1992, p. 331)). Il progetto sottoposto da Malevič, d’altra parte, non risponde nemmeno a mere esigenze di continuità stilistica, secondo l’applicazione sistematica dei criteri della serialità − il frequente ricorso alla figura del quadrilatero già sperimentato negli anni precedenti − o della riconoscibilità − l’applicazione di quella stessa figura che di lì a poco sostituirà perfino la firma dell’artista.

Esso piuttosto procede da una riflessione squisitamente teologica sulla figura di Lenin, che Malevič consegna ad alcune annotazioni scritte di getto nel 1924 (datate 25 gennaio, ossia a soli quattro giorni dalla morte del primo6), e che tentano di rendere conto della orchestrale operazione teologico-politica che si sta svolgendo tra i ranghi bolscevichi, proprio là dove, insospettato, “lo spirito religioso attendeva celato la morte del materialista” (Malevič, 1976, p. 332, trad. mia). Malevič non nasconde come tale evento costituisca un punto di rottura, vero e proprio punto di non ritorno, che segna l’irreparabile divergenza tra la linea generale del partito e la prospettiva dell’avanguardia, in un momento in cui il carattere distruttivo di quest’ultima non si trova più diretto “contro il passato, ma contro la nuova società socialista con i suoi nuovi modi di vita” (Groys, Rancière, 2019, p. 24, trad. mia)7. In queste note vengono così convocate tutte le questioni che da anni assillavano l’artista circa il rapporto tra arte e materialismo, così come tra suprematismo e socialismo, ma ora declinate secondo una nuova angolazione fornita dall’evento epocale della morte di Lenin:

La coscienza o il pensiero materialisti sono ancora così deboli nell’uomo che, nell’ora della morte, la sua attitudine materialista verso il mondo prende una piega religiosa e artistica, e se non ha avuto tempo per volgersi a Dio mentre era in vita, una volta morto sarà mutato in un’immagine attraverso la quale i suoi discepoli desidereranno salvare se stessi, oppure desidereranno salvare lui e il suo corpo dalla morte che lo ha colpito nel processo dei movimenti della materia: allora essi sono costretti alla preservazione della sua immagine mediante le arti. Così egli è stato trasformato in un’immagine, benché il suo corpo sia stato conservato qui mediante l’imbalsamazione, è stato in altre parole trasposto in quello stato fantasma che è fisicamente, materialmente indistruttibile, indivisibile, al di là degli elementi, assoluto (Malevič, 1976, p. 318, trad. mia).

La necessità di vedere Lenin e di riconoscerne l’immagine, di elevarne la figura contro l’inquietudine del vuoto, quel “bisogno di immagini e reliquie” (ib., trad. mia) così strenuamente difeso dalla giuria, finisce allora per giustificare un ritorno, dopo anni di sperimentazioni artistiche e creazioni non oggettive, alle precedenti forme imitative della pittura e della scultura, ossia a quelle forme di devozione artistica e religiosa che erano diventate il principale bersaglio della pratica rivoluzionaria: “ora la gente torna nuovamente a interessarsi all’arte, un’arte che è considerata al pari di una serva, di un lacchè o di una domestica nell’atto di abbigliare la sua signora. Essa accompagna lo Stato e i suoi sant’uomini, fornisce agli eroi ideologici un volto superiore e artisticamente splendido” (p. 327, trad. mia). Non è un caso che, nelle riflessioni di Malevič, arte e religione si trovino intimamente intrecciate, dal momento che proprio “la fissazione delle immagini fantasma è l’occupazione dei preti e degli artisti” (p. 320, trad. mia), in perfetta connivenza con gli antichi detentori del potere (o meglio, con le antiche forme di detenzione del potere, forme a cui anche i nuovi detentori non hanno mancato di ricorrere nella loro urgente ricerca di immagini seducenti per le masse):

La religione, così come l’arte, deve essere annientata, in quanto fenomeno inventato che non proviene dal senso della realtà proprio al materialismo scientifico. Essa tuttavia può essere annientata solo una volta annientato lo stato, quando ogni grande “Lui” sarà abbattuto in un piccolo “lui” […]. Pertanto è necessario guarire queste persone, ossia annientare il ricordo in cui questo fantasma o questa immagine persistono, oppure ucciderlo, ad esempio distruggendo il teschio, liberando la materia dall’immagine fantasma […]. Si dovrebbero annientare le chiese nello stesso modo con cui si dovrebbero annientare le Accademie d’Arte (pp. 319-320, trad. mia).

L’iniziativa di presentare una proposta di mausoleo, benché sembri muoversi in direzione contraria, ossia verso la celebrazione del leader defunto, può essere piuttosto letta come un tentativo estremo, un estremo compromesso, di scongiurare la deriva teologico-politica dello stato sovietico pur al prezzo di contaminare la propria stessa opera con una certa carica mitologica e religiosa8. Non bisogna qui scordare come la missione trasformativa adottata dall’avanguardia fosse anzitutto quella di produrre, in primo luogo artisticamente, una rivoluzione delle forme di vita: sarà tale obiettivo a condurne i passi verso una convergenza, pur temporanea, con i movimenti politici intenti a promuovere la propria rivoluzione delle forme di vita. Lo stesso Malevič, così come non mancherà, pur nella totale diffidenza verso i rapporti di potere in corso, l’occasione di inserirsi nelle nuove istituzioni socialiste (come nell’esperienza di Vitebsk), allo stesso modo non perderà nemmeno la possibilità di imprimere la sua posizione radicale perfino in seno alla “manipolazione degli archetipi religiosi profondamente radicati nella mentalità nazionale” (Shatskikh, 2019, p. 68, trad. mia) e presto riattivati in vista del nuovo culto sovietico. Si tratta, d’altra parte, di una manovra in linea con quanto Malevič andava scrivendo altrove negli stessi anni, esprimendo l’urgenza strategica di intervenire nei processi di formazione dello stesso immaginario sociale, quale dimensione insopprimibile anche di fronte a qualsiasi critica dell’ideologia, al fine di “sgomberare questo immaginario delle immagini per innalzarlo […] alla dignità dell’iconico” (Martineau, 2015, p. 659, trad. mia). Il ricorso, anche discorsivo, al concetto di icona, così frequente fin dai tempi del Quadrato nero su bianco, non si limita a connotare l’opera e il pensiero dell’artista come intimamente “permeati di pathos religioso” (Petrova, 2003, p. 90, trad. mia), come se questo costituisse null’altro che una sua particolare idiosincrasia: esso, al contrario, rivela la qualità squisitamente religiosa della posta in gioco connessa al conflitto in atto tra suprematismo, da un lato, e nuova religione politica leninista dall’altro.

Esemplare in tal senso è allora l’uso del cubo quale forma privilegiata, a patto che non si riconosca in una tale operazione il tentativo di simboleggiare qualcuno nella sua unicità, tanto ostinato e radicale è il rifiuto di contribuire all’opera di divinizzazione del leader defunto mediante la produzione di qualcosa come un’icona leninista (d’altra parte, ricorda Malevič, se gli artisti cristiani si cimentarono nell’impresa di inventare per il Cristo un ritratto che fosse riconoscibile agli occhi dei suoi fedeli, come non attendersi la stessa operazione anche da parte dei seguaci di Lenin, altrettanto coinvolti come i primi nella produzione di santità e stabilità?). Il ricorso al cubo quale oggetto paradossalmente non oggettuale − quale oggetto nuovo che spalanca allo spettatore non le porte della raffigurazione, bensì quelle dell’intuizione di una svolta impressa dall’agire umano al corso degli eventi − fa così segno all’incommensurabilità radicale di cui Lenin ormai è nome, tale da mettere in scacco qualsiasi pretesa oggettiva di raffigurabilità:

il punto di vista secondo cui la morte di Lenin non è morte, secondo cui è vivo ed eterno, è simbolizzato nel nuovo oggetto che ha l’aspetto di un cubo. Il cubo non è più un corpo geometrico. In questo nuovo oggetto noi tentiamo di raffigurare l’eternità, di creare una circostanza grazie alla quale la vita eterna di Lenin sarà affermata, la vita eterna che ha sconfitto la morte (Malevič, 1976, p. 344, trad. mia)9.

E poco prima, quasi ad anticipare il salto vertiginoso implicato in tale concezione, che si vuole all’altezza di un divenire ormai irreparabilmente segnato, Malevič arriva ad affermare che “il cubo è il compimento di tutti i frastuoni e tutte le disgrazie che sono esistite per il fatto di essere uni-dimensionali, bi-dimensionali, o tri-dimensionali” (p. 324, trad. mia). Il riferimento alla “quarta dimensione”, vero e proprio significante vuoto dell’esoterismo fin de siècle, non è certo qui casuale, né frutto di ricercatezza poetica. Malevič, d’altra parte, già in precedenza era ricorso a tale concetto, non per attestare una qualche fede nell’avvento di una nuova era dello spirito (secondo l’accezione del termine resa celebre da Ouspensky (Henderson, 1975-1976)), quanto piuttosto per indicare l’erosione dello spazio tradizionale, oggettivamente costruito e pertanto reso disponibile alle più svariate tecnicizzazioni culturali. Esso implica allora, secondo la prospettiva malevičiana, la sostituzione di qualsiasi pretesa di fondazione assoluta con una sorta di eccitazione − termine che ricorre con insistenza nei suoi testi − o di estasi verso un non-sapere inafferrabile e inutilizzabile; in altri termini, con “un’epifania che non rimanda ad altro, ma che si chiude in se stessa, assumendo così un carattere apofatico” (Di Giacomo, 2014, p. 29). Il cubo con cui Malevič tenta di segnare l’assenza di Lenin finisce pertanto per costituire qualcosa di simile a quei simboli riposanti in se stessi che, per Bachofen, decretavano la radicale illeggibilità − la radicale inutilizzabilità, poiché esposte e tuttavia indisponibili − delle antiche vestigia funerarie.

4. Annientare i fantasmi

Si confronti ora tale posizione con le implicazioni concernenti l’effettivo mausoleo costruito per Lenin. Il progetto di Aleksej Ščusev segue con apparente coerenza la proposta di Malevič, da un lato mantenendo la figura del cubo e ingrandendone esponenzialmente le dimensioni fino a farla coincidere con l’intero monumento: come lo stesso architetto affermerà nel corso di una riunione della Commissione per i funerali di Lenin, la scelta della forma è giustificata dal fatto stesso che “Vladimir Ilich è eterno… Come onorare la sua memoria? Come esporremo la sua tomba? In architettura il cubo è eterno. Tutto procede dal cubo, l’intero spettro della creazione architettonica. E allora che il mausoleo, da noi eretto quale monumento per Vladimir Ilich, derivi da un cubo” (Ščusev, citato in Tumarkin, 1983, p. 189, trad. mia). Dall’altro lato, esso ricorda, a tutti i giudici impazienti di mostrare una reale immagine del capo defunto, che non è richiesta raffigurazione per supplire all’ininterrotta persistenza di un leader ancora presente, ancora miracolosamente visibile nella sua ostentata presenza (nella sua ostensione: “Lenin fu sepolto in una bara di vetro per nessun’altra ragione se non quella per cui avrebbe dovuto essere visto come un’eucaristia” (Malevič, 1976, p. 353, trad. mia)). Una coerenza del tutto apparente e lungi dal sostenere alcuna comunione di intenti: benché simile nel riproporre i motivi geometrici volgarizzati dal Suprematismo, la proposta di Ščusev non sopprime l’icona con il mausoleo, ma erge quest’ultimo a colossale teca contenente la vera immagine del capo10. La mancanza, in tutti e tre i mausolei, di una puntuale e monumentale raffigurazione di Lenin, come quella che sarà invece posta da Boris Iofan a coronamento del suo progetto per il glorioso Palazzo dei Soviet11, non segna alcuna evidente discontinuità celebrativa rispetto a quest’ultimo.

Al contrario, la proposta artistica e architettonica di Malevič, sottraendosi radicalmente alle forme di celebrazione del corpo morto del leader, finisce per seppellire con questo ogni pretesa fondazione di una teologia politica. Contro i preti e gli artisti intenti a costruire un’immagine − e un immaginario − di Lenin, Malevič denuncia il carattere teologico e dogmatico della nuova religione politica, intenta a smentire di fatto ogni conquista materialista entro la fondazione di un culto che in nulla si sarebbe discostato da quello un tempo tributato allo zar. Citando testualmente le parole che Nadežda Krúpskaja, preoccupata fin da subito per la rapida glorificazione del marito defunto, aveva consegnato alla «Pravda» − “non erigetegli monumenti, non intitolategli palazzi” (Krúpskaja, citata in Carr, 1965, p. 326) −, Malevič aggiunge che “questa fu una delle migliori attitudini. Ciò significa che egli deve rimanere non-oggettivo […]. Dobbiamo evitare di costruire monumenti a ‘Lui’, poiché un monumento è un’immagine” (Malevič, 1976, p. 356, trad. mia)12.

Qui si comprende come il tentativo compiuto da Malevič di disattendere ogni nuova fondazione di una teologia politica sia parte dello stesso percorso artistico che porta a individuare nel Suprematismo, quale slancio verso la non-oggettività e l’astrazione, “il prisma per l’annientamento dei fantasmi” (p. 348, trad. mia), lo strumento di guarigione non solo dalla loro presenza ossessiva, ma anche dal costante desiderio della loro fruizione: respinta nella quarta dimensione, consegnata alla non-oggettività, la figura di Lenin smette non solo di essere di questo modo (in apparente sintonia con la deificazione operata dal partito) ma anche di essere in questo modo, come, al contrario, l’opera di imbalsamazione vorrebbe ricordare. Questa pare essere, per Malevič, la sola prospettiva all’altezza di una rivoluzione senza condizione, ossia in grado di attraversare − quale unica opzione percorribile per mantenersi fedele a se stessa − la destituzione della propria stessa grandezza:

I leader, come i profeti, si fanno sempre apparire più piccoli mediante la semplicità. I discepoli elevano tale semplicità prima a grandezza e poi al grado di santità, l’immagine all’eternità. Sono tutti passi verso la deificazione […]. Tali gradi contraddicono la natura materiale nella quale non vi è né il grande né il piccolo, non l’eterno né il mortale o l’immortale, nessuno che presti giuramento a chissà chi poiché solo ciò che è statico presta giuramento, tutto è non-oggettivo nel tutto. Quale atomo è più ingegnoso o stupido, più debole o più forte, quale atomo possiede di più e quale di meno, e forse il bene stesso esiste, come un’idea? Forse che il Sole presta giuramento alla Luna, o la Luna al Sole? (p. 358, trad. mia).

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Notes

1 Già nel 1919 Nikolaj Punin si era espresso nei seguenti termini circa la sconvenienza, tanto estetica quanto contenutistica, dei recenti monumenti realizzati a scopo propagandistico: “l’idea di erigere monumenti ai grandi eroi della rivoluzione non è davvero comunista. Gli eroi non esistono e tantomeno i grandi eroi. Il tempo dell’interpretazione eroica della storia è ormai tramontato” (Punin, 1978, p. 205). Retour au texte

2 Di una tale staticità apparente, prodotta attraverso un metodo dinamico di preservazione del corpo quale “processo infinito” e “tecnica di perpetua rigenerazione della sovranità leninista”, ha scritto importanti pagine Alexei Yurchak (2015). Retour au texte

3 Sulle vicende della salma di Lenin e sulle discussioni che portarono alla sua imbalsamazione, si vedano le testimonianze di uno dei protagonisti dell’operazione, figlio dello scienziato che per primo perfezionò la formula di conservazione del corpo in Zbarskij, Hutchinson, 1999. Retour au texte

4 Commissario del popolo per il commercio estero, vicino alle posizioni di Gorkij e Bogdanov in merito alla costruzione rivoluzionaria di una nuova umanità divina, Krasin fu tra i protagonisti che contribuirono a istituire la Commissione per l’immortalizzazione di Lenin. Sull’evenienza che questa commissione non dovesse solo limitarsi a immortalizzare il corpo e l’immagine del leader, ma procedesse inoltre in direzione di una sua eventuale resurrezione, resa possibile dai progressi della scienza sovietica (secondo la diffusa credenza per cui il comunismo avrebbe finito per sconfiggere la morte stessa), si veda quanto scrivono Tumarkin, 1983, pp. 166-206; Bernstein, 2019, pp. 81-109. Retour au texte

5 Su questa peculiare costruzione dei due corpi del leader, la quale presenta numerose analogie con la dottrina studiata da Kantorowicz, si veda Tumarkin, 1983, pp. 166-251; Yurchak, 2015, pp. 128-136. Retour au texte

6 Il curatore dell’edizione inglese segnala che gli appunti vennero arricchiti da nuove riflessioni nella primavera dello stesso anno, in risposta alla lettura del libro di Preobraženskij su Lenin: Malevič, 1976, p. 363, nota 41. Retour au texte

7 Emblematico è, in tal senso, il nuovo valore assunto dal Quadrato nero quale nuova icona suprematista, prima in concorrenza con l’angolo dell’icona ortodossa e ora in conflitto con la diffusione dei ritratti di Lenin nell’angolo rosso delle case; si veda in proposito Hansen-Löve, 2019. Retour au texte

8 L’operare di Malevič, ancor prima della sua opera, non è certo esente da una carica al contempo mitologica e religiosa, palesatasi spesso tanto negli scritti quanto nelle spiegazioni delle proprie opere (il Quadrato nero come “icona del nostro tempo” e “immagine di Dio”), quanto nelle stesse tecniche di esposizione delle opere, modellate mimeticamente sulla ritualità ortodossa. Questa carica sarà di volta in volta prolungata, estremizzata, desacralizzata o disinnescata dai suoi colleghi, continuatori e oppositori. Sia il caso di Rodčenko, che con i suoi monocromi (gli “ultimi quadri” secondo la celebre definizione di Tarabukin) ha “inaspettatamente demitologizzato” i quadrilateri suprematisti (Andreyeva, 2019, p. 56, trad. mia). Sulla mitologizzazione dell’opera in quanto tale, capace di diventare non solo una moderna icona ma una vera e propria pathosformel warburghiana, si veda l’interessante catalogo di Goryacheva, Karasin, 2007. Retour au texte

9 Non ci si deve tuttavia lasciar ingannare dall’uso dell’espressione “nuovo oggetto”, come se l’artista stesse procedendo a una radicale sconfessione delle proprie posizioni. Qui, piuttosto, vale quanto Malevič stesso aveva affermato circa i quadri di Léger, entro i quali, nonostante l’ipotesi di un allontanamento dal non-oggettuale per l’effettiva presenza di oggetti, “tutti gli oggetti non hanno avuto altra funzione che quella di perno, un perno di cui si sono rivestite le forme senza-oggetto” (Malevič, 2015a, p. 484, trad. mia). Retour au texte

10 Cfr. Piretto, 2001, p. 71: “Il cubo del primo mausoleo realizzato in legno avrebbe preso il posto dell’icona, ma il concetto e le proprietà sarebbero rimaste le stesse”. Retour au texte

11 Sostenuto da Stalin per oltre vent’anni, fino alla sua morte, e tuttavia mai realizzato per le insormontabili difficoltà tecniche a cui la costruzione andava incontro, il palazzo progettato da Iofan, simile nella forma al progetto di Ščusev ma ampliato su scala esorbitante, avrebbe superato i 400 metri di altezza, mentre la statua di Lenin posta a suo coronamento, e alla quale l’edificio stesso avrebbe dovuto fare da base, sarebbe arrivata a toccare i 100 metri: “in quest’ottica, il palazzo più grande del paese sarebbe stato una sorta di mausoleo ingigantito in dialogo con il mausoleo della Piazza Rossa e avrebbe sancito definitivamente il culto di Lenin” (Rossi, 2017, p. 157). Si veda anche: Sudjic, 2011, pp. 54-73. Retour au texte

12 Ma si veda anche p. 333, dove l’autore sembra anche citare le stesse parole usate in primavera da Vladimir Majakovskij nel suo editoriale di «LEF» (“Studiate Lenin, non canonizzatelo. Non osate fondare un culto sul nome di un uomo che ha lottato per tutta la sua vita contro ogni sorta di culto”): “ha lottato per tutta la sua vita contro il santuario nell’angolo, liberandosi da questo e volendo liberare anche gli altri. Ha voluto guidare chiunque fuori dall’angolo delle icone, ha combattuto per la realtà, si era opposto tanto a Dio quanto al diavolo, e mentre era in vita sembrò passare inosservato il fatto che la rivoluzione stava recando con sé un nuovo culto coi suoi nuovi diavoli trasformati”. Per l’articolo di Majakovskij, si veda Tumarkin, 1983, pp. 235-236. Retour au texte

Citer cet article

Référence électronique

Marco Tabacchini, « Seppellire la teologia politica. Malevič, Lenin e il mausoleo », K [En ligne], 9 | 2022, mis en ligne le 01 décembre 2022, consulté le 17 février 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/697

Auteur

Marco Tabacchini

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