Verso il nulla creatore

Malevič e l’utopia dell’inattività contro il produttivismo sovietico

DOI : 10.54563/revue-k.702

Résumé

Between 1921 and 1922, while in Vitebsk, Malevič wrote three theoretical texts that help to understand his particular position within Soviet Russia. His critique of the catastrophic nature of “practical realism” and the exaltation of inactivity underlie a condemnation of instrumental reason and progress at the basis of machine civilization but also a warning to the new Soviet regime not to fall into the trap of productivism so as not to betray the promises of revolution.

Plan

Texte

Riconoscere il lavoro come una sopravvivenza del vecchio mondo delloppressione, poiché lattualità del mondo riposa sulla creazione.
Kazimir Malevič

1. Berlino, 1927

Nel maggio 1927 Malevič è a Berlino. Dopo un breve soggiorno in Polonia, il 29 marzo ha raggiunto la capitale tedesca per entrare in contatto con l’avanguardia, in particolare con i membri del Bauhaus. Visita Dessau e discute con Gropius, Moholy-Nagy, Mies van der Rohe, Kandinskij e tanti altri; nelle lettere alla moglie si dichiara entusiasta del clima di libertà e scambio culturale che ha trovato. Moholy-Nagy organizza una grande esposizione di sue opere suprematiste alla Grosse Berliner Kunstaustelling e cura la pubblicazione di una sua monografia come undicesimo libro della collana del Bauhaus (pubblicato con il titolo Il mondo non-oggettivo). Malevič spera ardentemente di fermarsi in Germania, ma una missiva dalla Russia lo getta nello sconforto: il suo visto per soggiornare all’estero è scaduto e non verrà rinnovato, le autorità russe gli intimano di tornare in Russia. Il 30 maggio, con la morte nel cuore, Malevič prepara un plico contenente numerosi manoscritti e taccuini e lo consegna alla famiglia von Riesen, presso cui è ospite, chiedendo di custodirlo in attesa di un suo ritorno, che auspica per l’estate del 1928, oppure, nel caso in cui non fosse più tornato, di aprirlo soltanto a distanza di venticinque anni. Creduto perso durante i bombardamenti di Berlino del 1945 che avevano distrutto la casa e ritrovato miracolosamente intatto in cantina nel 1953, il plico viene aperto; insieme ai documenti c’è un foglio recante questa sorta di disposizione testamentaria vergata a mano da Malevič:

nel caso della mia morte o della totale privazione della mia libertà, il possessore di questi manoscritti, ove voglia pubblicarli, deve studiarli a fondo e poi tradurli in un’altra lingua. Ciò perché io mi trovai, a suo tempo, soggetto a influenze rivoluzionarie e potrebbero quindi sorgere rilevanti opposizioni alla forma con cui difendo l’arte che ora (nell’anno 1927), rappresento. Questo è quanto si deve osservare. 30 maggio 1927 (Malevič, 1969, p. 8).

Quattro giorni dopo, il 4 giugno, in fretta e furia, Malevič saluta Berlino. Al suo arrivo a Leningrado viene immediatamente prelevato dalla polizia politica e sottoposto a interrogatorio. Da allora comincia un calvario personale, fisico e morale, che durerà fino alla morte nel 1935. In questi otto anni Malevič vive in povertà economica, denigrato dall’avanguardia russa come artista formalista e piccolo-borghese e controllato da vicino dalle autorità sovietiche. Nel 1928, dopo nove anni in cui si era interamente dedicato all’attività teorica, torna a dipingere e lo fa abbandonando l’astrazione. Le sue figure umane sono mute, mentre i titoli delle opere richiamano un senso permanente di angoscia che suona come una chiara denuncia dell’oppressione del potere sovietico e stalinista. I suoi contadini senza volto e senza braccia incarnano una spersonalizzazione dell’individuo che sembra la versione rurale degli automi urbani dipinti in quegli anni da Georg Grosz. Il 19 settembre 1930 Malevič viene arrestato e imprigionato con l’accusa di compiere attività di spionaggio anti-sovietica per la Germania. A fine novembre viene prosciolto e rilasciato, probabilmente per intercessione dell’amico Kirill Šutko che ricopre cariche amministrative nel governo. Morirà di cancro nel 1935, con l’ultima performance della sua vita, il celebre funerale suprematista da lui stesso progettato e messo in scena dal corteo di amici, allievi e seguaci che accompagna la sua bara per le strade di Leningrado.

2. Vitebsk, 1922

Il rapporto di Malevič con il potere bolscevico è complesso e ambivalente. Come tutti gli artisti dell’avanguardia russa, nell’ottobre 1917 egli aderisce con entusiasmo alla rivoluzione, ricevendo immediatamente incarichi importanti dal governo. Per lui la rivoluzione politica e quella estetica del Suprematismo sono accomunate dalla ricerca e dalla sperimentazione di nuove forme di vita.

Già nei primi mesi del 1918 Malevič, insieme ad altri membri dell’avanguardia, esprime critiche esplicite al nuovo potere statale in alcuni articoli scritti per la rivista «Anarchija», rivista della Federazione dei gruppi anarchici moscoviti. Quando, nella primavera-estate, i bolscevichi mettono fuori legge e reprimono duramente il movimento anarchico, chiudendo tra l’altro la stessa rivista «Anarchija», Malevič scrive all’amico filosofo Geršenzon: “mi sforzo di andare più raramente a Mosca, soprattutto dopo il raid contro l’anarchia, che considero uno degli atti più brutali; lo stivale gigantesco schiaccia la persona, che ha reso marciapiede per i propri passi” (in Todorov, 2017, p. 141).

In fuga da Mosca, nel 1919, Malevič accetta l’invito a trasferirsi a Vitebsk, nella scuola d’arte aperta da Chagall, dove si ferma fino al 1922, dedicandosi alla scrittura e all’insegnamento e dando corpo al progetto dell’UNOVIS (Affermazione delle nuove forme dell’arte) insieme all’allievo e amico El Lissitzkij, con cui spodesta Chagall e trasforma la scuola in un avamposto suprematista (Lisov, 2018, pp. 29-32). Nell’estate del 1922 Malevič abbandona Vitebsk e si trasferisce a Pietrogrado. Nel 1924, dopo la morte di Lenin, il suo attacco allo Stato sovietico riprende vigore, attirandogli un crescendo di critiche che gli costerà l’isolamento. È su queste basi che egli nel 1927 vede nel viaggio a Berlino una possibilità irripetibile di fuga e libertà.

Se l’attività del periodo di Vitebsk sembra segnare un avvicinamento, o quantomeno una tregua, di Malevič con il potere bolscevico, una lettura attenta delle opere teoriche scritte proprio in questi anni dimostra invece come egli – attanagliato da dubbi, speranze e timori – avesse colto l’essenza della grande mutazione che stava avvenendo in Russia, ovvero il passaggio verso quel produttivismo che poneva il “nuovo mondo” sovietico non sulla strada di una nuova condizione umana bensì in un rapporto di diretta emulazione e competizione con il produttivismo capitalista.

Tre sono gli scritti principali che Malevič scrive a Vitebsk tra il 1920 e il 1922 e che chiariscono questa sua visione: il più corposo, Suprematismo, il mondo della non-oggettività, redatto nel 1922, rimasto allo stato di bozze e inedito, ritrovato nel plico di documenti lasciato a Berlino (Malevič, 1969, pp. 51-240); il più celebre Dio non è stato detronizzato. Chiesa. Arte. Fabbrica, che è una stesura rielaborata e sintetica del precedente e che Malevič stampa nel 1922 per distribuirlo ai suoi allievi nel momento in cui abbandona la scuola (Malevič, 2013, pp. 278-301); e infine il breve opuscolo Linattività come attività suprema delluomo, anch’esso stampato nel 1921 per gli stessi allievi (Malevič, 2012).

3. La Fabbrica e la catastrofe del costruito

Alla base della critica su cui Malevič imposta i suoi saggi sul Suprematismo c’è un feroce atto di accusa alla “gabbia d’acciaio” della razionalità strumentale del mondo occidentale sedimentata attraverso i secoli e culminata nella civiltà delle macchine del Novecento. Il mondo oggettivo prodotto dal connubio tra “la tecnica scientifica e la politica economica” (Malevič, 1969, p. 56) – che egli chiama “realismo pratico” o “civiltà pratico-oggettiva” – ha una natura essenzialmente catastrofica. La linea storico-temporale del progresso è, per Malevič, sorprendentemente vicino a quanto sostiene Walter Benjamin negli stessi anni, un accumulo di catastrofi che si è svelato in modo clamoroso nella Prima guerra mondiale: “non possiamo tuttavia ignorare a quali risultati il progresso abbia condotto l’umanità, seguendo la via della salvezza ʻfuturaʼ e della perfezione pratico-oggettiva: reticolati, cannoni, gas, tutto nel nome del benessere futuro e della perfezione materiale” (p. 156).

Per Malevič la civiltà moderna è letteralmente “un manicomio” (p. 58); l’uomo, spinto da una monomania utilitaristica, ha spezzato l’unità perfetta del cosmo, volendo “diventare egli stesso natura onnipotente” (p. 78) e vive in una condizione di perenne angoscia: “la massa crede di aver raggiunto la felicità terrena quando trasforma una foresta in mobili, quando spreca tutto il granito in costruzioni, quando impiega tutto l’oro per farne anelli. [...] L’uomo posseduto dall’oggetto assomiglia ad un pazzo che voglia mettere tutti i tesori della terra nelle sue tasche” (pp. 126-127). Nel configurare il mondo “come un magazzino colmo dei più diversi oggetti utili” (p. 179), l’uomo ha confuso i mezzi (tecnici) per la propria liberazione in un fine (il progresso) che non trova mai soddisfazione e che lo irretisce sempre più nel regno delle necessità e del lavoro.

L’uomo si sforza, per tutto il corso della vita, di disporre e regolare tutte le cose in modo da raggiungere il benessere massimo. Invece di camminare semplicemente impara a marciare, si adorna con differenti mostrine e decorazioni, canta vari inni nazionali, sconvolge l’aria con apparecchi fatti apposta per questo, crea fabbriche e poi le distrugge, costruisce ponti e poi li fa saltare. Può creare e scoprire ciò che vuole ma, contemporaneamente, crea e scopre sempre i mezzi di distruzione adeguati (p. 234).

La scienza e la tecnica al servizio dell’economia – che egli chiama la Fabbrica – sono un riflesso nefasto dell’idea “che l’intero mondo sia stato creato solamente per lui e gli appartenga” (p. 159) e gli scienziati, nel loro specialismo, sono come operai alla catena di montaggio, elementi “di un meccanismo del mondo che gli rimarrà sconosciuto e di cui gli verrà trasmessa una sola funzione” (p. 110), ingranaggi “del brutale processo di meccanizzazione” (p. 111) del mondo stesso. Il progresso fondato su produttivismo e utilitarismo si illude di trasformare il mondo in Fabbrica attraverso una vittoria “assurda” contro la natura che si potrà risolvere soltanto e tragicamente nella “catastrofe del costruito”:

che l’uomo ci dica quando verrà̀ il giorno in cui la sirena suonerà̀ per l’ultima volta nella fabbrica del lavoro, il giorno in cui la scuola tecnica scientifica annuncerà̀ che tutto è finito, che è venuto l’ultimo turno, che “tutto” è conosciuto e che l’operaio della fabbrica potrà gridare: “basta, il lavoro è terminato, tutto è stato analizzato. Io sono sulla vetta dei mondi, li ho assorbiti, ho conquistato tutte le perfezioni, io sono Dio” (Malevič, 2013, p. 294).

4. La Chiesa e il paradiso perduto

Il Dio che “non è ancora stato detronizzato” per Malevič è lo spinoziano e panteista Deus sive natura, ovvero “l’insieme delle cose della creazione”, un universo che vive in un perfetto equilibrio e in un eterno presente armonico: “la natura è celata nell’infinito e nella diversità̀ dei suoi aspetti, essa non si svela nelle cose, nelle sue manifestazioni, non possiede né linguaggio né forma, essa è infinita e immensa” (p. 281).

La maledizione dell’uomo è nata dal suo separarsi dalla natura e dal volerla dominare attraverso un pensiero e una prassi finalistici che le sono estranei. Su queste basi, dopo aver demolito la Fabbrica, Malevič accusa la Chiesa (la religione). Se il paradiso è il luogo in cui all’uomo era stata data “la possibilità di darsi completamente alla contemplazione del movimento perpetuo, infallibile e autoriproducibile della tecnologia divina, edificata senza il concorso della scienza, delle università, delle lettere, degli ingegneri, dell’intelligencija, degli operai e dei contadini” (p. 285), la Chiesa sostiene che egli ne sia stato cacciato per aver violato un divieto, corrispettivo del peccato che ha creato un suo rapporto di sottomissione rispetto alla legge divina. Poiché però il suo corpo e la sua anima appartengono a Dio, cioè alla natura, e “il mondo è privo di peccato”, l’uomo, secondo Malevič, non può avere colpa: “Dio non può punire l’anima, perché essa è una sua parte, né il corpo in quanto immortale. Quindi non ci sono castighi in Dio” (p. 297). Il Deus sive natura, governato dalla fiamma cosmica dell’eccitazione, è innocente e “non conosce né divieti, né limiti, né frontiere, né leggi” (p. 285), e l’uomo che vuole ritrovare la propria innocenza e l’armonia in esso deve abbandonare il senso di colpa che ha trasposto nella volontà di potenza del realismo pratico.

Per riconquistare il paradiso perduto l’uomo deve dunque emanciparsi dalla “storia della sofferenza, del sudore, delle mani callose, del sangue versato, la storia del lavoro” (p. 286), perché “Dio è il riposo, il riposo è la perfezione” (p. 295). Mentre il mondo oggettivo dell’economia e dello Stato è basato su necessità, costrizioni e artificiosità – con il loro corollario di leggi, carceri, guerre e manicomi –, quello non-oggettivo della creazione sarà fondato su “libertà, indipendenza, naturalezza” (Malevič, 1969, p. 64). Come è stato giustamente notato (Carboni, 2019), la visione anti-teleologica della natura di Malevič, oltreché essere erede diretta della cultura romantica, affonda, ben più indietro nel tempo, nel pensiero di Nicola Cusano e prima ancora del Meister Eckhart; il suo insistere però sull’innocenza della natura e sulla possibilità di un paradiso umano privo di peccato dovrebbe far indagare sul coinvolgimento di Eckhart con il movimento eretico del Libero Spirito (Frana, 2012; Vaneigem, 1995) per cogliere una sfumatura decisiva del pensiero di Malevič stesso.

5. L’Arte e la rivoluzione dell’inattività

Da secoli, denuncia Malevič, l’Arte è relegata al servizio dell’oggettività e del realismo pratico, ancella della Chiesa e della Fabbrica. Recentemente Jason Moore ha identificato la frattura antropocenica del Capitalismo “a partire dal 1450, con le sue audaci strategie di conquista globale, mercificazione infinita e razionalizzazione implacabile” (Moore, 2017, p. 42). Malevič condivide l’idea che un’accelerazione decisiva del trionfo del realismo pratico sia coincisa con il momento in cui l’arte rinascimentale si è soggiogata a un’ideologia del progresso che poneva la rivoluzione scientifica al traino dei bisogni del capitalismo mercantile. Cosa c’è di più simbolico della subordinazione dell’arte al realismo pratico – dell’uomo che prova a detronizzare Dio e acquisisce la fiducia incondizionata di poter “tutto sapere” – dell’uomo vitruviano di Leonardo? Cosa di più emblematico dell’Arte costretta nella dimensione mimetica, di pura rappresentazione illusoria della realtà, della prospettiva geometrica?

Con lo scivolamento dal vassallaggio della Chiesa a quello della Fabbrica – ovvero, dopo la “morte di Dio” subìto dalla prima, il tentativo di detronizzare il Deus sive natura della seconda –, l’istinto creativo dell’uomo è giunto a essere ormai totalmente asservito “alla produzione di armi, navi da guerra, aerei, ponti, strade, grattacieli. Tutte queste attività sono come ponti e scale gettati verso torri, dall’alto delle quali si spera di poter distinguere il vero valore del mondo. Una nuova torre di Babele con la quale dev’essere raggiunto il cielo!” (Malevič, 1969, p. 131). Una torre, avverte Malevič, inesorabilmente destinata a crollare nella catastrofe del costruito.

Contro tutto ciò, la non-oggettività suprematista, compimento della rivoluzione abbozzata ma non portata a termine dal Cubismo, intende invece l’atto creativo come sensibilità pura, emozione senza scopo né utilità, riflesso iconico dello stato di eccitazione e del ritmo dell’universo. Facendo tabula rasa della cultura oggettiva figlia dell’economia e dell’utilitarismo, dell’ideologia teleologica del progresso, del dominio tecnocratico sul mondo, il Suprematismo vuole dimostrare come il realismo pratico “non possa realizzare, nel migliore dei casi, se non l’aspetto tecnico della vita e quindi non possa essere lo scopo finale dell’umanità” (p. 93).

Se una società fondata sul realismo pratico è incapace di garantire la libertà, il Suprematismo, per Malevič, è l’invito a una nuova condizione umana affrancata dal dominio del lavoro e delle necessità e fondata sull’agire libero e creativo: “l’uomo può svincolarsi dal lavoro servile e dalla fatica solo con la rinuncia all’illusione di dover civilizzare tutto ciò che la circonda. […] Il Suprematismo non è che il filo conduttore destinato a svelare all’occhio il ‘nulla’ emancipato” (p. 136).

Malevič, nel pieno della propaganda della produzione sovietica, dell’incitamento di Lenin a copiare il taylorismo per lanciare il comunismo nella competizione produttiva con il capitalismo, ha il coraggio di identificare questa condizione di libertà da inseguire, “la verità effettiva dell’uomo”, nell’inattività (Malevič, 2012). Che la si voglia chiamare inattività, inoperosità, pigrizia, ozio, riposo, pace, essa è intesa da Malevič non come “madre di tutti i vizi”, secondo la morale occidentale asservita a secoli di utilitarismo, ma come “madre della perfezione”, riflesso della condizione perfetta del ritmo del cosmo. Il principio finalistico della necessità che regola la dittatura plurisecolare dell’homo economicus implica un differimento che rimanda a un domani irraggiungibile, come il paradiso della Chiesa, il principio del piacere; al contrario, l’inattività suprematista invoca l’eredità del pensiero di William Morris, Charles Fourier e Paul Lafargue. Attraverso il Suprematismo, anziché restare privilegio divino, l’infinito diventa attributo dell’uomo e si manifesta nell’attività creativa collettiva, quella in cui ogni personalità può sviluppare, “in tutta indipendenza”, le proprie caratteristiche: “tutti devono giungere all’attività creativa, cioè alla non-oggettività, in cui non esistono domande né risposte” (Malevič, 1969, p. 117).

L’uomo, secondo Malevič, è libero soltanto nel momento in cui da oggetto passivo della religione dell’utile e ingranaggio della Fabbrica diventa, tramite la sua azione creativa, soggetto agente di un mondo in perenne rinnovamento. Il valore si crea non nel razionalismo dell’economia ma nella gratuità dell’agire disinteressato. Già in Nuovi sistemi dell’arte, il primo complesso lavoro teorico di ampio respiro che pubblica per la scuola di Vitebsk nel 1919, egli stabiliva tra le risoluzioni finali imprescindibili: “12. Riconoscere il lavoro come una sopravvivenza del vecchio mondo dell’oppressione, poiché́ l’attualità̀ del mondo riposa sulla creazione. 13. Riconoscere a tutti la facoltà̀ d’invenzione e dichiarare che per la sua realizzazione si troverà̀ per ciascuno un bisogno illimitato di materiali nella terra e sopra la terra” (Malevič, 2013, p. 273).

La battaglia teorica che Malevič ingaggia con i suoi testi a Vitebsk tra il 1919 e il 1922 ha esattamente questa matrice politica: essa propone il Suprematismo come paradigma di un nuovo modo di stare al mondo, in rottura con l’ideologia del progresso e con il produttivismo della civiltà delle macchine, e mette in guardia i bolscevichi dal pericolo mortale di imboccare quel vicolo cieco.

6. Il socialismo a un bivio

L’avanguardia russa si era schierata compatta ed entusiasta al fianco della rivoluzione d’Ottobre, convinta che l’arte non dovesse più rispecchiare la vita ma, facendone parte, darle nuova forma. Così pensava anche Malevič; all’arte si dava finalmente la possibilità di emanciparsi dalla condizione di subordinazione al mondo utilitario che aveva ormai svelato la sua natura catastrofica.

Nel 1922 questa convinzione di Malevič è assediata da dubbi e ombre. I principi egualitari del socialismo – unione dei popoli e abolizione del privilegio al di là delle classi sociali, delle razze e dei confini – rimangono punti fondamentali per una trasformazione radicale della società, eppure la forma sperimentata nella Russia sovietica dimostra ai suoi occhi di essere rimasta ancorata al vecchio mondo, configurandosi come “un nuovo piano economico”: “il Socialismo è essenzialmente conforme al realismo pratico; non elimina le cose superate, ma le sviluppa ulteriormente” (Malevič, 1969, p. 129).

Per questo motivo il comunismo russo si trova a un bivio: o utilizza davvero la tecnica per liberare l’uomo dalla dannazione eterna del lavoro e delle necessità materiali e permettergli il libero dispiegamento delle proprie potenzialità, oppure diventerà ancora più oppressivo del capitalismo sulla strada della vita ridotta a economia. Nel momento storico in cui sembra identificare i mezzi della liberazione con i suoi fini, esso si condanna a una assimilazione alla storia catastrofica del progresso: “e così, la maledizione lanciata da Dio sugli uomini attraverso il lavoro riceve nel sistema socialista la più intensa benedizione. Ognuno deve mettersi in fila sotto questa benedizione. Questo è il sistema che si nasconde sotto il sistema ʻoperaioʼ” (Malevič, 2012, p. 16).

Al di là del suo stile criptico e a volte ripetitivo, il pensiero di Malevič appare sorprendentemente moderno rispetto alla critica radicale del Novecento, per le assonanze con la critica alla “religione del progresso” di Walter Benjamin, e quelle addirittura anticipatorie dell’“antiquatezza dell’uomo” rispetto alla tecnica di Gunther Anders o dell’ambivalenza della “dialettica dell’Illuminismo” di Adorno e Horkheimer; basti pensare all’accusa che egli muove allo zar Pietro per aver aperto la Russia ai “lumi” del pensiero occidentale in tutta la sua ambiguità: “io, all’opposto, lo accuso di aver rotto l’unità mentre dava accesso ad una cultura distruttiva ed apriva la finestra ad una luce estremamente equivoca e sospetta” (Malevič, 1969, p. 102).

Da un punto di vista estetico-politico, come ho sostenuto altrove (Lippolis, 2021), egli si inscrive invece nella corrente socialista-libertaria sorta con il “lusso comune” teorizzato dalla Federazione degli Artisti della Comune di Parigi e transitata da William Morris alle avanguardie espressioniste tedesche della fine degli anni Dieci che simpatizzavano per il movimento spartachista, fin sulla soglia del primo Bauhaus. Per questa corrente teorica e pratica arte e rivoluzione correvano affiancate nel momento in cui la tecnica e le macchine avrebbero affrancato l’uomo dalla schiavitù utilitarista dell’homo economicus e dalle brutture del capitalismo industriale e avrebbero aperto il tempo della vita sociale al libero gioco delle capacità creative di ognuno. Su questo crinale si muoveva anche l’avanguardia russa all’alba della rivoluzione d’Ottobre ma Malevič, a differenza di molti suoi compagni, nel 1922 percepisce che il nuovo mondo sovietico sta tradendo le promesse della rivoluzione e si sente in dovere di mettere sul chi va là i suoi studenti di Vitebsk.

7. Il fallimento dell’uomo nel produttivismo

Due contributi direzionano l’avanguardia russa a cavallo tra il 1920 e il 1921 permettendo di capire, in controluce, le posizioni sostenute da Malevič durante la sua permanenza a Vitebsk. Nel novembre 1920 Lenin pubblica sulla «Pravda» le Tesi sulla propaganda della produzione con le quali arruola l’arte e la cultura nell’esercito delle necessità dell’economia di guerra. Il 20 agosto 1921, Nicolaj Tarabukin, segretario dell’INCHUK di Mosca, tiene una conferenza intitolata Lultimo quadro è stato dipinto che diverrà il manifesto della svolta produttivista dell’avanguardia (Tarabukin, 2015): il taylorismo industriale è il faro della nuova società comunista e gli artisti si devono considerare operai specializzati al suo servizio; tutto il resto è vuoto formalismo reazionario e borghese.

È noto come l’ex amico Tatlin e i costruttivisti avessero condannato da subito il Suprematismo proprio per la sua “inutilità” economica e pratica. Malevič, dal canto suo, vedeva nel Costruttivismo la riduzione dell’uomo ad appendice della macchina e della fabbrica, come scriverà nel 1927, in coincidenza con il suo viaggio in Germania, a Kurt Schwitters: “un costruttivista è un uomo estasiato dai movimenti di un automa, nel quale egli ha visto un dispositivo meccanico ma ha fallito nel vedere l’uomo stesso” (in Gurianova, 2012, p. 190). La storia della Russia sovietica ha dato ragione a Malevič. Nonostante la ricerca costruttivista di Tatlin non fosse concettualmente finalizzata a fornire prototipi per la produzione industriale, la linea indicata da Tarabukin ne fece “l’anello di transizione verso l’idea di un’arte produttivistica”, come recita il resoconto dell’attività dell’INCHUK del 1923 (Quilici, 1969, p. 488).

Chagall e Kandinskij, a differenza di Malevič, appena resisi conto della gabbia utilitaristica imposta dallo Stato sovietico alla libera sperimentazione, rinunciarono agli incarichi ricevuti – il primo, come detto, abbandona la scuola di Vitebsk, il secondo l’INCHUK dopo il colpo di mano produttivista voluto da Tarabukin stesso e Osip Brik – e se ne vanno all’estero. Malevič, invece, non solo non abbandona la Russia ma, proprio attraverso l’attività dell’UNOVIS di Vitebsk, sembra apparentemente sposare la causa bolscevica e la sua linea estetica. Mentre infatti egli redige i suoi testi anti-utilitaristi, il compagno El Lissitzkij utilizza esplicitamente il Suprematismo per manifesti di propaganda in cui traduce il diktat leniniano delle Tesi sulla propaganda della produzione, come dimostra il pannello I banchi da lavoro dei depositi e delle fabbriche vi aspettano, promuoviamo la produzione (riprodotto in Clark, 2005, p. 214) esposto per le strade di Vitebsk tra la fine del 1919 e l’inizio del 1920. In un altro volantino dell’UNOVIS del 1920, passato sicuramente al vaglio di Malevič, si legge: “Noi siamo il Piano, il Sistema, l’Organizzazione! Mettete il vostro lavoro creativo in linea con l’economia!” (in Clark, 2005, p. 218).

Per un certo periodo, in effetti, come afferma T. J. Clark, l’UNOVIS, nel momento in cui Lenin lanciava la Nuova Politica Economica, esprimeva con un linguaggio modernista la logica del piano economico sovietico “in un modo che lo Stato trovò irresistibile” (p. 232). Questa ambiguità suprematista, in Malevič, si sovrappone al fatto che egli nutriva stima per Lenin, al punto da scinderlo dal bolscevismo e forse addirittura, come afferma sempre Clark, dal volerlo strappare al partito “per farlo diventare proprietà dell’UNOVIS” (p. 264).

Malevič aveva aderito alla rivoluzione concependola come una forza libera e creatrice di nuove forme di vita incompatibili con l’inquadramento nella società-fabbrica e con il titanismo produttivista che i bolscevichi hanno deciso di perseguire attraverso la disciplina, il controllo e la subordinazione. Eppure, nel 1920-1921, con Lenin ancora in vita, egli, pur percependo questo pericolo, è ancora convinto che il Suprematismo possa permettere al comunismo sovietico di invertire la rotta. Questi dubbi, speranze e ambiguità sono il fulcro dei testi che egli scrive a Vitebsk e dona ai suoi allievi prima di abbandonare la scuola. Sicuramente all’epoca Malevič non pensava minimamente a quella linea di continuità tra Lenin e Stalin nell’evoluzione del bolscevismo che un illustre “pentito” del comunismo sovietico come Vassilij Grossman elaborerà a distanza di tanti anni (Grossman, 2010), ma sostenere che nel modernismo suprematista di Malevič fosse insita una prefigurazione consapevole del totalitarismo stalinista (Groys, 1992) è una tesi irricevibile.

8. Il Quadrato nero dell’anarchia

Le influenze spirituali, mistiche e filosofiche di Malevič vanno calate nella dimensione ineluttabilmente politica del suo pensiero, del suo essere pienamente uomo del proprio tempo e del suo rapporto conflittuale con la rivoluzione russa. Se nel 1919 egli afferma inequivocabilmente “Non sono un socialista” (in Todorov, 2017, p. 178), va ipotizzata una diversa interpretazione della sua idea di mondo.

Abbiamo già visto come nel 1918 egli collabori attivamente con «Anarchija» e con il movimento anarchico moscovita. Altri artisti dell’avanguardia (tra i quali il futuro costruttivista Rodčenko) vi scrivono in un momento preciso in cui, all’interno del Futurismo russo, è in atto una scissione epocale tra Majakovskij, Burliuk e Kamenskij, che hanno deciso di mettere il movimento al servizio del governo bolscevico, e altri (tra cui Chlebnikov, Kručënych, Tatlin oltre a Malevič stesso) che li accusano di essersi asserviti a un nuovo potere, tradendo il principio ritenuto inviolabile che l’arte dovesse rimanere separata dallo Stato.

È stato accuratamente dimostrato (Gurianova, 2012) il legame tra le avanguardie russe pre-rivoluzionarie e il pensiero anarchico nell’esaltazione della libertà come un processo costante di reinvenzione della vita. Lo stesso Futurismo russo, e quindi anche le opere alogiche di Malevič, richiamava l’idea bakuniana della distruzione come “passione creativa” che fa tabula rasa dei valori della società per costruire sulle sue rovine. In questo senso esso appare più anticipatore e affine al Dadaismo tedesco che fratello del Futurismo italiano, soprattutto nella critica del “progresso” della civiltà delle macchine e della guerra sua espressione. Non è un caso che la prima concezione del Quadrato nero risiede nel 1913 nella scenografia della rappresentazione teatrale de La vittoria sul sole, opera futurista che Malevič stesso e Matjušin presentavano così:

i Futuristi vogliono liberare se stessi da questa qualità ordinata del mondo, dalle connessioni pensate per esistere in esso. Essi vogliono trasformare il mondo nel caos, mandare in frantumi i valori prestabiliti e da questi frammenti creare nuovi valori attraverso nuove generalizzazioni e scoprendo connessioni nuove, inattese ed invisibili (pp. 124-125).

Negli anni successivi, il nulla spesso evocato da Malevič come punto di approdo della non-oggettività suprematista non ha niente a che spartire con un cupo esistenzialismo. In quanto riflesso dell’eccitazione dell’universo, esso è un vuoto ricco di energia: il “nulla emancipato” dal “che cosa” che ossessiona il mondo del realismo pratico e della Fabbrica; il non-luogo dell’inattività, intesa come negazione dell’utilitarismo, nel quale si manifesta la creatività collettiva, specchio dell’assoluta e gratuita libertà della natura. Il nulla di Malevič è dunque lo spazio della possibilità contrapposta alla necessità e quindi dell’attività libera imprescindibile per ogni rivoluzione che voglia sperimentare un nuovo modo di vivere. In quanto tale – in un momento storico in cui il pensiero anarchico e socialista libertario aveva ancora un vigore internazionale all’interno del mondo dell’arte – il Quadrato nero trova una singolare assonanza con un poemetto intitolato Verso il nulla creatore pubblicato proprio nel 1921 dall’anarchico individualista e futurista italiano Renzo Novatore (Novatore, 1994), in cui il nulla creatore è cantato come base imprescindibile della reinvenzione anarchica del mondo.

T. J. Clark suggerisce la discendenza del pensiero di Malevič dal nichilismo russo (Clark, 2015, p. 278), la sua appartenenza “senza equivoci nel campo nichilista-libertario” (p. 264) nel periodo di «Anarchija», nonché una probabile simpatia negli anni di Vitebsk per l’esercito anarchico di Nestor Machno (p. 227) che, ucraino come lui, dopo aver aiutato i bolscevichi a sconfiggere i bianchi, è costretto in quei mesi a combattere contro l’Armata rossa. Una simpatia indirettamente suggerita da Malevič stesso nelle note autobiografiche scritte nel 1923 in cui l’amore, maturato fin da bambino e mai sconfessato, per la natura ucraina e il mondo dei suoi contadini, gli fa condurre una critica serrata della grigia vita degli operai e affermare che già allora aveva maturato la decisione “che mai avrei vissuto e lavorato in fabbrica” (Malevič, 2013, p. 366). Sempre in quel 1923 Malevič scrive queste righe che ci consegnano la suggestione del Quadrato nero come “icona” dell’inattività anti-produttivista e dell’anarchismo sociale:

Così com’io la vedevo, la rivoluzione non aveva colori. Il colore appartiene al passato. La rivoluzione non si riveste di colori, non splende di colori. Il colore è il fuoco dell’ancien régime. [...] L’anarchia è di colore nero; in altri termini, [...] un unico raggio oscuro ha inghiottito tutti i colori e ha collocato ogni cosa al di là di ogni differenza e di ogni privilegio (in Clark, 2005, p. 222).

9. Sensazione di un uomo imprigionato

Subito dopo la morte di Lenin, nel 1924, Malevic scrive un testo (Il mondo come non-oggettività) in cui descrive il comunismo sovietico come una nuova religione dal carattere monista, intollerante e manicheo. I camini delle fabbriche hanno preso il posto delle campane delle chiese, la falce e il martello quello della croce, l’elettrificazione sostituisce l’illuminazione divina. Pur arrivando a dire che “il comunismo è odio allo stato puro, è il distruttore del riposo perché aspira a sottomettere ogni pensiero e ad annientarlo” (in Todorov, 2017, p. 187), Malevič manda il manoscritto alla vedova di Lenin, al capo della Čeka Dzeržinskij, a Lunačarskij e a Bucharin. Nessuno gli risponde formalmente, ma poco dopo egli si lamenta con l’amico El Lissitzkij di sentirsi sorvegliato dalla censura e dalle autorità sovietiche. Due anni dopo, nel 1926, in Introduzione alla teoria dellelemento aggiunto in pittura – testo redatto per una pubblicazione dell’Istituto di cultura artistica di Leningrado che venne ritirata mentre era già in stampa – rincara la dose, sottolineando come una funzione fondamentale per la natura dello Stato sovietico sia il bisogno di controllare il pensiero degli individui e di plasmare la loro vita in tutte le sue forme: “ecco perché lo Stato produce determinati oggetti e pubblica determinati libri, vi organizza le lettere in una nuova struttura, destinata ad esprimere la nuova forma dei rapporti, crea un ambiente, cioè la vita quotidiana, che orienta la coscienza in direzione dello Stato” (Malevič, 2013, pp. 309-310). Intorno al 1926 Malevič è dunque giunto alle stesse conclusioni che Zamjatin aveva espresso nel romanzo distopico Noi, scritto proprio mentre lui era a Vitebsk, tra il 1919 e il 1921: la disumanizzazione della civiltà delle macchine e del taylorismo non è stata estinta ma anzi viene portata all’estremo dal comunismo sovietico in una forma totalitaria.

Nella tela Sensazione di un uomo imprigionato (1930-1931) una figura senza volto, in abito tradizionale ucraino si staglia statica su un paesaggio colorato sul cui fondo campeggia una prigione delle guardie rosse; è una delle tante composizioni simili realizzate da Malevič in quegli anni e da lui stesso definite espressioni di una “sensazione di vuoto, solitudine, di una vita senza futuro” (in Todorov, p. 218) che esplicitano un’affinità evidente con la distopia di Zamjatin.

Un’altra tela dello stesso periodo, Uomo che corre (1933, Centre Pompidou), traduce lo stesso tema – una figura umana senza volto, un paesaggio, due prigioni sullo sfondo –, trasformando la staticità dell’uomo in un movimento di fuga che fa pensare al viaggio-evasione di Malevič a Berlino. Alla luce di quanto detto finora, il suo messaggio custodito per i posteri nel plico lasciato presso la famiglia von Riesen assume infatti un contorno più chiaro e amaro. Al dramma del richiamo in patria si aggiunge infatti per Malevič la constatazione della distanza dall’avanguardia internazionale che incontra a Berlino. Le discussioni che egli intrattiene con Gropius, Mies van der Rohe e Moholy-Nagy si arenano sulla loro strenua difesa del funzionalismo e del realismo pratico.

Il Bauhaus di Dessau del 1927 non è più quello delle origini di Weimar, impregnato della cultura espressionista e di umori rivoluzionari che voleva edificare la “cattedrale del socialismo” evocata nel Manifesto di Gropius attraverso una sperimentazione libera ed anti-utilitaria. Come ricordava Oskar Schlemmer alla moglie al momento della svolta imposta dal governo di Dessau nel 1923, non era più il momento di erigere quella cattedrale ma di costruire case in serie per gli operai della fabbrica e della metropoli (in Wingler, 1972, p. 71). Lo stesso Gropius aveva ormai nei fatti rinnegato l’esperienza dell’Arbeistrat für Kunst da cui proveniva nel momento in cui era stato chiamato a dirigere il Bauhaus e nella quale lui, Bruno Taut – anch’egli esplicitamente ispirato dal pensiero anarchico – e gli altri architetti dell’avanguardia espressionista si rifiutavano di costruire per il mondo presente provando vergogna per “i deserti della bruttezza”, rappresentati dalle “dalle trappole grigie, vuote, stupide, in cui viviamo e lavoriamo” (Gropius et al., 1988, p. 256).

Nel 1927 il Bauhaus è diventato una chiesa funzionalista e Gropius è il più convinto assertore della necessità di un’architettura e di un’arte utilitaristiche. La svolta del Bauhaus era avvenuta proprio intorno al 1922-1923, nel momento in cui Malevič scriveva i testi con cui si congedava da Vitebsk. È in quel momento storico che diviene chiara la dinamica intrinseca dell’avanguardia che ha abbandonato le proprie istanze utopiche rivoluzionarie per mettersi al servizio del realismo pratico (Tafuri, 1973).

Nel 1927 questo processo è compiuto; il realismo pratico osteggiato da Malevič ha trionfato ovunque e mette d’accordo l’occidente capitalista con il comunismo sovietico. Ulteriore amara beffa per lui, il principale referente di quell’“internazionale costruttivista” che ha creato una relazione tra il Costruttivismo russo, il nuovo Bauhaus di Dessau, il Neoplasticismo olandese e le ricerche di Le Corbusier nell’ideare il nuovo immaginario estetico della civiltà delle macchine è proprio El Lissitzkij, che già a Vitebsk metteva il Suprematismo al servizio della propaganda della produzione voluta da Lenin e che nel frattempo si è convertito al Costruttivismo.

Alla luce di questo scarto temporale e teorico, si coglie l’amarezza dell’epitaffio lasciato in custodia da Malevič nel suo plico di Berlino: quell’invito a considerare e valutare il fatto che all’epoca, nel 1922, egli era “sotto l’influenza di idee rivoluzionarie” evoca la consapevolezza che la sua utopia dell’inattività fosse stata un’illusione, sconfitta dall’utilitarismo produttivista e tradita dalla rivoluzione sovietica.

Bibliographie

Carboni, M., 2019, Malevič. Lultima icona. Arte, filosofia, teologia, Milano, Jaca Book.

Clark, T. J., 2005, Addio a unidea. Modernismo e arti visive, traduzione italiana di Aldo Serafini, Torino, Einaudi; ed. or. 1999, Farewell to an Idea. Episodes from a Hystory of Modernity, New Haven, Yale University Press.

Frana, M., 2012, Il segreto dei fratelli del Libero Spirito. Pagine di esoterismo medievale, Milano, Mimesis.

Gropius et al., Esposizione per architetti sconosciuti, in De Benedetti, M., Pracchi, A. (a cura di), 1988, Antologia dellarchitettura moderna. Testi, manifesti, utopie, Bologna, Zanichelli.

Grossman, V., 2010, Tutto scorre..., traduzione italiana di Gigliola Venturi, Milano, Adelphi; ed. or. 1970, Vse Techet…, Frankfurt am Main, Possev-Verlag.

Groys, B., 1992, Lo stalinismo, ovvero lopera darte totale, traduzione italiana di Emanuela Guercetti, Milano, Garzanti; ed. or. 1988, Gesamtkunstwerk Stalin, Münich, Hanser.

Gurianova, N., 2012, The Aestetichs of Anarchy. Art and Ideology in the Early Russian Avant-Garde, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press.

Lisov, A., The Vitebsk Debate on Revolutionary Art, 1918-19, in Lampe, A. (a cura di), 2018, Chagall, Lissitzky, Malevich. The Russian Avant-Garde in Vitebsk, 1918-1922, Munich-London-New York, Prestel.

Lippolis, L., 2021, Il mondo come metropoli. Capitalismo, arte, rivoluzione nellepoca della grande trasformazione urbana, 1853-1933, Verona, Ombre Corte.

Malevič, K., 1969, Suprematismo: il mondo della non-oggettività, traduzione italiana di Franco Rosso, Bari, De Donato; ed. or. 1962, Suprematismus – Die gegenstandlose Welt, Köln, Du Mont Schauberg.

Malevič, K., 2012, Linattività come verità effettiva delluomo, traduzione italiana di Maurizio Costantino, Trieste, Asterios; ed. or. 1921, Len kak dejstvitelnaja istina čelovečestva, Vitebsk.

Malevič, K., 2013, Scritti, (a cura di A. Nakov), traduzione italiana di Teresa Doria de Zuliani, Milano, Mimesis; ed. or., 1986, Malevitch/Ecrits, Paris, Gallimard.

Moore, J. W., 2017, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nellera della crisi planetaria, traduzione italiana di Alessandro Barbero e Emanuele Leonardi, Verona, Ombre Corte; ed. or. 2016, Antthropocene or Capitalocene? Nature, History and the Crisis of Capitalism, Oakland, PM Press.

Novatore, R., 1994, “Un fiore selvaggio”. Scritti scelti e note biografiche, (a cura di A. Ciampi), Pisa, BFS.

Quilici, V., 1969, Larchitettura del costruttivismo, Bari, Laterza.

Tafuri, M., 1973, Progetto e utopia. Architettura e sviluppo capitalistico, Bari, Laterza.

Tarabukin, N., 2015, Lultimo quadro. Dal cavalletto alla macchina, traduzione italiana di Anna Tellini, Roma, Castelvecchi; ed. or. 1921, Ot molberta k mašine, Moscow.

Todorov, T., 2017, Larte nella tempesta. Lavventura di poeti, scrittori e pittori nella rivoluzione russa, traduzione italiana di Emanuele Lana, Milano, Garzanti; ed. or. 2017, Le Triomphe de lartiste. La révolution et les artistes – Russie: 1917-1941, Paris, Flammarion.

Vaneigem, R., 1995, Il movimento del Libero Spirito, traduzione italiana di Sergio Ghirardi e Mario Lippolis, Torino, Nautilus; ed. or. 1986, Le Mouvement du Libre-Esprit, Paris, Ramsay.

Wingler, H. M., 1972, Il Bauhaus. Weimar Dessau Berlino 1919-1933, traduzione italiana di Libero Sosio, Milano, Feltrinelli; ed. or., 1962, Das Bauhaus, Bramsche, Verlag Gebr. Rasch & Co.

Zamjatin, E., 2018, Noi, traduzione italiana di Alessandro Niero, Milano, Mondadori; ed. or., 1924, We, New York, E. P. Dutton.

Citer cet article

Référence électronique

Leonardo Lippolis, « Verso il nulla creatore », K [En ligne], 9 | 2022, mis en ligne le 01 décembre 2022, consulté le 17 février 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/702

Auteur

Leonardo Lippolis