Résumé

This essay aims to investigate the dynamics of the disappearance of the alienated, merchandisable and fetishsed art product, no longer necessary for a life that becomes art in the political activism shared by the Suprematist and Situationist circles, considering also the formal analogies, which, decades later, confirm the convergence between this disappearance bordering on iconoclasm and the revolutionary perspective.

Plan

Texte

    […] mi sono trasfigurato nello zero delle forme e sono andato al di là dello zero,
cioè verso il suprematismo, verso il nuovo realismo pittorico, verso la creazione non-oggettiva.

(Kazimir Malevič)

1. Piccolo formato, nero su bianco: Croix Noire

Al Centre Pompidou, una piccola teca di cristallo custodisce una croce dipinta in nero che campeggia su un cubetto di gesso alabastrino. Consumato dal tempo, Croix Noire (1923-1926) misura pochi centimetri: un piccolo formato aggettante dalla parete bianca della sala espositiva, dove giacciono altre opere di Kazimir Malevič. Posto ad altezza di sguardo, la sua materia è porosa, assorbe la luce e l’aria oltre il cristallo, mentre la pittura nera, ricoperta da tre sottili lastre di vetro, riflette come uno specchio chi osserva. Su quel solido, l’opacità del gesso bianco e il nero lucido indicano il passaggio della pittura alla tridimensionalità architettonica, così come, nella concezione dell’autore, dal quadrato, nascono la croce, il cerchio e tutta la geometria delle idee, in un cosmo ordinato che ha raggiunto il punto estremo. Un punto lontano da ogni sembianza mimetica, lontano da ogni preoccupazione per una rappresentazione tratta dal reale, al cui posto Malevič mette la presentazione di un’incognita destinata a durare nel tempo.

Delineando la genesi di questa geometria, la croce greca si compone di due quadrati giustapposti ad un rettangolo disteso tra loro e, a ben guardare, anche se il quadrato permane, esso si sdoppia e si sviluppa fino a diventare gesto. Un gesto a forma di croce. Un gesto che si estende dallo spazio tridimensionale al tempo, incrociando la figura sotto forma di un ostacolo da aggirare, che devia inesorabilmente il percorso, quasi a segnalare che qualcosa è terminato per dare luogo ad altro, a qualcosa di differente natura che non è ancora reso visibile, se pure fosse impossibile da vedere, poco importerebbe. Lo spazio della pittura si estende al tempo, definendo un movimento. Una croce è uno sbarramento, il gesto primordiale di una cancellazione; tuttavia è il segno di un ripensamento che potrebbe condurre verso qualcosa che è al di là da venire. Presenta la sintesi ultima di un atto originario in sintonia col cambiamento epocale che era iniziato nell’ottobre del 1917. Presenta la mossa rivoluzionaria che implica l’adozione di un nuovo registro, di una nuova tonalità in grado di rendere visibili la lontananza da ogni pretesa di realismo e la vicinanza ad una creazione ex-novo. Ma la pars destruens si esaurisce nell’atto del cancellare. Infatti, nel semplice incrocio dei due blocchi neri, appare, malgrado tutto, la forma di una distruzione che rimane a stento evocata perché il segno resta a testimoniare se stesso, indicando un nuovo tracciato contraddistinto da una simbologia che di mistico conserva appena il sentore. Quel gesto apparentemente distruttivo coincide fin da subito con la costruzione suprematista.

Fig. 1 Malevič, K., Croix noire, (1923-1926), gesso e vetro dipinto, 9,4x12,6x12,4 cm, Centre Pompidou

Fig. 1 Malevič, K., Croix noire, (1923-1926), gesso e vetro dipinto, 9,4x12,6x12,4 cm, Centre Pompidou

È singolare come il piccolo oggetto, portatore di un segno essenziale, sia barrato dalla proliferazione della geometria del quadrilatero, quasi a indicare una mancanza a cui però tutta l’estensione dell’immaginario può corrispondere, apparendo, in fondo, liberato da ogni dipendenza dal mondo reale – di ascendenza borghese, nella fattispecie – e dei suoi obsoleti significanti reificati.

Nella didascalia, esposta al Centre Pompidou, di fianco a Croix Noire, l’autore afferma: “Ho annientato l’anello dell’orizzonte e sono uscito dal cerchio delle cose, dall’anello dell’orizzonte che teneva prigionieri il pittore e le forme della natura” (Malevič, 2013a, p. 176).

Da questa autoesclusione dalle coordinate classiche dell’esperienza dell’arte – lo spazio della pittura e il tempo della natura – Malevič, portando ad espressione lo sviluppo della geometria del quadrilatero, individua il superamento dell’arte in favore di un’esperienza di vita che apre alla contemporaneità come atto politico, come atto rivoluzionario. Una pratica che sarà, in qualche modo, condivisa e sviluppata alcuni decenni dopo – a ridosso di un’altra importante rivoluzione, quella del 1968 – in ambito situazionista, movimento politico-artistico ugualmente interessato al superamento dell’arte. Il legame tra i due movimenti, suprematista e situazionista, può essere rintracciato anche negli intenti politici e filosofici assunti da queste due avanguardie artistiche del ‘900.

2. Il superamento dell’arte condiviso da suprematisti e situazionisti

Il pensiero filosofico di Guy Debord, esponente di rilievo in ambito situazionista, rappresenta uno sviluppo ulteriore dell’interesse di Malevič verso l’impegno politico proposto col Suprematismo. Emerge un legame che vede entrambi gli ambiti lavorare sul dissolvimento delle forme dell’arte verso un attivismo serrato che include l’artisticità in se stessa, fino a fonderla con la pratica politica, escludendo, quindi, il prodotto dell’arte come oggetto alienato e mercificato individuato dalla debordiana Società dello Spettacolo. È singolare il fatto che entrambi gli autori si pongano in modo critico rispetto ad alcuni movimenti artistici vicini ai loro anni. Infatti, nei suoi scritti, Malevič fa riferimento a Cubismo e Futurismo come momenti paralleli e antitetici alla sintesi suprematista, affermando che essi “hanno distrutto il vecchio mondo delle cose e noi siamo giunti al non-oggettivo, cioè allo spogliamento completo del passato per sfociare nel mondo suprematista, utilitaristico e dinamicamente spirituale” (Malevič, 2013c, p. 210). D’altro canto, Debord si riferisce a Dada e Surrealismo in quanto espressioni ancora legate ad una visione dell’arte come dimensione separata, per cui egli scrive:

il dadaismo voleva sopprimere l’arte senza realizzarla; e il surrealismo voleva realizzare l’arte senza sopprimerla. La posizione critica elaborata in seguito dai situazionisti ha mostrato che la soppressione e la realizzazione dell’arte sono gli aspetti inseparabili di un unico superamento dell’arte (Debord, 2004, p. 166).

Il superamento dell’arte avviene attraverso un processo di eliminazione progressiva dell’oggetto come artefatto e, d’altra parte, anche della figura specializzata dell’artista, in ambito situazionista. Per certi versi, relativamente al legame tra avanguardia artistica e politica, le parole di Debord sembrano ispirarsi a quanto scrive Malevič, prima di lui: “I nostri laboratori non dipingono più quadri, edificano le forme della vita; non i quadri, ma i progetti diventeranno creature vive” (Malevič, 2013c, p. 210). Infatti, si va, in entrambi i casi, oltre l’idea di una specializzazione individualistica della figura dell’autore – l’artista – e del prodotto del suo isolamento – l’opera. E se Malevič insiste sull’invenzione di un’immagine che resista nel tempo, più radicale è la posizione situazionista che rifiuta ogni dimensione separata, implicando il dissolvimento della forma artistica in un continuum di arte e vita. Infatti,

non appena l’arte, […] si costituisce in arte indipendente nel senso moderno, emergendo dal suo primitivo universo religioso, e divenendo produzione individuale di opere separate, essa conosce, come caso particolare, il movimento che domina la storia di tutta una cultura separata. La sua affermazione indipendente è l’inizio della sua dissoluzione (Debord, 2004, p. 163).

Così, se il tema della scomparsa dell’arte è più rigorosamente osservato in Debord, la materia pittorica di Malevič continua resistere nel tempo.

La dissoluzione operata dal passare del tempo ha danneggiato un angolo di Croix Noire creando delle piccole crepe aperte come un passaggio dove si intrufola la caducità della materia, sensibile e fragile, aperta alla rovina anch’essa, incline alla cancellazione. Resta il gesto, tuttavia. Qualcosa permane dal nero che si è sgretolato in alcune parti, ormai poroso, riassorbito nel bianco. Sopravvivono le crettature insistenti anche sulla superficie pittorica del primo Quadrato nero su fondo bianco (1915), mentre emerge il lieve movimento di una rotazione nello spazio dato dal successivo Quadrato bianco su fondo bianco (1918). L’inclinazione del gesto distruttivo insiste nelle sue tracce, nei suoi risvolti, ma, nonostante tutto, l’opera ha l’ultima parola pur essendo afona. Essa supera la rovina del tempo. Nonostante che la sua sostanza sia costellata da piccoli fori, elementi intrusivi, inclusioni, schegge mancanti, lesioni, craquelé, essa è in grado di restituire, pur nel dettaglio parziale, nella traccia sopravvissuta, una visione contemporanea che non si cura più di rappresentare il mondo, ma che nuovamente presenta un mondo, dando se stessa al mondo, ancora una volta. In questo contesto, occorre “portare al mondo cose nuove e le chiamiamo con un altro nome”, come scrive Malevič, in uno dei suoi testi più dissacranti (Malevič, 2013b, p. 204).

3. Distruzione apparente

Il Quadrato nero su fondo bianco, realizzato, su tela, in più esemplari tra il 1912 e il 1932, – il cui colore nero, nella prima edizione, è stato steso sopra una precedente composizione policroma, su una “dinamica composizione suprematista” (Tupitsyn, 2002, p. 10, trad. mia) – è decisamente composto per essere l’immagine di una distruzione, anche se può far pensare al gesto estremo dell’azione pittorica, ridotta quasi ai minimi termini. L’intento distruttivo, peraltro dichiarato da Malevič, corrisponde al giudizio conservatore di coloro che hanno ancora negli occhi l’antica pittura greca o quella rinascimentale che spesso l’autore cita nei suoi scritti come esempi da fugare, ai quali il Suprematismo si oppone assumendo, nel suo modus operandi, l’espressione dei tempi che cambiano nel segno della Rivoluzione, per cui “non c’è posto per gli avanzi del passato” (Malevič, 2013b, p. 204). Eppure, la materialità dell’oggetto, che indica un’azione distruttiva, è presente di fatto nell’immagine di un’assenza o di una distruzione a mala pena invocata. L’immagine persiste ed è l’immagine di una resistenza, se non di un ossimoro: è l’immagine armoniosa, si direbbe ordinata, di una distruzione. Se le avanguardie artistiche del primo Novecento si oppongono ad una certa idea di “classicità”, per Malevič ciò vale a confermare l’impossibilità per le immagini di essere sovrastoriche, cioè di non essere stabili rispetto alle conseguenze degli eventi perché tendono a dissolversi in un continuo processo di trasfigurazione che non è soltanto materiale, fino al punto da doversi chiedere, come fa Boris Groys in un suo articolo:

cosa può sopravvivere a quest’opera di distruzione permanente? La risposta di Malevich a questa domanda è assolutamente plausibile: l’immagine che sopravvive all’opera di distruzione è l’immagine della distruzione. […] Malevich intraprende la riduzione più radicale dell’immagine (a un quadrato nero) anticipando in questo modo la distruzione più radicale dell’immagine tradizionale ad opera degli agenti materiali, ad opera del tempo (Groys, 2013, p. 4, trad. mia).

In questa prospettiva, l’opera suprematista, in quanto distruzione e, al contempo, immagine disciplinata di una distruzione, resiste alla rovina del tempo fino ad assumere una validità operativa e teorica spendibile per sempre.

La distruzione – iconoclasta – dell’immagine manifesta un’ambiguità linguistica tra genitivo oggettivo e genitivo soggettivo, per cui l’espressione “la distruzione dell’immagine” può essere intesa su due fronti opposti, a seconda del fatto che subisca o compia l’azione. In questo caso, nell’opera suprematista di Malevič, si può intendere sia la distruzione effettuata sull’immagine sia la carica distruttiva appartenente all’immagine. Nell’ottica suprematista, le due strade coincidono unitariamente in un sinolo che mette assieme materia (distrutta dall’azione pittorica) e forma (costruita nell’azione pittorica). Si presenta, cioè, un’indecidibilità linguistica che l’opera suprematista evidenzia e fa propria, stando sul limite della soglia dove si combina l’atto rivoluzionario con la proposta di una figurazione che superi ogni mimesi.

4. Assenza

Oltre ogni intento, ciò che rimane nelle opere è comunque la presenza sintomatica di un’assenza. Quel che rimane è la loro caduca materialità. Sostiene Malevič che “le immagini del passato sono da tempo conchiglie svanite dell’essere che si avvia verso una nuova unità. Noi non possiamo neppure volgarizzarle, poiché tutto ciò che è celato in loro si trova già nelle risposte del significato e della domanda del nostro tempo” (Malevič, 2013d, p. 240). In questo frangente, oltrepassando la rovina dei tempi storici, qualcosa dalle forme vagamente appassite di un passato prossimo (declinato) al presente viene alla luce nella contingenza. Queste “conchiglie svanite dell’essere”, come le chiama Malevič, sono l’immagine resistente di spoglie lavorate dal tempo che tuttavia non smettono, nell’essenzialità che rimane loro, di comunicare un senso nel tempo attuale. Esse si esprimono attraverso il vuoto, descrivendolo puntualmente. L’immagine, in esse, si assenta per un momento.

Già in tempi remoti, si possono trovare degli esempi di raffigurazioni lasciate nell’indecidibilità, che restituiscono nell’immagine un’indicazione muta e che ignorano volutamente di descrivere le sembianze di un reale sfuggente. Si pensi all’iconostasi del Crocifisso posto di spalle da Giotto ad Assisi, al vuoto della tela nell’Autoritratto come allegoria della Pittura di Artemisia Gentileschi, al monocromo ossessivo che preannuncia il disastro della Grande Guerra in Porta-finestra a Collioure di Matisse (1914). Nel loro niente-da-vedere includono tutte le figurazioni possibili, tutto un immaginario che sta oltre il vedere, che si pone come un enigma all’interno della dinamica dello sguardo. Si tratta di una modalità che demanda ad un’esperienza di vita che nessun oggetto o artefatto può definire stabilmente, ma semplicemente liberare.

Tuttora, questo silenzio nelle immagini, questa volontà di annullarsi in figurazioni più simili ad un vuoto che in sé accoglie ogni evento, sottintende la necessità di adottare una postura rivoluzionaria che sovrintenda sia al fatto d’arte sia all’esistenza intera. In questo nuovo contesto, arte e vita sono assieme, unite nella creazione di un conflitto che assomiglia ad un’opera di sabotaggio rispetto allo stato delle cose. Un’azione politica che nel Suprematismo ancora individua un modus operandi basato sulla proliferazione geometrizzante delle figure, ma che per i situazionisti viene a cancellare quasi del tutto ogni produzione funzionale al sistema dell’arte. Del resto, è lo stesso Malevič ad affermare per primo che “nel suprematismo non c’è motivo di parlare di pittura. La pittura ha fatto il suo tempo e il pittore stesso è un pregiudizio del passato” (Malevič, 2000d, p. 70). Ciò vale fino alla svolta figurativa realizzata dall’autore a partire dal 1929, quando reinventa, in chiave post-suprematista, gli stereotipi figurativi del Rinascimento fiorentino, realizzando così una sfida ulteriore – approntata, per ironia del caso, quasi per partito preso – al sistema della produzione artistica assimilata a quella della propaganda di regime, ovvero la realizzazione dell’estetizzazione della politica. Il fenomeno è ben visibile nel realismo socialista che, in effetti, è fin troppo realistico, oggettivo, conservatore e allineato col potere. Rispetto a ciò, è palese che Malevič insista sulla politicità intrinseca dell’arte, più che sulla sua politicizzazione imposta da un intervento esterno, come accadeva nel realismo socialista, per l’appunto.

5. Punto di frattura in favore del cinema

La contiguità tra il mondo delle immagini e la politica è una costante in ogni epoca, dato che ogni opera assume la configurazione della propria coscienza storica. Per comprendere meglio la dinamica del rapporto tra arti visive e politica, occorre rivolgersi a Walter Benjamin, il teorico che ha indagato questo legame attraverso l’introduzione dei moderni mezzi tecnologici offerti dall’industria nel campo delle immagini. La tendenza politica, all’interno delle espressioni artistiche, è rintracciabile negli interstizi operati dal tempo, nei momenti di passaggio, che per il filosofo berlinese sono identificabili nei sistemi di riproducibilità tecnica succedutisi nel tempo, dal conio al calco, dalla fotografia al cinema. La tendenza politica viene alla luce dallo strato remoto in cui si trova solo nel momento in cui accade qualcosa che interrompe lo stato di calma apparente. Scrive Benjamin:

[…] allo stesso modo, in cui gli strati di roccia più profondi vengono alla luce solo nei punti di frattura, così anche la “tendenza” in quanto formazione profonda si mostra alla vista solo nelle fratture della storia dell’arte (e delle opere). Le rivoluzioni tecniche: ecco le fratture dello sviluppo artistico nelle quali […] si manifestano le tendenze. In ogni nuova rivoluzione tecnica, la tendenza, da elemento assai recondito dell’arte, diviene di per sé elemento palese. E con ciò eccoci, infine, al film. […] Fra le fratture delle formazioni artistiche, il film è una delle più nette (Benjamin, 2002, pp. 617-618).

Se è vero che il film conduce ad un momento di frattura, essendo una “forza sismica” capace di far emergere l’esigenza politica delle immagini, è forse per questo che Malevič esprime un certo interesse per i nuovi mezzi di produzione e riproduzione tecnica, cinema incluso. Per cominciare, egli individua nel quadrato nero l’attitudine alla riproducibilità e ne ripropone la sua semplice forma in alcune pubblicazioni, in ordine alla sua fotogenia e alla meccanicità esecutiva. Ne intuisce pure la possibilità di generare il movimento: nella sua stessa scrittura, nell’introduzione alla raccolta pubblicata nel 1920, Suprematismo-34 disegni (Malevič, 2000d), i ripensamenti assumono le forme geometriche di quadrati e rettangoli neri che si assommano, proliferando da sé stessi. Nelle pagine del volumetto, le composizioni di figure geometriche, lavorate all’interno del quadrato-cornice, si presentano in una successione dinamica di fotogrammi che potrebbero essere messi in sequenza in un flip book. Nelle stampe, il quadrato è inscritto in un riquadro, proprio perché “le cornici sono più leggibili dei quadri” (Malevič, 2002b, p. 17, trad. mia), come a sottolinearne la somiglianza col campo di proiezione del film, cioè quello schermo bianco su cui si manifestano i tratti in movimento. Un moto di forme che si riproducono da sé stesse come materia organica.

Il progetto di un film da realizzare col cineasta sperimentale Hans Richter ci ha lasciato solo tre fogli di appunti con disegni, nei quali le geometrie si succedono secondo una sorta di grammatica generativa. È intuibile come l’interesse di Malevič per le produzioni astratte del cineasta tedesco fosse giustificato dalla vicinanza della genesi di forme suprematiste col processo cinematografico (Michaud, 2016). Inoltre, per entrambi gli autori il cinema non è solo “un territorio per gli esperimenti di un pittore, ma una parte dell’arte moderna, l’espressione di una nuova esperienza totale” come afferma Richter (Tupytsin, 2002, p. 57, trad. mia). Allo stesso modo, Malevič apprezzava il lavoro di Dziga Vertov (Malevič, 2002a, pp. 147-159) per la capacità di far collassare l’obbligo narrativo (ereditato dai canoni pittorici della rappresentazione oggettiva) in favore dell’astrazione delle riprese ravvicinate di elementi meccanici in movimento, condotti dal montaggio realizzato per balzi veloci di sequenze. L’uomo con la macchina da presa vede il mondo con uno sguardo nuovo, vede cose mai viste prima e, mediandole, ne fissa la dinamicità sulla pellicola, i cui effetti si proiettano luminosamente nel quadrilatero dello schermo. Uno schermo bianco che è della stessa natura del quadrilatero bianco su cui Malevič aveva proiettato profeticamente il quadrato nero, fondazione ultima di tutti i dinamismi, passati e futuri, presenti nell’immanenza del nero: “[…] la superficie di colore della pittura, stesa sul lenzuolo della tela bianca, dà immediatamente alla coscienza la forte sensazione dello spazio” (Malevič, 2000c, p. 24).

6. Urla

Il legame tra la tela e lo schermo era già stato posto, e il Quadrato rosso era il segnale della rivoluzione. Segnale che sarà ricevuto dal primo esperimento cinematografico di Debord, nel 1952, Hurlements en faveur de Sade. In questo lavoro, di un radicalismo indiscutibile, bianco e nero si alternano sullo schermo, mentre, nel sonoro, il dissolvimento di ogni narrazione visiva è accompagnato da letture di testi alternati da suoni gutturali. Alla fine del film, il nero proiettato sullo schermo bianco, senza alcun commento, estende la sua presenza per 24 minuti di silenzio.

Durante la prima proiezione ufficiale, le proteste, le urla e gli insulti in sala diventarono lo spettacolo vivo di una rivolta, la rappresentazione esatta di uno scontro contro ogni forma di separazione tra reale e virtuale. La vita era uscita fuori dallo schermo, fuori dalla sala oscura, fuori da ogni visione assopita di uno spettacolo inutile. La rappresentazione non esisteva più e il pubblico aveva preso il suo posto presentando, incontenibile, il proprio dissenso. L’obiettivo di Debord era raggiunto: il sipario si era stracciato e attraverso la proiezione del quadrilatero nero, le urla contro Sade erano le urla contro lo spettacolo come realtà separata, alienata dall’esistenza. Alla società basata sullo spettacolo era stata calata la maschera e il suo trucco era stato svelato come nella favola di Andersen, quando un innocente dalla folla rivela la verità: “Il re è nudo”.

Si trattava di una rivoluzione che andava portata alle estreme conseguenze, fino alla cancellazione di ogni tendenza spettacolare, che superasse ogni narrazione, che apparisse come una tabula rasa della proiezione cinematografica, denunciando una volta per tutte l’annullamento nella visione spettacolare. Si delineava, in quel momento, una distanza incolmabile con il passato che voleva segnare il punto di non ritorno nelle arti visive. Non è un caso che il situazionista individui nel mezzo cinematografico il punto di frattura che indica, nella costruzione della Società dello Spettacolo, la funzionalità autoreferenziale del sistema di intrattenimento in grado di assicurare al capitale l’assopimento consolatorio della semplice fruizione del prodotto dell’impresa culturale: lo spettacolo.

Precedentemente, il quadrilatero di Malevič era già stato inteso come la negazione di ogni atto mimetico-pittorico, come il grado zero dell’espressione artistica e la proiezione ultima di tutte le immagini possibili, col bianco, col nero. Ma un’operazione eversiva, come quella di Debord, al limite dell’iconoclastia, era pure la realizzazione di una continuità diretta con la rivendicazione della critica – senza via di scampo – alla riproduzione mimetica del reale proclamata negli scritti teorico-filosofici di Malevič. Il situazionista Debord sembra raccogliere il testimone dal suprematista trasferendo, velatamente, quell’intuizione cromatica binaria – l’essenzialità del bianco e del nero – al cinema.

Col suo potenziale carico di sovversione, il cinema era stato, in effetti, precedentemente prefigurato da Benjamin, non solo come momento di frattura per l’ambito delle arti visive, ma perfino come una rinnovata regione della coscienza. Dal suo punto di vista, il filosofo berlinese attribuisce al cinema la capacità di uno sfondamento spaziale, una capacità prismatica, mediante la quale il grigiore e lo squallore della vita quotidiana, fatta di metropoli, stazioni, fabbriche e abitazioni anguste appaiono di tutt’altra natura. Il film, quindi,

ha fatto saltare, con la dinamite del decimo di secondo, tutto quest’universo carcerario, così che, adesso, intraprendiamo viaggi lontani, avventurosi, fra le sue rovine sparse in un vasto raggio. […] E solo qui, nella collettività umana, il film può condurre a termine quel lavoro prismatico che ha intrapreso nell’ambiente (Benjamin, 2002, pp. 618-619).

Questo lavoro di ampliamento spaziale, prismatico, che fa apparire nel film un mondo che si riveste di una luminosità artificiosa e artefatta, tramutandolo in un prodotto pop dove tutto volge al positivo, dove tutto è finalizzato al consumo – costantemente allineato col meccanismo capitalista della trasformazione dell’oggetto qualsiasi in feticcio dai molti enigmi – era stato disvelato con lucidità in tutta l’opera di Debord.

7. Il nero della proiezione sul bianco dello schermo

Nella mostra 0,10. Ultima mostra futurista, il Quadrato nero su fondo bianco (1915) collocato strategicamente nella posizione dell’icona posta nell’“angolo bello” della sala, sovrastava dall’alto, come un’immagine sacra, le altre opere che Malevič esponeva per l’occasione. Il suo fondo bianco rimanda ad uno schermo su cui è proiettato il quadrato nero. Pare simile a un cinematografo spento, ma, con la conoscenza del poi, si direbbe che assomigli di più allo schermo televisivo, ammantato anch’esso, ironicamente, da una rinnovata sacralità. In posizione di dominio assoluto sulla mostra, con la sua inclinazione, al vertice di due pareti bianche, l’opera sembra far fluttuare sul bianco il quadrato nero nello spazio. L’allestimento sembra già possedere l’assetto di un’istallazione dato che tende ad essere una costruzione spaziale che dalla bidimensionalità della tela si dirige verso la tridimensionalità del cubo – e alla prismaticità del film di cui parlava Benjamin (ib).

Nell’esposizione, i quadri erano disposti secondo uno sviluppo verticale, come i rettangoli dei fotogrammi che si succedono l’uno dopo l’altro nella pellicola del film, per cui il singolo quadro, inquadrato nell’insieme, cede il suo valore and una visione complessiva in grado di suggerire una successione temporale (Tupitsyn, 2002, fig. 16, p. 15). Quest’estensione effettuata dalle immagini è data dall’appropriazione dello spazio. Quello stesso spazio che, negli allestimenti delle opere, diventa il campo di un movimento esteso nel tempo. Infatti, Quadrato nero suo fondo bianco è considerato dallo stesso autore lo sviluppo da un bozzetto del 1913 che raffigura un quadrato metà bianco e metà nero nel senso della diagonale, da lui realizzato per il sipario di una scena della rappresentazione teatrale Vittoria sul sole, opera futurista di Aleksej Kručënych (Di Milia, 2000, p. 129). Nell’azione teatrale, il sole, sconfitto, fa posto al quadrato nero da cui scaturisce la resistenza assoluta di tutte le immagini. Una scena deve essere tridimensionale per cui è necessario suggerire uno sfondamento prospettico che consenta alla rappresentazione di avere luogo nel tempo, realizzando, perciò, l’apertura ad una ulteriore dimensione a partire dalla piattezza del foglio. Come scrive Malevič nel 1915, in una delle sue lettere a Matjušin:

il sipario rappresenta un quadrato nero, embrione di tutte le possibilità. Nel corso della sua evoluzione il quadrato acquista una forza incredibile: diventa il capostipite del cubo e del globo, le sue decomposizioni apportano una sorprendente cultura nel campo della pittura. […] Quel disegno avrà una grande importanza per la pittura. Ciò che è stato creato inconsciamente produce attualmente frutti straordinari (Malevič, 2013e, p. 78).

Tuttavia, quei frutti straordinari prodotti dalle avanguardie rimandano ad una comprensione futura: col Quadrato nero su fondo bianco, da un lato, si smonta il gioco obsoleto dell’arte che simula una rappresentazione oggettiva, ma dall’altro verso, si è condotti fino ad un limite così assoluto da creare scandalo per la sua epoca, e non solo. Tant’è vero che Malevič, nelle sue considerazioni sulle avanguardie artistiche a lui contemporanee testimonia: “Vediamo un quadro inconsueto. Il nuovo ordine degli oggetti ha fatto trasalire la ragione. La folla urlava, sputava: la critica aggrediva il pittore come un cane che balzi fuori dal portone” (Malevič, 2000a, p. 44). Una folla simile era nella sala dove si proiettava il film di Debord. L’incomprensione era in agguato nell’opera che giocava in anticipo sui tempi: “[…] L’arte degli innovatori è abituata a queste pratiche e va per la sua strada; se non oggi, domani avrà ragione del cervello critico piccolo-borghese e s’installerà solidamente, come la nuova vita” (Malevič, 2013f, p. 256) scrive Malevič. Alla luce di questo, considerando a ritroso ciò che è stata l’attenzione al pensiero filosofico e all’opera dei due autori, i lavori del suprematista Malevič sono inseriti, suo malgrado, a pieno titolo nei percorsi museali e nelle collezioni, come testimonianza storica di un gesto rivoluzionario. Differente è la collocazione per Debord che resta nella penombra dell’ultima avanguardia artistica del ‘900, come si definivano i situazionisti. Tutto ciò che la Società dello Spettacolo gli riserva, alla fine, è un ruolo assimilabile a quello del “guardiano” del pensiero artistico-filosofico che è nei suoi libri e nelle sue opere, secondo un fenomeno di “incorporazione criptica”. In uno spazio che non è aperto, ma neppure isolato dal mondo, “un tesoro nascosto che brilla soltanto nell’oscurità” resta sepolto dall’inazione perché “è un’utopia realizzata” che riesce a sottrarsi “al cinismo melanconico in cui l’arte e la filosofia sembrano irrimediabilmente cadute, anche a prezzo di sprofondarle in una cripta […]. In questa prospettiva il compito del filosofo-artista sarà quello di un guardiano di tombe […]” (Perniola, 2000, pp. 100-101).

Per rapportarsi all’opera di Debord e a quella di Malevič occorre rifiutare da cima a fondo il controllo estetico, in quanto reazionario, e calarsi in un ambiente che non è più quello dell’ordinarietà. Occorre adottare una visione adeguata. Adeguarsi al buio, al nero. Infatti, come sostiene Gilles Deleuze,

se in un’immagine vediamo pochissime cose, ciò avviene perché la leggiamo male, e ne valutiamo altrettanto male sia la rarefazione sia la saturazione. Avremo una pedagogia dell’immagine, […] quando tale funzione sarà portata a esplicitarsi, quando il quadro equivarrà a un’opaca superficie d’informazione, talvolta confusa per saturazione, talvolta ridotta all’insieme vuoto, allo schermo bianco e nero (Deleuze, 2016, p. 19).

Ed è proprio l’alternanza di bianco e nero ad apparire in Hurlements en faveur de Sade, così come nelle più drastiche delle opere suprematiste di Malevič: quello che in fondo esse offrono non è un’informazione, ma piuttosto l’affermazione della necessità di assumere una postura altrettanto originale rispetto ad esse e al mondo. È lo stesso Malevič, che riflettendo sull’opera delle avanguardie, ne sottolinea la problematicità rispetto ad una fruizione non ancora in sintonia con i cambiamenti epocali in atto nella società e nelle arti visive:

sempre si esige che l’arte sia comprensibile, ma mai si chiede di adattare la propria testa alla comprensione; anche i socialisti più colti si sono messi su questa strada e domandano all’arte ciò che il mercante esige dal pittore: delle insegne sulle quali siano rappresentate in maniera comprensibile le merci in vendita nel suo negozio. Molti sono coloro che ritengono […] che l’arte consista nel dipingere delle ciambelle comprensibili […] (Malevič, 2013f, p. 256).

Malevič nutre ancora fiducia nel poter superare la barriera dell’incomprensibilità reclamata dalla critica conservatrice e nella positività dell’azione rivoluzionaria che si realizza in tutti gli aspetti di una società liberata dai meccanismi di un passato inadeguato alla vita contemporanea. Invece, la posizione del situazionista Debord è più radicale perché il cambiamento non riguarda più soltanto l’espressione dell’arte: il mondo delle immagini, inteso come dimensione alternativa all’esistenza, è solo una via in fuga funzionale alla società basata sullo spettacolo delle merci, delle vite in vendita come oggetti di consumo. Non c’è via di fuga: rivestito dalle immagini di ogni tipo, lo spettacolo torna ad essere il capitale ad un tale livello di accumulazione da farsi immagine esso stesso. Il cambiamento è far saltare questo meccanismo rompendo i suoi ingranaggi.

8. Dissolvenza

Il suprematista e il situazionista sono segnati dall’esperienza del colore nero che sembra essere la sommatoria di ogni variazione cromatica, e che invece, nel luogo comune, pare essere il segnacolo di un’assenza, la presenza di un problema. In realtà, nei due autori, l’uso del nero non fa altro che incarnare l’indicazione di un punto di svolta risolutivo che si pone in relazione dialettica con la complessità contemporanea, quasi impossibile da immaginare, ma densa di immaginario, al punto tale per cui nulla può essere più narrato, ma sussurrato nel buio o urlato senza altra possibilità, se non con la rivolta.

I due autori sono legati da questo vuoto che ingloba un mondo. Un legame che è descritto nella riflessione sul nero proposta da Georges Didi-Huberman, anche se relativa ad un altro contesto. L’autore pone un parallelo tra Malevič e Debord, legandoli assieme proprio in virtù di questo buio che fa ombra a se stesso, che essi recuperano, in modi differenti, come dimensione primaria dell’inimmaginabile, per cui diventa necessario

fare del “buco nero” […] uno spazio fantasticato come inavvicinabile, intoccabile, inimmaginabile, impossibile da immaginare. Consacrare il regno del nero. […] l’“ideale del nero” […] come segno privilegiato di un’arte dichiarata “estrema” […], dai dipinti suprematisti di Malevič ai monocromi neri di Ad Reinhardt, per non parlare, per il cinema, delle inquadrature nere e silenziose del film Hurlements en faveur de Sade di Guy Debord (Didi-Huberman, 2015, pp. 13-14, trad. mia).

Più pacata è la visione del nero dipinto in Malevič, mentre un nero più tragico è quello di Debord, ma per entrambi il nero prende il posto di ogni possibile narrazione di un’esperienza, perché è nel buio che si possono formare tutte le immagini possibili appartenenti alla memoria di una vita. Nel buio della visione, quelle opere sembrano chiudere il loro sguardo, dando luogo ad un piccolo spazio interno, dove poter tirare per un attimo il fiato e ampliare il nostro sguardo, non solo su di esse, ma su ogni cosa.

Tuttavia, senza fiato ancora lascia quel nero screpolato, abbandonato ad assorbire l’energia di pittura su pittura, che giace sullo schermo del quadrato bianco, fluttuante su un lenzuolo bianco come quello del cinema povero trasferito in piazza. Senza fiato lascia Hurlements. Da una comune prospettiva destituente, entrambe le opere deterritorializzano il reame della visione passiva delle immagini sia che siano fatte di colore dato a pennello sia che siano fatte di immagini impresse sulla pellicola. In entrambi i casi, si tratta di immagini sigillate in un nero profondissimo paragonabile a quello determinato dalla cecità per il paesaggio che da sempre ci accompagna (Cfr. Derrida, 2015). Forse quel nero, per puro paradosso, potrebbe essere l’occasione irripetibile per aprire uno sguardo rivoluzionario, finalmente. Potrebbe essere l’ultima possibilità di azionare il freno d’emergenza che interrompa la visione incantata dello spettacolo dell’arte, anche perché le rivoluzioni non accadono troppo spesso e proseguono senza fermarsi, sempre in fuga, mutevoli come le immagini.

Nel segno di Benjamin, la fuga delle immagini postulate nelle teorie pittorico-filosofiche di Malevič risuonava inesorabilmente anche in Debord, quando scriveva: “Quest’arte è necessariamente d’avanguardia, e non è. La sua avanguardia è la sua scomparsa” (Debord, 2004, p. 166).

Un’opera, tra le ultime di Malevič, Cavalleria rossa, mostra delle piccole figure rosse in fuga, lontane, su un orizzonte formato da linee parallele, geometriche campiture piatte, rettangoli sottili di colori primari. Figure in corsa, diafane per la lontananza, ma che da vicino sembrano solo macchie di pittura, veloci e abili, esse si dileguano nella geometria appena pensata dall’autore. Vicinanza di una lontananza. Il segno di una dipartita. L’ultima sfida al sistema della società fondata sullo spettacolo dell’arte. L’avanzata di una distruzione in fuga dall’arte ufficializzata dal sistema, nata per rifondare il mondo sotto il segno di una rivoluzione. “Ho sconfitto la fodera del cielo colorato e dopo averla afferrata ho messo i colori nel sacco che ne ho formato e ho fatto un nodo. Navigate! Il bianco libero abisso, l’infinito sono dinnanzi a voi” (Malevič, 2000b, p. 61).

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Illustrations

Citer cet article

Référence électronique

Maria Rosaria Perrelli, « Arte in fuga verso la rivoluzione », K [En ligne], 9 | 2022, mis en ligne le 01 décembre 2022, consulté le 17 février 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/709

Auteur

Maria Rosaria Perrelli