La tragedia attica, come chiarisce Nietzsche ne La nascita della tragedia, è già un addomesticamento del mito; delle forze che ne alimentano la sacralità e irriducibilità alla storia. È noto che secondo Nietzsche tuttavia è possibile individuare in Euripide il più consapevole artefice della separazione tra il mito e l’arte tragica, perché è nel suo teatro che la tragedia diventerebbe uno spettacolo destinato a placare per qualche ora le angosce della vita quotidiana. Insomma, per quanto possa apparire paradossale, la tragedia rappresenterebbe una forma particolare di intrattenimento. In teatro, in altre parole, amori, tradimenti, incesti, assassini, amicizie, doppi giochi, non sarebbero altro che la messa in scena esagerata di vicende in realtà qualsiasi.
Eppure, si ha l’impressione che nella Medea di Euripide la donna della Colchide insorga contro questo destino tragico della tragedia che la trascina verso il dramma, verso una situazione dove qualsiasi spettatore può proiettare le proprie inquietudini. Si ribella grazie, probabilmente, alla lucidità della sua violenza che fa della nipote del Sole una barbara refrattaria a qualsiasi logos del potere. In lei infatti persiste un’eccedenza difficilmente addomesticabile, ardua persino da nominare: la sua passione, i suoi desideri, la consegnano a un’esperienza incalcolabile: la perdita di una parte di sé. In Medea, in altre parole, il tragico potrebbe sopravvivere perché questa donna ovunque straniera, persino a casa sua, resiste a qualsiasi commiserazione tragica del suo destino; e in questa maniera materializza l’irrappresentabile che il tragico stesso esprime destituendo la legittimità di ogni narrazione di fronte all’orrore, all’implacabile.
Chi è Medea? Medea forse incarna effettivamente, come immaginava Pasolini attraverso il volto preistorico di Maria Callas, una testimonianza di una forma di vita arcaica e spaventosa che sopravvive alla sua stessa sparizione; una forma di vita che in qualsiasi istante, come uno spettro, può riemergere nell’universo civilizzato del nomos. Oppure, al contrario, la possiamo lasciare uscire da questa tensione dialettica? Medea non potrebbe allora diventare il nome femminile, prima di ogni altra cosa, di un rifiuto di qualsiasi endiadi inflessibile?
Medea è chi usa gli uomini per liberarsi della Legge del padre. Inaugura la sua attività preferita – distruggere i vincoli familiari – uccidendo il fratello Apsirto e, se è travolta dalla passione per Giasone, anche in questo caso non va sottovalutato un aspetto: Giasone è anche chi la può aiutare a lasciare la casa del padre. Medea è madre, sorella, assassina, figura eversiva, lucida e appassionata regina della Colchide, esiliata, amante, infanticida, vagabonda, straniera, moglie, impunita (in effetti non ci sono conseguenze “penali” per le sue azioni delittuose); una donna potente ed estrema in grado di devastare la tirannide di Corinto. Le sue passioni travalicano ogni inclinazione della finitezza umana: di discendenza divina, appare indifferente ai colpi del destino. Possiede arti quasi magiche e conosce l’animo umano, specialmente le sue fragilità. Per questo sembra Medea materializzare il terrore di ogni maschio (non soltanto Greco): trascura gli ordini del padre e del marito; uccide il fratello e i figli; sfida senza tregua l’autorità maschile, disertando tenacemente il ruolo della vittima. Eppure, è anche molto di più: ci lascia vedere sin dove si può arrivare una vittima quando rifiuta il proprio destino; quali gesti può concepire chi, come lei, incarna una differenza radicale e non la smette di evocare e ripetere il potere della differenza.
Medea, in fondo, è molto di più di una figura tragica: la sua rabbia la conduce a compiere gesti precisi, a riconoscere la meschinità di chi la circonda, ad amministrare sapientemente il suo carisma. In questa eccedenza rispetto al tragico, c’è anche, forse, l’eco della dimensione venerabile e divina che rivestiva Medea prima di Euripide; come se la linea tragica, dominante nella ricezione di questo mito, servisse proprio a oscurare l’oscura, titanica, grandezza di Medea. D’altronde, la sua disperazione, la vergogna che prova per essersi lasciata andare con un eroe codardo come Giasone, la rende impietosa e spietata innanzitutto con se stessa. È noto che soltanto con Euripide la vicenda mitica della donna della Colchide prende la piega più terribile: l’uccisione dei figli Mermero e Fere da parte di Medea. Gesto sconvolgente e inequivocabile, ma che in realtà conserva e sprigiona una miriade di tensioni contraddittorie che, probabilmente, tra gli autori antichi, soltanto Euripide riesce a gestire senza inchiodare la figura di Medea al solo carattere tremendo della madre assassina. Ad esempio, la Medea di Seneca non è in grado di decifrare il groviglio di sintomi di una violenza apparentemente “senza ragione” che condanna la donna a diventare soltanto l’esemplificazione del mostruoso.
Se da un lato, sin dalle prime battute della tragedia euripidea, l’amore verso i figli è messo fortemente in dubbio, Medea, infine, sembra farli fuori perché lascia affiorare la logica più spaventosa dell’ordine simbolico della madre: la cura come forma estrema di possesso; come una sovrabbondanza di amore e attaccamento (probabilmente più di ogni altro calca la mano sull’infanticidio, non senza qualche moto di comprensione, come sistema di protezione, nel 1949, Corrado Alvaro nella formidabile Lunga notte di Medea). Li uccide perché, dice, così nessuno potrà allontanarla dai suoi ragazzi.
Inviati inconsapevoli dalla madre ad assassinare la promessa sposa del padre, la figlia del re di Corinto, Glauce, sarebbero stati certamente puniti con la morte. Allora meglio che si occupi del delitto direttamente la madre. Ma forse le cose non sono tanto semplici e lineari: Medea probabilmente agisce perché non tollera che i suoi figli siano esclusiva proprietà del padre!
Medea è una donna intelligentissima e ragiona benissimo; ma ragiona altrimenti: lacera qualsiasi consuetudine ed economia dell’utilità e lascia resistere il suo desiderio pure quando l’oggetto del desiderio diventa detestabile. La pura esposizione della propria vita senza alcuna garanzia come decisione del politico è l’atroce infamia a cui Medea si ribella; il suo gesto estremo materializza l’impossibile esclusione da parte della polis dell’ignoto, dell’altro, senza che si provochi un eccesso di violenza intestina in grado di revocarne la vigenza. Medea colpisce il corpo dei figli per scrivere con il sangue dell’innocenza, con la morte degli esseri da lei più amati, la sua radicale estraneità rispetto al logos incarnato da Giasone a Corinto. Medea insorge contro la decisione che suggella il tempo dell’infelicità, ossia, non si lascia segregare nell’oikos, sulla realtà sociale della donna, non si identifica pacificamente con la propria sventura politica. Un potere ingiusto suscita, per porre rimedio all’ingiustizia, da una posizione di esclusione, ingiustizia: Medea annienta il potere e si auto-esclude perché comprende che per lei non c’è altro destino se non divenire una supplice vagabonda.
Medea non si lascia assimilare, neanche come prigioniera! Si rifiuta di fare ciò che le chiedono; si rifiuta di diventare la donna che gli uomini vogliono che sia. Nomade, abita una condizione del congedo permanente e si scaglia con contro un’immagine della donna custode dell’oikos e impegnata a sopportare qualsiasi ingiuria in nome innanzitutto dei propri figli.
Medea distrugge tutto: la casa del padre, il legame con il fratello, il potere di Corinto e la legge degli uomini. Ma fa persino di più: destituisce persino la sua tragedia. Rifiuta infatti in ogni momento della sua vicenda il ruolo della vittima e di volta in volta impiega e abbandona sia il logos, sia la mera passione distruttiva, sia le complicità e simpatie che è in grado di suscitare. Medea non permette a nessuno, in fondo, di identificarsi con lei. Si può provare compassione, persino una certa ammirazione per Medea, ma nessun femminismo potrà mai prendere il suo nome (scrive Lina Prosa che con lei “c’è un vuoto di relazione”). I suoi mille volti negano che il suo nome possa diventare l’indice di un’alleanza; la sua solitudine è anche l’esito di una permanente presa di congedo da chiunque l’avvicina. D’altronde, il suo sguardo selvaggio e, nel contempo, divino svela la miseria di chiunque. Lei, invece, osa una forma di grandezza rivoluzionaria: ci ricorda che per qualsiasi rivolta degna di questo nome c’è sempre un conto salatissimo da pagare; una ferita terribile da sopportare, una perdita di sé da mettere in conto. Medea in effetti, uccidendo i figli, si perde come madre; decapita una parte di sé, per continuare a diventare altro da ciò che gli uomini vogliono che sia: una donna addolorata.
Le fughe di Medea, il suo incessante traslocare, Colchide-Iolco-Corinto-Atene e poi e poi…, impediscono di commiserarla. Quell’errare segnala, in effetti, soprattutto la costante volontà di Medea di sottrarsi a qualsiasi cattura. Non è la donna ferita che agisce; è la dea antica che insorge contro le forme del logos che valuta, calcola, comanda; la nomade ostile alla logica sedentaria del potere; la donna contro il patriarcato; la guerriera contro la “terra desolata”. Medea/Medelha è una figura concettuale che sarebbe sicuramente piaciuta a Frantz Fanon perché trasferisce la violenza su un piano collettivo; nell’agora. La sua non è semplicemente una violenza domestica, appare piuttosto un gesto assoluto; terribile e indecifrabile.
Se esistesse una violenza destituente, potrebbe avere le sembianze ambigue e deliranti di Medea? Una veemenza quindi chiamata a disertare e abbandonare persino la stessa forza che la scatena.