1. Nelle famiglie della Roma tardo-repubblicana e del Principato era pratica diffusa quella di affidare i propri infanti alle nutrici, prevalentemente schiave o liberte1.
Il legame tra la nutrice ed il fanciullo era intimo e profondo e proseguiva anche nel periodo successivo ai primi anni di vita2. Lo provano numerose testimonianze, anche epigrafiche, papirologiche e iconografiche, che attestano l’intensità della relazione che si veniva a creare tra le nutrici e gli infanti e le loro famiglie.
Riguardo alla provenienza sociale, le nutrici erano spesso schiave o libertae3. Più raramente si trattava di donne nate libere, provenienti da classi sociali di bassa estrazione4. La relazione tra la nutrice e l’infante si sviluppava poi negli anni successivi della vita di entrambi, mutando il rapporto in relazione all’età. Probabilmente, la nutrice cambiava il proprio ruolo in quello di «tata» con la crescita dell’infante. Il rapporto tra i due diveniva in tal modo ancora più forte e intenso, trasformandosi in un legame affettivo che si fondava prevalentemente sul sentimento,
prescindendo, da un certo momento in avanti, dallo svolgimento di mansioni da parte della nutrice5.
Proprio la durata e la qualità del rapporto infante-nutrice faceva sì che quest’ultima venisse a ricoprire un ruolo importante all’interno della famiglia romana. Ella, in tal modo, ne diveniva un membro «non parente»6.
La tematica dell’allattamento e, più in generale quella riguardante, il rapporto fra la nutrice e l’infante era di particolare attualità, come segnalano le numerose fonti, che se ne occupano da differenti prospettive. I filosofi la prendono in considerazione guardando alle cd. norme di comportamento. I medici per ciò che attiene alla visuale terapeutica, connessa con il ruolo svolto dal «latte»7. Numerose altre testimonianze letterarie forniscono spunti in relazione alla dimensione quotidiana del rapporto nutrice-infante, con cenni contenuti anche nella letteratura giuridica8. In molte di esse, si attesta come il sentimento di affezione, in particolare quello dell’ex fanciullo divenuto ormai adulto, permanesse nel tempo ed attraversasse la vita dei protagonisti9. Cicerone, a proposito dell’amicizia, precisava come essa non andasse misurata in forza dell’anzianità del rapporto. Se così fosse stato, le nutrici ed i pedagoghi avrebbero potuto esigere il massimo della benevolenza. Essi, continuava l’arpinate, non andavano dimenticati, ma tenuti nella giusta considerazione10. Plinio riferiva di aver lasciato alla sua nutrice un appezzamento di terreno, e si premurava che un suo incaricato lo coltivasse affinché non perdesse troppo di valore11.
La relazione consolidata nel tempo ed il ruolo acquisito all’interno della famiglia, poteva ingenerare l’aspettativa della nutrice a ricevere benefici – lemma da intendere qui in senso generico12 – dal fanciullo ormai divenuto adulto o dalla sua famiglia. Quando la nutrice era una schiava, vale a dire nella maggior parte dei casi, infatti, la gratitudine della famiglia dell’infante, o di quest’ultimo una volta divenuto adulto, poteva prendere le forme della concessione della libertà, attraverso la manomissione. Il legame consolidato, infatti, poteva assicurare la promozione sociale: dalle iscrizioni funerarie, rinvenute in Italia e nelle province, risulta come moltissime nutrici recassero un nome di origine straniero, a testimoniare l’origine servile. La presenza del gentilizio segnala, poi, come più della metà di esse fosse stata manomessa13.
2. Alcune testimonianze contenute nei Digesta Iustiniani sembrano comprovare il riconoscimento del ruolo della nutrice – dalla prospettiva prima indicata di componente familiare «non parente» – in relazione a situazioni per le quali era coinvolto il momento delle regole giuridiche14.
Un passo di Ulpiano appare significativo per descrivere la rilevanza della nutrice all’interno del nucleo familiare. In D. 26.10.1.7 (Ulp. 35 ad ed.), infatti, il giurista severiano sta trattando dell’‘accusatio suspecti tutoris’, vale a dire dell’accusa, rivolta al tutore, di aver agito in danno del pupillo15. Dopo aver evidenziato come il crimen suspecti derivasse dalla legge delle Dodici Tavole e quale fosse il magistrato competente a conoscere – il pretore a Roma ed il governatore in provincia, con alcune precisazioni di ordine procedurale sulla competenza –, Ulpiano identifica i destinatari della postulatio in ‘omnes tutores’. A proposito della cd. legittimazione attiva, sul presupposto che si trattasse di un’ ‘actio quasi publica’, egli afferma che a tutti sarebbe concesso di agire, persino alle donne16:
D. 26.10.1.7 (Ulp. 35 ad ed.): ‘Quin immo et mulieres admittuntur, sed hae solae, quae pietate necessitudinis ductae ad hoc procedunt, ut puta mater. Nutrix quoque et avia possunt. Potest et soror, nam in sorore et rescriptum exstat divi Severi: et si qua alia mulier fuerit, cuius praetor perpensam pietatem intellexerit non sexus verecundiam egredientis, sed pietate productam non continere iniuriam pupillorum, admittet eam ad accusationem’.
E’ consentito (agire in giudizio) addirittura alle donne, sebbene soltanto a quelle che lo facciano indotte dalla pietas inerente alla necessitudo, come accade per la madre. Inoltre, possono agire in giudizio la nutrice e la nonna; può farlo la sorella, come risulta anche da un rescritto di Settimio Severo. Il pretore, infine, permetterà l’accusatio a quelle donne che ritenga a loro volta mosse dalla pietas e che postulino nei limiti della verecondia, senza offendere i pupilli.
La «via» per ammettere le donne all’accusatio suspecti tutoris è la ‘pietas necessitudinis’. Non tutte le donne, infatti, sono legittimate ad agire, ma solo quelle mosse, appunto, dalla pietas inerente alla necessitudo, come nel caso della madre. Sono ammesse all’actio anche la nutrice e la nonna, nonché la sorella, come previsto in un rescritto di Settimio Severo. Oltre al «gruppo» di donne esplicitamente elencate, e dunque al di fuori della relazione parentale o quasi-parentale, Ulpiano prevede altresì che l’accusatio nei confronti del tutore sia permessa dal pretore anche a quelle donne che agiscano giudizialmente sempre mosse dalla pietas, in questo caso ‘perpensa’, e nei limiti della verecundia, senza offendere i pupilli17.
Vale la pena soffermarci sulla ‘pietas necessitudinis’, evocata da Ulpiano18, a mio avviso, in relazione a quell’insieme di valori sociali e morali19 identificati negli officia20, dai quali si generano ‘alia vincula’21.
Al riguardo, un punto di riferimento essenziale è dato dalla nota tricotomia senechiana beneficium, officium, ministerium22. La distinzione riguarda la «qualità» della relazione tra i soggetti interessati. Il beneficium si realizza tra individui non legati da vincoli; l’officium, invece, è definito come proprio ‘filii, uxoris, earum personarum, quas necessitudo suscitat et ferre opem iubet’ (del figlio, della moglie e di quelle persone che la necessitudo induce e costringe a recare aiuto)23. Il ministerium, infine, è l’atto compiuto dallo schiavo, che non crea alcuna posizione di aspettativa nello stesso nei confronti del proprio padrone, trattandosi di un atto dovuto alla sua condizione di sottomesso: ‘servus ... non praestat, sed paret’ (il servo non compie [il proprio officio], ma obbedisce). Mentre il beneficium è l’atto di colui che ‘dedit cum illi liceret et non dare’ (ha dato pur non essendo tenuto) (ben. 3.19.1), l’osservanza dell’officium attiene ai figli, alle mogli ed a tutte quelle persone che, per necessitudo, sono stimolate e obbligate a portare aiuto. Il dovere di prestare il proprio aiuto, dunque, viene identificato con la necessitudo, vale a dire il legame parentale, a sua volta rappresentata in termini di vinculum24.
Tra i valori collegati agli officia troviamo la pietas, sentimento che caratterizza, di regola, i comportamenti familiari, quelli verso la patria e gli dei25. La pietas, dunque, crea doveri e aspettative nell’ambito della famiglia, che prescindono dai rapporti di parentela agnatizia26. Si tratta di una nozione notoriamente vaga e sfuggente sul piano dei contenuti, proprio in ragione del fatto che rappresentava un «valore», rispetto al quale mancava una definizione dei comportamenti dovuti che ne scaturivano27.
La possibile recezione tra le regole giuridiche di valori intesi come vincolanti, fino ad un certo momento, sul piano etico-sociale rappresenta una tematica di grande interesse, che non può essere compiutamente affrontata in questa sede. Si è ipotizzato che gli influssi della dottrina etica, in particolare di quella stoica, possano aver contribuito alla elaborazione di una nozione etico-morale di pietas28. E’ anche possibile che – al di là di interferenze certamente intervenute tra settori culturali, che avrebbero potuto interessare i giuristi in modo differente, in relazione alle diverse «sensibilità» degli stessi –, un insieme di dati valoriali presenti nella società romana, tra i quali la pietas, rilevanti nelle relazioni familiari ed interpersonali, si siano via via inglobati sul piano della prassi giuridica, del diritto cd. «vivente», affiorando poi nelle soluzioni dei giuristi o delle cancellerie imperiali29.
Nella riflessione giurisprudenziale, in particolare in quella del tardo Principato, troviamo numerosi cenni alla ‘pietas’30. Ed appare interessante, in D. 26.10.1.7, l’uso, da parte di Ulpiano, dell’espressione ‘pietas necessitudinis’, connesso con la figura della nutrice. Alla ‘necessitudo’, dunque alla «doverosità» del rapporto familiare, che implica a sua volta obblighi reciproci, primo fra tutti il senechiano ‘ferre opem’, si ricollega la ‘pietas’ – nella soluzione ulpianea estesa evidentemente a regolare anche la relazione tra la nutrice e l’infante31.
Proprio il vincolo parentale (o quasi-parentale, come nel caso della nutrice), identificato nella necessitudo, fa presumere che per determinate donne – la madre, la nutrice e la nonna, oltre alla sorella in forza del rescritto severiano – la pietas giustifichi l’intervento in giudizio per venire in aiuto del pupillo32. La menzione della nutrice a fianco della madre e della nonna – nell’elenco ulpianeo, peraltro, la nutrice segue immediatamente la madre e precede la nonna – sembra rappresentare, dunque, un «sigillo» importante sul ruolo e sulla sua appartenenza alla sfera familiare all’interno della quale si ingenerano rapporti vincolanti.
3. Se in D. 26.10.1.7 la relazione nutrice-fanciullo potrebbe inquadrarsi dalla prospettiva dell’ ‘officium pietatis’, al quale la prima è tenuta nei confronti del secondo, la rappresentazione di tale rapporto, con il fanciullo ormai adulto, ritorna nuovamente in altre testimonianze di Ulpiano. Una proviene dal commentario all’officium proconsulis:
D. 40.2.11 (Ulp. 6 de off. proc.): Si minor annis viginti manumittit, huiusmodi solent causae manumissionis recipi: si filius filiave frater sororve naturalis sit.
Se è il minore di venti anni a manomettere, si è soliti ammettere ragioni (giustificative) di tal genere: se si tratti del figlio, della figlia, del fratello o della sorella naturale.
D. 40.2.13 (Ulp. libro de off. proc.)33: Si collactaneus, si educator, si paedagogus ipsius, si nutrix, vel filius filiave cuius eorum, vel alumnus, vel capsarius (id est qui portat libros), vel si in hoc manumittatur, ut procurator sit, dummodo non minor annis decem et octo sit, praeterea et illud exigitur, ut non utique unum servum habeat, qui manumittit. Item si matrimonii causa virgo vel mulier manumittatur, exacto prius iureiurando, ut intra sex menses uxorem eam duci oporteat: ita enim senatus censuit.
Se si tratti del collattaneo, dell’educatore, del pedagogo dello stesso (minore di venti anni), se si tratti della nutrice, del figlio o della figlia di coloro appena elencati, o dell’allievo, del capsario (vale a dire lo schiavo che trasporta i libri), oppure se (uno schiavo) venga manomesso a tal fine, perché sia nominato procuratore, purché non abbia meno di diciotto anni e non sia, quello da manomettere, l’unico servo. Allo stesso modo, se la fanciulla o la donna è manomessa al fine di sposarla, è necessario che il manomissore presti un giuramento prima, con il quale si obblighi a prenderla in moglie entro sei mesi. Quest’ultimo principio è stato stabilito mediante un senatoconsulto.
Il giurista si sta interessando della manomissione realizzata dal minore di venti anni e, in particolare, dell’istruttoria relativa alle cause giustificative della manumissio (probatio causae manumissionis) posta in essere, appunto, dal dominus che abbia meno di venti anni. La probatio causae, secondo le previsioni della lex Aelia Sentia, si teneva dinanzi al consilium, composto, a Roma, da cinque senatori e cinque cavalieri e, in provincia, da venti recuperatores civium Romanorum34.
L’elenco delle causae è tratto dalla prassi, come segnala l’uso del verbo ‘solere’35. Ulpiano riproduce molte situazioni descritte in precedenza da Gaio36 – i figli ed i fratelli naturali, l’allievo, il pedagogo, il servo ‘procurator habendi causa’, la schiava ‘matrimonii causa’, il collattaneo –, aggiungendo le figure dell’ ‘educator’, della ‘nutrix’ e del ‘capsarius’. Precisa, inoltre, per il caso della ‘manumissio, ut procurator sit’, che il manomissore non debba avere meno di diciotto anni ed il servo da manomettere non sia l’unico in suo possesso. Per il caso della manomissione ‘matrimonii causa’, un senatoconsulto aveva stabilito che il dominus si impegnasse mediante giuramento a celebrare le nozze entro sei mesi.
Nel secondo libro del commentario alla lex Aelia Sentia, Ulpiano ritorna sulla questione della probatio causae in caso di manomissione da parte del minore di venti anni:
D. 40.2.12 (Ulp. 2 ad l. Ael. Sent.): Vel si sanguine eum contingit (habetur enim ratio cognationis).
O se è in relazione (con lo schiavo) per ragioni di parentela di sangue (infatti si ha una ragione di cognatio).
D. 40.2.16.pr. (Ulp. 2 ad l. Ael. Sent.): Illud in causis probandis meminisse iudices oportet, ut non ex luxuria, sed ex affectu descendentes causas probent: neque enim deliciis, sed iustis affectionibus dedisse iustam libertatem legem Aeliam Sentiam credendum.
È necessario che i giudici ricordino ciò, nell’istruzione delle cause giustificative (della manomissione), che approvino cause che originano dall’affetto e non dall’eccesso; infatti dobbiamo ritenere che la legge Aelia Sentia abbia previsto di dare una libertà giusta in ragione di giuste affezioni.
Il giurista segnala, dapprima, la parentela per sangue, richiamando la ratio cognationis, quale criterio giustificativo: ‘... si sanguine eum contingit’. Prosegue, poi, invitando i componenti del consilium a tenere conto, ‘in causis probandis’, di causae che traggano origine ‘non ex luxuria, sed ex affectu’: non dagli eccessi e dall’intemperanza, dunque, ma dall’affetto, dal sentimento. Sul piano della probatio, il sentimento, l’affetto, l’amore (‘affectus’) rappresentano una ‘iusta causa manumissionis’, che si oppone al mero eccesso, all’intemperanza, alla sovrabbondanza quali eventuali ragioni della manomissione. L’uso del termine «affectus», da parte di Ulpiano, avviene, a mio avviso, in senso generico37, per indicare il sentimento da porsi alla base della manumissio, in contrappunto ad un’azione stimolata solo dalla luxuria.
Dopo aver suggerito il criterio di valutazione che il consilium dovrebbe seguire per la probatio causae, Ulpiano sembra esprimere un giudizio sulle finalità della legge. Deve ritenersi, a suo avviso, che la legge Aelia Sentia abbia inteso concedere la ‘iusta libertas’ in ragione di ‘iustae affectiones’, non dei ‘delicia’. Le intenzioni del manomissore, secondo le finalità del provvedimento, devono essere corrette, non possono rappresentare espressione di lusso e mollezza. L’uso di ‘affectio’, nella seconda parte di D. 40.2.16.pr., sembra possa riferirsi alle intenzioni ed al proposito del dominus, valutate in senso ampio, quale aspetto da ricondurre agli obiettivi che la legge intendeva perseguire. Al lemma, infatti, si affianca l’aggettivo ‘iustus’, ripetuto per qualificare la ‘libertas’ voluta dalla lex Aelia Sentia. ‘Affectus’, utilizzato da Ulpiano nella prima parte del passo a proposito della valutazione della probatio causae, indica, invece, la qualificazione in termini valoriali della affectio: il sentimento, l’affetto posto alla base del rapporto, rende iustae le affectiones che giustificano, a quel punto, l’attribuzione della libertas, a sua volta qualificabile come iusta, conforme alle intenzioni del legislatore38.
Il cenno alla relazione affettiva può essere riferito alla maggior parte delle situazioni prese in considerazione dal giurista in D. 40.2.11 e 13: oltre ai figli ed ai fratelli naturali, la cui probatio si giustifica in forza della ratio cognationis evocata in D. 40.2.12, il collattaneo, l’educatore, il pedagogo, la nutrice, l’allievo, il capsario rappresentavano l’altro «polo» di quell’insieme di relazioni «quasi» parentali che si instauravano nel corso della vita del fanciullo, dalla sua nascita in avanti.
Tra di essi, la nutrice rivestiva, probabilmente, un ruolo di primo piano. Sembrano attestarlo sia la testimonianza di Ulpiano in tema di accusatio suspecti tutoris39 sia le numerose iscrizioni funerarie rinvenute che segnalano la persistenza della relazione sino alla morte della nutrice o dell’(ex) fanciullo40.
La manomissione della propria nutrice, dunque, può rappresentare, nella prospettiva ulpianea ricostruibile dalla combinazione delle testimonianze provenienti dal de officio proconsulis e dal commentario alla lex Aelia Sentia, l’esecuzione di un officium pietatis. Se alla base c’è l’affectus, è attraverso la pietas che lega la nutrice al fanciullo, ormai adulto, che quest’ultimo compie un atto ritenuto doveroso, sebbene si collochi al di fuori della relazione parentale. Tale comportamento, dunque, deve essere considerato positivamente nel giudizio del consilium che valuta la probatio causae. La libertas attribuita, dunque, sarà iusta, conformemente alle intenzioni della legge augustea.
A tal riguardo, non pare di poco conto che proprio il giurista severiano mostri una particolare sensibilità per la pietas, valore richiamato in molteplici situazioni e contesti. E che, in tale età, l’officium pietatis rappresenti un parametro a cui ricorrere sovente per la proposizione di soluzioni giuridiche.
Da siffatta prospettiva, è possibile che il rapporto nutrice-ex infante sia stato ricondotto nell’alveo dell’officium pietatis per la prima volta in quel periodo. La soluzione potrebbe essere proprio ulpianea e l’interpretazione del giurista avrebbe allargato le «maglie» dell’ambito familiare al quale normalmente si riconducevano le relazioni doverose caratterizzate dalla pietas. Anche la mancata menzione della nutrice nell’elenco di Gai., inst. 1.19 e 3941, potrebbe rappresentare un indizio del fatto che essa non fosse presa in considerazione da Gaio o che vi fossero dissensi nell’interpretazione giurisprudenziale precedente.
Il ricorso alla pietas quale motivo posto a fondamento di tematiche giuridiche, nelle forme dei provvedimenti delle cancellerie imperiali, nonché delle soluzioni giurisprudenziali, sembra, infatti, attestarsi in modo manifesto in età severiana, in tema di rapporti fra genitori e figli o, più in generale, fra ascendenti e discendenti, tra fratelli, fra coniugi, fra zii e nipoti42.
Quel vincolo nei confronti di persone alle quali si è legati da rapporti di sangue, consuetudine e affetto, che nelle fonti retoriche troviamo de-scritto a partire dal primo secolo a.C.43, nell’età dei Severi diviene sovente criterio decisionale nonché motivo normativo44. Attraverso l’attività interpretativa dei giuristi, dunque, il ricorso alla pietas rappresenterebbe lo «strumento» per dare rilevanza ad esigenze sociali non formalizzate. Ed in tale contesto, accanto alle relazioni familiari, spicca il ruolo della nutrice, componente «non parente» della famiglia romana.
4. D’altronde, che l’‘officium pietatis’ caratterizzasse il rapporto nutrice-infante sembra emergere, oltre che dalle iscrizioni funerarie45, da alcune testimonianze letterarie.
In particolare, nel noto discorso di Favorino, riferito da Aulo Gellio46, il filosofo considerava inammissibile l’affidamento dell’infante alla nutrice, valutando tale comportamento dei genitori come un abbandono.
Favorino richiama continuamente la natura in relazione alla necessità di allattare il figlio da parte della madre. Giunge in tal modo ad escludere che essa sia ‘tota integra mater’, nel caso in cui allontani il figlio appena nato; si tratta, al contrario, di un ‘genus matris contra naturam inperfectum atque dimidiatum’ ‘genere di madre contro natura imperfetto ed a metà’47.
Il cenno alla natura prosegue mediante riflessioni medico-scientifiche a proposito del latte, che non sarebbe altro che il sangue, nutrimento del feto fino al parto, che si trasforma, attraverso un processo di respirazione e calore, nel latte materno48. Tale circostanza, prosegue Favorino, è talmente importante che sarebbe sciocco non considerarla, dal momento che la trasmissione del latte attraverso l’allattamento crea somiglianze di corpi e caratteri. Non v’è ragione, quindi, di degradare la nobiltà del corpo e dell’animo che l’uomo porta con sé dalla nascita, soprattutto se colei che viene impiegata per fornire il latte è schiava o di origine servile, straniera e barbara, disonesta, deforme, impudica, ubriacona. La prassi, infatti, è quella di ricorrere alla schiava che, nel momento della necessità, abbia latte a disposizione, senza operare una scelta oculata.
Terminate le considerazioni che coinvolgevano le convinzioni mediche, Favorino passa a quelle di natura affettiva. Il termine di riferimento è sempre la natura: il vincolo ed il legame di tenerezza e amore con il quale la natura avvince i genitori ed i figli si sarebbe interrotto o perlomeno allentato49. Distrutti i fondamenti della ‘nativa pietas’, continua il filosofo, l’amore dei figli per i genitori non sarà più ‘naturalis’, bensì ‘civilis et opinabilis’50.
E’ interessante la terminologia ricorrente, che ricalca in parte quella ulpianea: ‘vinculum’, ‘adfectio’, ‘pietas’. Il ‘vinculum animi atque amoris’, la ‘adfectio animi, amoris, consuetudinis’, la ‘nativa pietas’ sono relazioni che si avviano tra l’infante e la nutrice, con l’allattamento affidato a quest’ultima. Peraltro, il rapporto che si instaura e dal quale nascono vincula, adfectiones, pietas, si costruisce sul principio di reciprocità. E’ il comportamento posto in essere che, come risulta essere determinante per la sostituzione della nutrice alla madre quale terminale affettivo, allo stesso modo genera sentimenti e doveri reciproci tra la nutrice e l’infante fondati sulla pietas, anche quando quest’ultimo abbia raggiunto un’età adulta51.
5. La particolare «sensibilità» di Ulpiano per il ruolo della nutrice è attestata in un’altra testimonianza, tratta dal ‘de omnibus tribunalis’, sulla competenza del governatore provinciale in tema di salari ed onorari non pagati52:
D. 50.13.1.14 (Ulp. 8 de omn. trib.): Ad nutricia quoque officium praesidis vel praetoris devenit: namque nutrices ob alimoniam infantium apud praesides quod sibi debetur petunt. sed nutricia eo usque producemus, quoad infantes uberibus aluntur: ceterum post haec cessant partes praetoris vel praesidis.
La funzione del governatore o del pretore si rivolge anche al salario della nutrice; infatti, le nutrici richiedono quanto sia loro dovuto per il nutrimento (degli infanti) presso i governatori; ma si chiede in giudizio il salario nei limiti dell’allattamento degli infanti; al di fuori di queste specifiche spese, viene meno la competenza del pretore o del governatore.
Il giurista, nei paragrafi che precedono il § 14, propone una gerarchia, in riferimento a determinate categorie di lavoratori intellettuali, tra le diverse artes, ponendo al vertice filosofia e giurisprudenza (§ 4-5), seguite da retorica, grammatica, geometria (pr.) e medicina (§ 1), per passare poi a discipline che si realizzano ‘per litteras vel notas’, come quelle dei maestri di scuola elementare, dei copisti, degli stenografi e dei contabili (§ 6). A queste professioni, il giurista ne fa seguire altre, nelle quali prevale l’elemento materiale su quello intellettuale53.
Fra tutte le professioni elencate da Ulpiano, era permesso agire extra ordinem ad insegnanti, medici, nutrici ed avvocati. La presenza delle nutrici tra i lavoratori considerati dal giurista ha suscitato delle perplessità e sono state proposte soluzioni differenti per giustificarla54. Si è detto che l’attività dell’allattamento, alla quale nel passo si limita il diritto di agire in giudizio (‘sed nutricia eo usque producemus, quoad infantes uberibus aluntur’ ‘ma si chiede in giudizio il salario nei limiti dell’allattamento degli infanti’), non potesse rientrare nell’oggetto di un contratto di locazione o di mandato e che pertanto, la richiesta dei ‘nutricia’ dovesse necessariamente passare per la procedura extra ordinem55. Ma tale circostanza, come è emerso in particolare dalle testimonianze papirologiche dell’Egitto greco-romano, è stata al contrario comprovata56. Nel Digesto, peraltro, sono presenti passi che si occupano delle richieste delle nutrici per la propria attività professionale57.
E’ un dato di fatto che, nella prospettiva ulpianea, l’attività della nutrice sia posta sullo stesso piano di quella espletata da medici e insegnanti, probabilmente in considerazione del fatto che le nutrici si occupassero del fisico e della mente degli infanti.
Ulpiano, nel principium e nel § 1, riconosce ai praeceptores studiorum liberalium di poter avanzare richieste dinanzi al governatore della provincia in ragione di una iusta causa – addirittura «più giusta» (‘nisi quod iustior’) nel caso dei medici (‘cum hi salutis hominum curam agant’ ‘trattando questi della cura della salute degli uomini’) –, occupandosi degli studi58.
Il giurista mostra attenzione per i ruoli «chiave» nella formazione e nella cura degli individui. La ‘cura salutis et studiorum hominum’ diviene ‘iusta causa’ del ‘ius dicere extra ordinem’. In tale quadro generale, con la precisazione che il punto di riferimento erano i professores (‘licet non sint professores’), si era affermato, in via di fatto (‘tamen usurpatum est’), anche il diritto di ricorrere al governatore per i maestri elementari59, a cui seguivano alcuni «tecnici», come i copisti, gli stenografi ed i contabili60.
Da tale visuale, quindi, la menzione delle nutrici, a fianco dei professori, dei medici, degli insegnanti e degli avvocati, può trovare una spiegazione61. Si tratterebbe, infatti, di lavoratori che contribuiscono, prima e insieme agli insegnanti degli studia liberalia, alla formazione degli individui. Una figura, quella della nutrice, che potrebbe peraltro inquadrarsi rispetto sia alla cura salutis sia alla cura studiorum, se intendiamo in senso ampio i termini ‘salus’62 e ‘studia’63.
Al contempo, il testo ulpianeo lascia intravedere uno spaccato della società romana di quel periodo, indicando ordini e ceti privilegiati, nonché professioni ritenute, sul piano socio-familiare, di particolare rilevanza64. Non si trattava solo di una prospettiva professionale, ma della rilevanza del ruolo all’interno della famiglia, secondo una scala valoriale romana.
6. La questione della manomissione del servo da parte del minore di venti anni, presa in esame da Ulpiano, è affrontata anche da Paolo, nel commentario alla lex Aelia Sentia, sebbene non venga menzionata la nutrice. La testimonianza appare, però, di particolare interesse, occupandosi, come Ulpiano, delle causae probationis. Paolo non mette in discussione che la manumissio rappresenti, in sé, un beneficium65:
D. 40.2.15 (Paul. 1 ad l. Ael. Sent.): pr. Etiam condicionis implendae causa minori viginti annis manumittere permittendum est, veluti si quis ita heres institutus sit, si servum ad libertatem perduxerit. 1. Ex praeterito tempore plures causae esse possunt, veluti quod dominum in proelio adiuvaverit, contra latrones tuitus sit, quod aegrum sanaverit, quod insidias detexerit. et longum est, si exequi voluerimus, quia multa merita incidere possunt, quibus honestum sit libertatem cum decreto praestare: quas aestimare debebit is, apud quem de ea re agatur.
pr. Deve esse consentita la manomissione anche al minore di venti anni istituito erede all’avveramento della condizione di affrancare il servo. 1. Dal passato, svariate possono essere le ragioni giustificative (della manomissione), come ad esempio il caso del servo che abbia aiutato il padrone in battaglia, lo abbia difeso dai briganti, lo abbia curato nella malattia, lo abbia protetto dalle insidie. L’elencazione sarebbe lunga, se si volesse proseguire, dal momento che molti sono i meriti che possono incidere, in forza dei quali risulti onesto attribuire la libertà con il provvedimento: si deve valutare caso per caso nel giudizio.
Dopo aver portato l’esempio del minore di venti anni istituito erede sotto la condizione di manomettere il servo quale causa giustificativa dell’affrancazione, nel § 1 il giurista riferisce come svariate siano le causae della probatio dinanzi al consilium recepite dal passato. L’elenco attiene a situazioni nelle quali il servo abbia arrecato un vantaggio al proprio padrone: l’aiuto in battaglia, la difesa dai briganti, la guarigione dalla malattia, la protezione dalle insidie. L’elencazione, continua Paolo, sarebbe lunga se si volesse proseguire, dal momento che ‘multa merita incidere possunt, quibus honestum sit libertatem cum decreto praestare’ (‘molti sono i meriti che possono incidere, in forza dei quali risulti onesto attribuire la libertà con il provvedimento’). Si dovrà valutare, dunque, caso per caso.
Il richiamo del dato valoriale dell’ ‘honestum’, al quale Paolo collega le diverse situazioni elencate, sembra evocare il ‘referre gratiam’ proprio del beneficium, così come delineato nel pensiero senechiano66. Il giurista, è ovvio, non vuole, con il richiamo di ‘honestum’, riferirsi alla manumissio, da intendere di per sé come un beneficium. Ciò che è ‘honestum’, per Paolo, è la causa manumissionis da sottoporre al consilium, e lo è in quanto si tratta di giustificare il superamento di un divieto legislativo attraverso l’analisi delle intenzioni del manomissore. Questo appare, a mio avviso, il momento che segna la linea di confine tra Paolo e Ulpiano: il criterio di valutazione delle intenzioni, le ‘iustae adfectiones’ di cui parlava il giurista di Tiro. Per Paolo, l’atto del ‘libertatem praestare’ passa attraverso la qualificazione del comportamento in termini di ‘honestum’, valore che può assumere tante angolature quanti siano i ‘merita’ (‘multa’) dello schiavo. Tutte queste situazioni, a suo giudizio, possono diventare ‘causae probationis’ che il consilium sarà tenuto a valutare positivamente.
Con l’associazione ‘merita’-‘honestum’, e la possibile qualificazione di quest’ultima nozione in termini di ‘referre gratiam’, Paolo sembra andare oltre la soluzione di Ulpiano, generalizzando le ‘iustae adfectiones’ di D. 40.2.16.pr. nei ‘multa merita quibus honestum sit libertatem praestare’. Lascia da parte la dimensione individuale dell’ ‘affectus’, superandola con il richiamo ai ‘merita’, non necessariamente connessi ai doveri fondati sulla ‘pietas’.
Le situazioni descritte da Paolo sembrano indicare comportamenti che probabilmente andavano al di là di quelli automaticamente riconducibili alla condizione di soggezione del servo, il cd. ministerium: la protezione del padrone, l’aiuto in battaglia, la cura nella malattia, rappresentano circostanze nelle quali lo schiavo realizza un beneficium al proprio dominus67. Né appare decisiva l’assenza di riferimenti alla nutrice nella testimonianza di Paolo. Il giurista propone un elenco con delle esemplificazioni, ma lascia intendere che le situazioni sono molteplici (‘multa’), sintetizzate nel binomio ‘merita-honestum’.
La decisione del dominus, pertanto, sarà circoscritta sempre al momento «morale», ma senza quel vincolo di ‘necessitudo’, che abbiamo ipotizzato caratterizzare, per Ulpiano, il rapporto nutrice-fanciullo. La valutazione della meritevolezza del comportamento del servo attiene al momento individuale, al dovere di riconoscenza del dominus, spinto a referre gratiam in ragione del vincolo interiore che si è determinato per il beneficio ricevuto68.
7. La possibile qualificazione di ‘honestum’, in D. 40.2.15.1, in termini di ‘referre gratiam’, sembra inquadrare la relazione nutrice-infante nell’ambito dei beneficia. Nel de Beneficiis, Seneca parlava dell’attività della nutrice, dapprima, in termini di ‘officium’, per poi qualificare l’allattamento come un ‘beneficium’ per l’infante:
ben. 3.29.7: Nisi me nutrix aluisset infantem, nihil eorum, quae consilio ac manu gero, facere potuissem nec hanc emergere in nominis claritatem, quam civili ac militari industria merui; numquid tamen ideo maximis operibus praeferes nutricis officium? Atqui quid interest, cum aeque sine patris beneficio quam sine nutricis non potuerim ad ulteriora procedere?
Se la nutrice non mi avesse allevato quando ero bambino, non avrei potuto fare alcuna attività intellettuale o fisica, né avrei potuto conseguire quella fama che con la mia attività civile e militare mi sono procacciato; tuttavia sarà questa una ragione per considerare le grandi imprese inferiori al lavoro di una nutrice? E che differenza c’è fra le due cose, dato che la mancanza del beneficio del padre o di quello della nutrice mi avrebbe in egual misura impedito di andare avanti?
Il filosofo si sta occupando della possibilità, per i figli, di compiere beneficia nei confronti dei propri genitori, maggiori di quelli ricevuti. Di qui, le riflessioni si spostano sul rapporto necessario tra ciò che precede e la sua derivazione, che non potrebbe esserci senza il precedente che ne è causa. Il richiamo della nutrice, dunque, si spiega per il suo compito di ‘alere infantem’, che la colloca a fianco del padre che ha generato il figlio. Senza i beneficia di entrambi, valutati alla stessa stregua (‘aeque’), il fanciullo non avrebbe potuto realizzare attività intellettuali e fisiche né conseguire fama.
Se officium, nel passo, va inteso come il compito al quale la nutrice è tenuta69, maggiore interesse suscita invece la presenza di ‘beneficium nutricis’, posta accanto a quello ‘patris’. L’atto in sé dell’allattamento, ovviamente, non poteva rappresentare un beneficium, in quanto si sarebbe trattato di un comportamento dovuto in ragione della funzione. Seneca non lo esplicita, ma parlando di ‘beneficium nutricis’ voleva riferirsi alle modalità di attuazione del comportamento della stessa. Possiamo prendere a termine di paragone, in chiave interpretativa, il discorso svolto a proposito del medico e del precettore in ben. 6.16.1 ss.70. Seneca distingue il debito di denaro nei loro confronti per le funzioni svolte dal debito di gratitudine che invece attiene al modo in cui medici e precettori possono esercitare il mestiere. Si deve guardare, insomma, alla ‘benigna et familiaris voluntas’ per individuare chi svolga le proprie mansioni andando oltre ciò che è dovuto. Nei confronti di costui, conclude Seneca, ‘ingratus sum, nisi illum inter gratissimas necessitudines diligo’ (‘sono un ingrato, se non lo considero fra i legami più degni di riconoscenza’).
Non dobbiamo faticare troppo, allora, per comprendere che, nel pensiero senechiano, il ‘beneficium nutricis’ rientri nelle modalità di svolgimento dell’officium nutricis, e che tale beneficio determini l’insorgere di un vincolo di riconoscenza nel beneficiario.
Nelle battute conclusive dell’opera, Seneca torna a parlare della nutrice, associata al praeceptor, parlando del beneficium che la stessa ha destinato al fanciullo. Chiedendosi se la ‘memoria beneficiorum’ sia sempre viva e se non vi siano officia nel frattempo affievoliti, il filosofo parla dei beneficia ricevuti prima dell’adolescenza, il cui ricordo sia svanito. La memoria, d’altronde, è un ‘vas fragile’, che non può contenere grandi quantità di ricordi, cancellando i più risalenti71. A quel punto, vengono chiamati in causa nutrici e precettori:
ben. 7.28.2: Sic factum est, ut minima aput te nutricis esset auctoritas, quia beneficium eius longius aetas sequens posuit; sic factum est, ut praeceptoris tibi non esset ulla veneratio; sic evenit, ut circa consularia occupato comitia aut sacerdotium candidato quaesturae suffragatur excideret.
A ciò è dovuto se l’autorità della tua nutrice è ormai minima presso di te: il suo beneficio è stato relegato indietro dal tempo che è trascorso; da ciò deriva se per il tuo precettore non serbi ormai alcuna venerazione; da ciò deriva se, essendo occupato nella campagna elettorale per il consolato o candidato al sacerdozio, ti è caduto dalla memoria chi si è adoperato per la tua elezione a questore.
La prospettiva senechiana, per la quale il ‘beneficium’ ricevuto dalla nutrice (e dal precettore) impone l’ ‘officium’ del ‘referre gratiam’ in ragione dei meriti che portano a qualificare un atto dovuto in un atto funzionale ad arrecare vantaggio al destinatario, secondo la puntuale spiegazione fornita in ben. 6.16.1 ss., sembra riecheggiare proprio nelle parole di Paolo e nel binomio ‘merita’-‘honestum’ di D. 40.2.15.1.
Diversamente, Ulpiano proponeva, in D. 40.2.16.pr., una soluzione da una prospettiva differente dal ‘referre gratiam’, costruita sul dato valoriale che si pone alla base del rapporto tra il manomissore e lo schiavo, sintetizzata nell’ ‘affectus’, da contrapporre alla ‘luxuria’: le causae che discendono dal rapporto affettivo valgono a provare una ‘iusta adfectio’ – che abbiamo ipotizzato porsi alla base dell’officium pietatis –, dalla quale può discendere una ‘iusta libertas’ come nelle intenzioni della lex Aelia Sentia.
Da tale angolo visuale, quelle che paiono delle mere elencazioni di situazioni e rapporti giustificativi della manomissione da parte del minore di venti anni, assumono un rilievo di non poco conto, rappresentando un’ampia finestra sulla società e sulla famiglia romana, nonché sulle articolate relazioni che al suo interno si andavano costruendo. Con percezioni, forse, parzialmente differenti, nelle prospettive dei singoli giuristi, come sembrano evidenziare Paolo e Ulpiano.