L’Altra assoluta

Una lettura derridiana di Medea

DOI : 10.54563/revue-k.1055

Résumé

The aim of the text is to propose a reading of the Greek tragedy Medea starting from Jacques Derrida's thought. The stakes of this work are not limited to applying some key elements of deconstruction to the figure of Medea. Above all, the essay aims to show how the story of this barbarian woman from Colchis can embody and clarify some fundamental concepts proposed by Derrida to rethink the dimension of the political. Medea is a figure very close to what in Derrida's philosophy is called The Other and her story, narrated by Euripides, gives an idea of the extreme and provocative character that always belongs to absolute hospitality.

Plan

Texte

Chi è lo straniero, chi è la straniera?
Che vuol dire «andare fuori», «venire da fuori»?

Jacques Derrida

1. Abitare l’impossibile

In Sull’ospitalità (2000), Derrida elegge la dimensione topologica di un pensiero che inizia chiedendo dove? come via destinata a condurre nei pressi dell’umano. La parola francese demeurer, “rara, enigmatica e propriamente intraducibile” (Derrida, 2001, p. 154), è un termine polisemantico attraverso cui si attesta che la questione dell’abitare si incrocia indissolubilmente con quella della traduzione, del rapporto all’alterità.

Sebbene la figura tragica di Medea non si annoveri tra quelle cui Derrida presta un’attenzione diretta, l’obiettivo qui è mettere in luce il modo in cui le storie che riguardano questa donna barbara proveniente dalla Colchide siano in grado di farci cogliere la rilevanza di alcune nozioni fondamentali proposte da Derrida per il ripensamento del politico. In particolare, nella versione del mito fornita da Euripide, Medea sembra porsi come figura dell’impossibile, di ciò che continuamente re-iscrive i margini tra umanità e disumanità, tra diritto e giustizia, tra perdono e imperdonabile.

La storia di Medea in quanto donna, barbara, diversa, senza-nome, senza-patria, senza-famiglia, senza-diritti, può essere letta nei termini dell’esperienza di un’Altra assoluta: di una figura differenziale femminile che si pone al di là dei margini del discorso soggettivo e cosciente su cui si fonda ogni identità riconoscibile, così come ogni configurazione dell’etica, intesa etimologicamente come soggiorno, abitabilità e condizione di possibilità del vivere-insieme. Il nome di Medea riesce ad evocare ciò che perturba continuamente l’ipseità, ciò che inquieta strutturalmente l’elemento identitario alla base di ogni forma di sovranità, maschile e paterna, che storicamente guida il potere familiare, politico, giuridico e sociale. Medea incarna, manifestandone l’effetto prorompente, quella dinamica contraddittoria e irrisolvibile che segna il rapporto tra dentro e fuori, indagata da Derrida specialmente negli scritti di stampo maggiormente etico-politico e, in particolare, a contatto con il pensiero greco:

Questa eterogeneità e la legge della contaminazione tra il tutt’altro di questa eterogeneità e la sua regolare riappropriazione (inclusione/esclusione, ridialettizzazione economica, ecc.) è senza dubbio ciò che mi ha più costantemente inquietato nella mia lettura, segnatamente quella dei ‘Greci’ (Platone o Aristotele, per esempio), ma che ha anche impedito a questa lettura di identificare, di determinare un’identità a sé, un’immanenza a sé del Greco, come d’altronde di ogni corpo linguistico, discorsivo, sistemico o testuale. Non è solo il non-Greco che mi ha attirato nel Greco (si tratta insomma di sapere cosa significhi ‘nel’), non è solo l’altro dal Greco, […], ma il tutt’altro del Greco, della sua lingua e del suo logos, questa figura del tutt’altro per lui infigurabile (Derrida, 1992, p. 260)1.

Da questa angolazione derridiana, si intende rileggere la storia di Medea come il tentativo (impossibile) di portare in scena – innanzitutto nella scena di un teatro greco – una figura di questo “infigurabile”: una rappresentazione, cioè, del non-greco nel greco; anzi, più drasticamente, di una non-greca nel greco. La vicenda di una donna non-greca, di una proveniente da fuori, si porrebbe allora come esperienza inconcepibile, intollerabile, eversiva, notturna e luttuosa che irrompe nello spazio illuminato e ordinato della società civile e della vita politica. Il volto di Medea, quale figlia, donna e madre snaturata, diverrebbe visione insostenibile per lo sguardo di chi abita il dentro, ma si scopre originariamente ospitato da ciò che lo eccede.

2. Esilio: la rinuncia del nome

Nel testo Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo! (2005), Derrida dichiara che “l’etica è l’ospitalità, è da parte a parte coesistiva all’esperienza dell’ospitalità, in qualunque modo la si apra o la si limiti” (p. 27).

La tragedia Medea, presentata ad Atene in occasione delle Grandi Dionisie nel 431 a. C., si avvia attraverso le parole della nutrice che ne rievoca l’exilium, il viaggio da fuori di Medea. Euripide prende le mosse dal tratto essenziale di questa figura tragica: Medea è colei che viene da fuori, è un’esule, un’estranea alla terra e alla patria (esule, da ex-solum, significa letteralmente fuori-suolo). Già essere nata nella Colchide significa provenire dall’estremità orientale del mondo conosciuto dai greci; in più, essere donna – in Colchide, nella terra di Iolco o a Corinto – equivale a restare fuori dalla gestione del potere.

Il nome di Medea si lega immediatamente a quello della città nel senso che questa donna barbara incarna il destino di chi abita uno spazio inabitabile, di chi risiede dentro le mura cittadine, ma resta irrimediabilmente fuori dal riconoscimento giuridico necessario a dargli davvero dimora. Come ricorda Derrida, la questione dello straniero è proprio una questione venuta da fuori (Derrida, Dufourmantelle, 2000, p. 39). Lo straniero è innanzitutto chi pone la prima domanda e, allo stesso tempo, colui al quale è rivolta la prima domanda. La dimensione del fuori coincide con la dimensione della domanda intesa come messa in questione dell'ipseità: lo straniero abita il fuori, cioè quello spazio che perturba l’interno della soggettività, il luogo di una coscienza raccolta in se stessa.

La tragedia Medea riguarda allo stesso modo la donna e le leggi cittadine: esse si pongono agli occhi degli spettatori del teatro euripideo come lenti chiamate a filtrare la ricezione della vicenda. Euripide diventa chi, dall’interno della città di Atene, dal palcoscenico del suo teatro, lascia giungere da fuori la figura di una donna, di un’esule e di un’estranea che porta il nome di Medea. Questo nome rappresenta l’unica indicazione con cui è possibile riferirsi al suo personaggio e deriva dal verbo greco médomai che significa tramare2; come tutto ciò che viene da fuori, Medea si presenta agli ateniesi fin dall’inizio nel suo carattere sovversivo ed inquietante.

Derrida si dedica a molteplici figure del fuori che sembrano caratterizzate essenzialmente da due elementi: l’accecamento e la follia. Lo straniero, inteso ancora generalmente, è un personaggio eversivo e folle nel senso del termine greco manikos, ossia qualcuno che si rivolta o si capovolge, che cammina sotto sopra e che non riesce a vedere ciò che è chiaro a tutti, perfino ai ciechi (p. 43). Il carattere eversivo della questione posta dallo straniero si configura attraverso un discorso parricida; Derrida, infatti, pone l’accento sulla nota scena del Sofista in cui uno xenos scuote il dogmatismo di Parmenide, del padre della filosofia. Lo Straniero è colui che sfida l’autorità paterna e tenta il rovesciamento della sua tesi fondativa (l’essere è/il non essere non è) da cui deriva il potere di distinzione tra dentro e fuori, tra vero e falso, tra io e altro, tra possibile e impossibile.

Nell’incipit della tragedia di Euripide, la nutrice non richiama solo gli spostamenti territoriali che segnano la storia di Medea, ma anche il movimento deviante che contraddistingue la logica che guida ogni suo atto: a seguito dell’arrivo di Giasone nella sua casa di famiglia, Medea tradisce il padre e con lui la patria di cui questi è alla guida; inoltre, uccide Assirto, suo fratello ed erede del regno di Colchide. Tutti gli eventi luttuosi operati dalla mano della donna-barbara possono essere riletti in riferimento al moto propulsore dell’intera vicenda, riconosciuto nell’iniziale rinuncia alla sua appartenenza genealogica che si configura come una forma simbolica di parricidio.

In quanto lettori moderni di un tragediografo antico, ripetiamo l’esperienza spaesante dei cittadini presenti alle Grandi Dionisie: facciamo la conoscenza di Medea da dentro la città di Corinto, ma la percepiamo subito come estranea, giunta da fuori e senza più un luogo in cui fare ritorno; la rinuncia alla sua famiglia, alla sua genealogia, alla sua città si configura subito come esilio irrimediabile e assoluto. La lettura di Medea che si intende proporre trova qui il suo fulcro: nell’accostarsi alla forma del tragico Derrida mostra, infatti, che la tragedia “è sempre tragedia del nome, perché questo, in quanto parola, è sempre titolo, nome della legge (non si dà parola senza legge, senza legge della parola): la rinuncia al nome è rinuncia alla legge o, in altri termini, è consegna alla morte” (Facioni, 2014, p. 162)3. Questo riferimento derridiano assume un senso se si considera che Medea, una volta scisso il legame con la dimensione domestica originaria, non acquisisce più un altro nome, non costituisce ufficialmente una nuova famiglia. Al di là del suo personale sentire, Medea non diventa in nessun caso la moglie di Giasone e vive nella condizione della atimia, permanendo priva di ogni diritto che solo un nome potrebbe restituirle. In questo senso, Medea si consegna alla morte: non entra mai più a far parte del corpo vivente che costituisce il politico e, per la città e per le sue leggi, cessa effettivamente di esistere.

Sebbene l’elemento più sconcertante della storia di Medea raccontata da Euripide sia l’infanticidio, probabilmente la sua è già una tragedia prima di essere una tragedia di Euripide; cioè già quando rinuncia al nome di famiglia, quando compie la decisione folle e imperdonabile che la distingue da altre figure femminili mitiche4. Il momento e il modo in cui Medea si separa dalla Colchide rappresentano il punto di partenza della tragedia; esso, rievocato da Euripide, si configura come ciò che davvero rende tragica la sua storia e consente di interpretare altrimenti sia l’esperienza dentro/fuori la città di Corinto sia l’atto estremo di uccisione dei philoi, che ha consegnato la sua figura al nostro immaginario mostruoso. Si intende, dunque, cogliere il ritmo della Medea come scandito dal principio di separazione e di relazione rappresentato dal nome e della sua legge, al fine di mostrare come questa vicenda mitica riesca a rendere conto dell’effettività e della concretezza di alcune tensioni teoriche poste alla base della decostruzione del politico. Per iniziare ad intravedere i passi in cui tale ritmo si inscena, al cospetto di questa barbara che rinuncia al nome di famiglia e al legame con la sua stirpe, bisogna chiedersi: chi è Medea? Esiste per lei uno spazio in cui trovare-luogo, uno spazio scavato tra il nomos e l’anomia, tra il nome proprio e l’anonimità? Rispondere a un simile quesito significa innanzitutto decidere se Medea si lasci agevolmente rappresentare dalla figura della Straniera o se la sua persona (il segreto che risiede sotto la sua maschera) assuma il volto di un’Altra assoluta.

3. Quale ospitalità?

Nell’Apologia di Socrate, Derrida rintraccia una figura dello straniero incarnata ed interpretata da Socrate stesso che, pur non essendo in effetti straniero nel suo status, nel momento in cui sta per perdere la propria vita, dichiara di sentirsi dinnanzi ai suoi concittadini e ai giudici ateniesi “come uno straniero” (Derrida, Dufourmantelle, 2000, p. 46). L’oratoria tribunalizia con cui Socrate è chiamato a confrontarsi si colloca nell’ambito di una lingua in cui si sente spaesato, perché egli parla una lingua idiomatica e domestica, priva dell’artifizio che contraddistingue il codice giuridico così come quello sofistico e politico. Il discorso socratico rappresenta un indizio utile a comprendere che nel mondo greco per lo straniero esistono dei diritti, come, ad esempio, quello di recarsi dinnanzi a un tribunale: in Grecia esiste un diritto degli stranieri, cioè un diritto di ospitalità condizionata da leggi e norme istituite e condivise dalla città.

A partire da qui, Derrida opera una distinzione fondamentale: vi è differenza tra lo xenos, lo Straniero inteso come qualcuno che dispone di diritti di ospitalità condizionata, e l’Altro assoluto, il barbaro o selvaggio che, invece, in nessun modo è riconosciuto dalle leggi. Il discrimine tra queste due figure è chiaramente rintracciato nell’elemento del nome proprio. Le istituzioni greche che regolano il diritto degli stranieri, infatti, pongono come prima condizione che l’ospitalità sia concessa a qualcuno che giunge e che dispone della possibilità di essere chiamato per nome e di essere, così, riconosciuto dalla legge5.

La questione dell’ospitalità è, allora, essenzialmente la questione di una domanda nel senso che l’ospitalità condizionata dalle leggi della città può avviarsi solo a partire dalla prima domanda posta a chi arriva, cioè, solo chiedendo a chi viene: come ti chiami? Qual è il tuo nome proprio? L’ospitalità condizionata, dunque, può essere concessa solo allo Straniero inteso come xenos, ossia qualcuno la cui identità, pur essendo altra rispetto a quella del cittadino, permane iscritta nella xenia, nel patto con una stirpe: “La questione dell’ospitalità è dunque la questione della domanda; ma al contempo la questione del soggetto e del nome come ipotesi della generazione” (p. 55).

Questa ospitalità condizionata, quest’ospitalità di diritto, non può, di converso, essere accordata a qualsiasi anonimo, a chi sia sprovvisto di nome proprio, di cognome, di appartenenza a una famiglia e di uno statuto sociale capace di dargli luogo da qualche parte, anche lontano. Dinnanzi ad una simile figura, sembrerebbe “come se l’ospitalità fosse impossibile: come se la legge dell’ospitalità definisse l’impossibilità stessa, come se non si potesse fare a meno di trasgredirla” (p. 83), di romperla, di metterla in scacco, di capovolgerla. L’Altro assoluto, sciolto da ogni condizione genealogica e di diritto, esige un’ospitalità altrettanto assoluta, irrimediabilmente impossibile nelle forme giuridiche e normative.

L’insanabile contraddizione tra la Legge dell’ospitalità incondizionata e le leggi dell’ospitalità svela il dissidio sito al cuore di ogni legge, il fatto cioè che permane sempre l’esigenza infinita di una giustizia che eccede irrecuperabilmente il diritto (cfr. Resta, 2003, pp. 53-58); “di una giustizia che è l’esperienza dell’altro come altro, il fatto che lo lascio essere come altro, il che presuppone un dono senza restituzione, senza riappropriazione e senza giurisdizione” (Derrida, 1997, p. 23). Se lo Straniero è chi può rispondere a un nome proprio e rientrare nei termini di un’ospitalità condizionata, per il barbaro o Altro assoluto la domanda sul nome è una domanda impossibile. Di più: l’Altro assoluto è chi chiede, ogni volta, l’impossibile: un’ospitalità che oltrepassi il piano normativo e giuridico esistente.

Priva di patronimico e senza possibilità o volontà di ricevere un nuovo nome, Medea sembra ricadere propriamente nello spazio della seconda figura, ma – in modo ancora più interessante – la sua vicenda pare chiarire emblematicamente ciò che Derrida ha pensato nei termini di uno iato tra la Legge dell’ospitalità incondizionata e le leggi dell’ospitalità. Se l’irrimediabile inconciliabilità tra questi due termini attesta peculiarmente lo scarto tra la giustizia e il diritto6, Medea si pone come chi ne destituisce ogni possibilità di saturazione; la sua storia dimostra che l’ospitalità non si riduce mai ad un mero processo di assimilazione. Lontana dal rimanere semplicemente irrealizzabile o ineffettuale, e muovendosi attraverso un’insopprimibile contraddittorietà logica, l’ospitalità porta sempre in sé un carattere estremo, violento e provocatorio, capace di scardinare ripetutamente il rapporto lineare e pacifico tra il diritto e il politico, e di aprire quest’ultimo all’ingiunzione della giustizia.

4. Al di là del circolo economico

L’iperbole è una figura dell’eccedenza, la messa in scacco di ciò che può essere razionalizzato in un cerchio, nel movimento concentrico di una perfetta curva chiusa.

La rinuncia di Medea al patronimico, la sua sfida all’autorità paterna, l’arresto che ella opera nello sviluppo della catena genealogica con l’uccisione di Assirto, la rendono una figura iperbolica. Medea è simbolo mitico di un resto, di ciò che non si lascia ricondurre all’interno della logica economica su cui poggia la struttura delle istituzioni familiari, sociali e politiche. Il carattere sovversivo di Medea che si incarna nel tradimento della casa paterna può essere letto come il tentativo di istituire una forma di riconoscimento alternativa a quella rappresentata dai legami di sangue.

Medea, dunque, è figura di quell’alterità che contraddistingue, ogni volta, il fenomeno dell’abitare tanto in riferimento allo spazio cittadino (Corinto) in cui si dà il vivere insieme, quanto in riferimento al permanere presso di sé. È interessante che Euripide lasci Medea concedersi a più di un monologo7; specialmente quando dalle parole della donna-barbara emerge il contrasto tra bouleumata e thumòs8, si coglie quel rapporto di non padronanza e spossessamento che caratterizza l’identità di ogni parlante e di ogni mortale (Derrida, 2004). Le parole che Medea rivolge a se stessa lasciano apparire la forma di un linguaggio che, lungi dal permettere un raccoglimento a sé totalizzante, la pone in relazione alla sua parte inconscia ed estranea. Le paure e le incertezze di cui Medea si fa voce nel confronto con il suo thumòs testimoniano l’impossibilità di far uno con se stessi e di abitare pacificamente la propria identità. Da una dimensione prettamente interiore, questa dinamica espropriante fuoriesce e si svela all’opera in ogni desiderio di risiedere. Come dimostra lo sviluppo della vicenda di Medea, infatti, o presso di sé o accanto ad altri, abitare richiede sempre di aprirsi all’estraneità.

Questa esigenza iperbolica segna tutti gli eventi della tragedia, soprattutto a partire dall’incontro con l’uomo greco. L’arrivo di Giasone in Colchide, in effetti, coincide per Medea con l’emergere del suo desiderio amoroso. Esso, in quanto tale, si configura come desiderio aneconomico, cioè svincolato dalla dinamica del calcolo e dello scambio. Questa forma di desiderio conduce Medea a legarsi a Giasone mediante un atto di pistis, di fiducia e lealtà incondizionate. Se nella casa paterna Medea si determina a partire dalla posizione che occupa nella catena genealogica (è figlia e sorella), con Giasone ella si sente riconosciuta in quei tratti che la costituiscono unicamente: Medea è una sophè, è sapiente ed esperta di arti magiche che non esita a impiegare per l’uomo amato. Medea e Giasone sono, infatti, uniti dalla philia; da una forma di amore ed affetto incondizionati, in cui la lealtà reciproca è promessa come assoluta, sciolta dal circolo economico del debito che contraddistingue altri tipi di legame. Una volta lasciata la casa paterna, la sola risorsa e l’unica forma di protezione di Medea è la parola di Giasone, quella su cui si fonda il loro philein. Si tratta di una congiunzione che resiste nella terra di Iolco e da cui nascono due figli (philoi) legati al padre esclusivamente dalla forza di questo patto (i figli sono di Giasone solo biologicamente, non sono giuridicamente riconosciuti). È a Corinto, però, che l’uomo eroico greco spergiura. Intenzionato a ricostruire la propria stirpe, a fondare una discendenza a partire da un nome degno, Giasone decide di prendere in moglie Glauce, la figlia del sovrano Creonte. Se Medea non cessa di permanere nello slancio iperbolico del desiderio amoroso, Giasone, invece, rientra nel circolo genealogico ed economico in cui solo è ammesso il riconoscimento della società civile.

La scrittura di Euripide ci restituisce il momento del confronto tra i due personaggi, maschile e femminile. Si tratta di uno dei passi più interessanti dell’intera tragedia in cui si rende evidente innanzitutto che Giasone e Medea parlano due lingue diverse. Quando Medea rammemora a Giasone di aver perso la patria per amor suo più che per saggezza (Euripide, 2017, vv. 483-485), Giasone percepisce il suo linguaggio come sovversivo e alogico e sente il dovere di difendersi da colei che era stata sua congiunta fino a poco prima. Medea torna ad essere ai suoi occhi la donna-barbara della Colchide, una diversa capace di parlare contro i sovrani e di suscitare uno scontro di parole. In questo “duello-duale” (Derrida, 2009, p. 158), Giasone riduce l’istanza di Medea a una questione meramente sessuale e le spiega che non è il fastidio dell’amplesso ad averlo condotto da Glauce, ma la volontà di far crescere la sua progenie (Euripide, 2017, vv. 555-575). Medea gli appare alla stregua di una cieca: l’ossessione del letto le impedisce di vedere la convenienza del nuovo accordo; Giasone, infatti, intende garantirle sostegno in denaro e assicurarsi della buona crescita dei figli tanto che le consiglia: “placa la tua rabbia e avrai il maggior guadagno” (v. 615), svelando la logica economica che guida il suo discorso.

La donna barbara, quest’Altra assoluta in terra straniera, riconosce il mascheramento delle parole di lui. Come può fidarsi di chi usa la parola ricorrendo a modi accorti e garbati per nascondere l’ingiustizia?9 Come può far fede a chi spergiura e tradisce le parole in precedenza promesse? “Piantala di farmi offerte: l’aiuto di un vigliacco non serve a nulla” (v. 618), dice Medea. Lei, che ha perso la patria per il rapporto di philia che la legava a Giasone, si appella a una giustizia che non può prendere la forma né del diritto né dello scambio economico. È proprio evocando Dike, infatti, che Medea chiede una giustizia che non ammette restituzione poiché si lega al desiderio del riconoscimento perduto. L’iperbolicità di Medea consiste proprio in questo: divenuta sé stessa per mezzo dell’arrivo di un altro (Giasone) in terra natia, ella chiede che lo spazio della contaminazione – l’unico in cui, priva di diritti, le è dato di abitare – non sia saturato. Medea esige che quest’altro che le è entrato dentro non rompa quell’ospitalità incondizionata da cui aveva preso avvio la loro promessa reciproca, rendendoli vicendevolmente ospitanti, “senza imperativo, senza ordine, senza dovere” (Derrida, Dufourmantelle, 2000, p. 87). L’epilogo della vicenda di questa Altra assoluta può, dunque, essere letto tenendo conto del fatto che la sua è una richiesta della sola ospitalità possibile: quella impossibile, quella “ospitalità assoluta, non più cortesemente offerta, al di là del debito e dell’economia, offerta all’altro, un’ospitalità inventata per chi arriva, per il visitatore imprevisto, considerato nella sua unicità” (pp. 87-88). Un’ospitalità, insomma, che sconvolga la topologica del potere: se le leggi sono simbolicamente poste sopra la testata del letto, Medea esige la catastrofe di questa spazialità10.

5. Al cuore del politico

Medea testimonia, dunque, che l’ospitalità incondizionata, quella che “viene prima di qualsiasi determinazione” (p. 84), quella che non deve chiedersi se si tratta “di uno straniero o di un immigrato” (ib.) di “un cittadino di una nazione, […] maschio o femmina” (ib.), è impossibile. La sua storia attesta che l’ospitalità si dà solo a determinate condizioni, unicamente a patto che sia concesso un processo di identificazione in cui l’Altro possa essere ricondotto nel cerchio di una logica economica, in cui questi occupi uno spazio separato e, dunque, posto in relazione al Proprio.

Medea è nome improprio dell’antinomia indialettizzabile tra la Legge dell’ospitalità incondizionata e le leggi dell’ospitalità. È in questo senso che la sua figura è tragica sin dal primo momento, sin da quando incarna il rapporto insolubile tra questi termini; infatti, “la tragedia, perché di tragedia si tratta, è che i due termini non sono simmetrici. Esiste qui una strana gerarchia. La Legge sta al di sopra delle leggi. Quindi è illegale, trasgressiva, fuorilegge, come una legge anomica, nomos a-nomos” (p. 85).

Se questo rapporto di inconciliabilità si pone nel pensiero di Derrida a fondamento della relazione tra diritto e giustizia che si coinvolgono ed escludono simultaneamente (il diritto manca sempre la giustizia e solo a partire da questa mancanza si dà l’a-venire della giustizia stessa), Medea mette in scena la circostanza da cui prende forma il tragico: nel mondo greco questa discrasia, questo rapporto differenziale tra me e altro, tra legge e fuori-legge, non è ammesso. Diventa evidente, dunque, che quel cerchio che pretende essenzialmente di richiudersi non può che essere spezzato. Attraverso la storia di Medea si coglie fino in fondo il senso in cui “una politica che non mantenga un riferimento a questo principio di ospitalità incondizionata è una politica che perde il suo riferimento alla giustizia” (Derrida, 1997, p. 18). Dal momento che non è riconosciuta l’esigenza costitutiva della Legge che ha bisogno di leggi in cui prendere forma senza saturarsi mai, poiché alle leggi è negata la possibilità di essere decostruite cessando di relazionarsi all’indecostrubile che è la giustizia, non può che attualizzarsi il rischio che la Legge si trasformi nel suo contrario, capovolgendosi mostruosamente.

Come il Socrate del Critone posto alle porte della città di Atene (Derrida, Dufourmantelle, 2000, p. 58), come l’esule Edipo che accusa la città di Tebe (ib.), anche Medea è nello stato di a-nomia; senza nome e senza diritto è pronta a un’azione folle, degna di un manikos. Spinta dalla logica stessa su cui si fondano le leggi e la morale cittadine, può compiere quel delitto che la rende definitivamente Altra assoluta, sciolta, cioè, da qualsiasi legge umana: “in nome delle leggi umane ti dissuado dal metterlo in atto”, dice il coro a Medea (Euripide, 2017, vv. 812-813). Come in passato tradendo il padre e uccidendo il fratello, così anche alla fine della tragedia euripidea, Medea impone alla città di guardare dentro il suo inconscio, di puntare gli occhi su ciò che, per le sue leggi, non esiste e appartiene alla morte. Medea prende una decisione che è a tutti gli effetti una follia e che la configura come imperdonabile, come qualcuno, cioè, dinnanzi ai cui atti bisognerebbe oltrepassare i confini logici del discorso sul perdono inteso quale “idioma dominante del diritto, della politica, dell’economia e della diplomazia” (Moroncini, 2016 p. 24), e che rischia sempre di “ridursi alla riaffermazione di un’identità, un’identità che anche se fosse la più larga possibile e la più includente, sarebbe comunque comandata dal criterio dell’assimilazione e dell’omologazione del diverso e dell’estraneo” (p. 27). Se il perdono deve essere rivoluzionario, esso deve applicarsi a ciò a cui è impossibile applicarlo, deve essere pensato come una traduzione (p. 30), capace di contestare continuamente l’idea di un vivere-insieme chiuso, completo e coeso.

Se poggiando su un movimento dialettico e continuamente riappropriante, la sovranità maschile e paterna rimuove l’Altro – inteso come ciò che sta fuori dal vivente politico: il diverso, il femminile, il desiderio, il materno – allora, i corpi morti dei figli di Medea e quello di Glauce rappresentano la distruzione di ogni forma di genia e ogni possibilità di filiazione. Per mano di Medea, essi si rendono visione insopportabile che colpisce l’origine del potere (quello di Giasone, di Creonte, di Parmenide). Colpire la genia (i bambini di Giasone) e la possibilità di filiazione (Glauce) significa, infatti, colpire la trasmissione della carne e del nome del padre, significa mostrare in modo sconcertante che la morte è al cuore del politico11.

Chi avrebbe potuto compiere una simile scelleratezza se non una madre, ossia “la prima persona a costituire l’altro per chi viene al mondo” (Dufourmantelle, 2019, p. 13)? Chi avrebbe potuto spostarsi così lontano se non un’estranea, ossia “chi viene a rivelarvi ciò che avete sotterrato” (p. 17)?

Medea è la donna, la barbara, la figlia, la madre, la diversa, la sola capace di indirizzare l’estremo sacrificio alla città, costringendola a guardare nel punto in cui la collettività è cieca. Medea incarna e porta alle estreme conseguenze le nozioni di impossibile, indecostruibile, imperdonabile, e mette definitivamente in scacco qualsiasi possibilità di assimilazione, riappropriazione, restituzione. Piuttosto che consegnare i figli ad un destino simile al proprio, privati del nome, del diritto e del futuro, Medea trasforma la morte cittadina che li attenderebbe in vita in un lutto impossibile per la città e la società civile. Ai philoi è destinata una dimora che non può che trovarsi dall’altra parte: “Siate felici, ma laggiù. La vita in questo mondo ve l’ha strappata vostro padre” (Euripide, 2017, vv. 1076-1077). Alla città la donna-barbara impone il confronto con il carattere ineludibilmente traumatico che appartiene, ogni volta, all’ospitalità.

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Facioni, S., Regazzoni S., Vitale F., 2012, Derridiano. Dizionario della decostruzione, Genova, Il melangolo.

Facioni, S., 2014, Il testo dell’altro. Derrida dentro Shakespeare, in “Memoria di Shakespeare. A Journal of Shakespearean Studies” 1, pp. 139-171.

Moroncini, B., 2016, Perdono, giustizia, crudeltà. Figure dell’indecostruibile in Jacques Derrida, Napoli, Cronopio.

Regazzoni, S., 2006, La decostruzione del politico. Undici tesi su Jacques Derrida, Genova, Il melangolo.

Resta, C., 2003, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Torino, Bollati Boringhieri.

Notes

1 La traduzione del passo riportato è presente in Facioni etal., 2012, p. 202. Retour au texte

2 Pucci, lavorando sull’etimologia del nome Medea, lega le sue caratteristiche essenziali e le competenze di cui è munita all’idea di pharmaka: tanto Medea quanto le sue doti possono rivelarsi rimedio o rovina (cfr. Bettini, Pucci, 2017, p. 56). Il tratto inquietante, dunque, appartiene a Medea sin dal nome e riguarda anche l’intera sua vicenda in quanto estranea, proveniente da fuori. Retour au texte

3 È importante precisare che quest’idea è espressa da Derrida in L’aforisma in contrattempo, luogo in cui il filosofo si dedica alla ri-lettura della tragedia di Sheakespeare Romeo e Giulietta. Sebbene sia chiara la distanza tra il teatro euripideo e quello shakespeariano, ci sono alcuni elementi della storia ambientata a Verona (l’esilio, il desiderio amoroso che si oppone alla logica geneaologica, il rapporto con le leggi cittadine) che, intrecciati a temi chiave della decostruzione (le questioni del nome, dell’anacronia e dell’impossibile), si rivelano interessanti per un’interpretazione del ritmo della Medea. Da ultimo, è bene considerare che questo breve intervento di Derrida si situa all’interno della raccolta Psyché. Invenzioni dell’altro in cui, già nel titolo, è richiamata la legge eteronomica posta al centro dell’interesse del presente testo. (Cfr. J. Derrida, 2009, pp. 153-170). Retour au texte

4 Il riferimento più immediato è ad Antigone di cui Medea sembrerebbe essere la figura altra, in relazione tanto alla questione del lutto quanto al rapporto con il potere politico e paterno. Se Medea tradisce il padre, Antigone chiede che egli “la veda piangere” per il dolore della sua morte (Derrida, Dufourmantelle, 2000, p. 108); se Medea uccide i propri figli, Antigone è la figlia che “vuole suicidarsi nello stesso luogo in cui è sepolto il padre” (p. 109). Retour au texte

5 Gli studi sul tema dell’ospitalità nell’orizzonte del pensiero di Derrida sono ormai numerosi; per un approfondimento in merito cfr. Dalmasso, 2017; Di Martino, 2009. Retour au texte

6 Per un approfondimento di questo tema cfr. Derrida, 2003. Retour au texte

7 La presenza del monologo, inteso quale dialogo con il proprio thumòs, non è una novità introdotta da Euripide; tuttavia, come mette ben in luce Pucci, pur essendo presente sin dall’opera omerica, è solo con Euripide che “il thumòs è trattato come un’entità agente, che può determinare o impedire le azioni della persona” (Bettini, Pucci, 2017, p. 73). Retour au texte

8 Il riferimento è qui ai versi Euripidei “καὶ μανθάνω μὲν οἷα δρᾶν μέλλω κακά, θυμὸς δὲ κρείσσων τῶν ἐμῶν βουλευμάτων, ὅσπερ μεγίστων αἴτιος κακῶν βροτοῖς/E mi accorgo del male che sto per compiere, ma più potente dei miei piani è la furia del cuore, che per i mortali è causa delle più grandi sventure” (Euripide, 2017, vv. 1078-1080). In questo passo viene tratteggiato il rapporto tra thumòs e bouleumata. Con il primo termine si suole far riferimento all’insieme di pulsioni primarie o di emozioni che operano all’interno della sfera dell’io; con il secondo termine si allude ai piani o progetti di vendetta di Medea. Attraverso la relazione tra queste due dimensioni, viene alla luce il rapporto con un’estraneità che inquieta sempre il discorso cosciente, mostrando come finanche al cuore dell’ipseità si attesti l’impossibilità di aderire totalmente a sé. Questo tema è affrontato compiutamente da Derrida, con riferimento alla questione della dimora e della lingua, in Il monolinguismo dell’altro (2004). Retour au texte

9 In Euripide tutto il confronto tra Giasone e Medea mostra la natura doppia del termine giustizia: Giasone intende la giustizia nel senso del diritto e, infatti, rivolgendosi a Medea afferma: “innanzitutto vivi in Grecia, e non in una terra barbara e ti sei fatta una idea della giustizia, e sai ricorrere alle leggi, senza fare uso della violenza” (vv. 534-536), la donna, di converso, rivolgendosi agli dèi, evoca una giustizia posta al di là delle leggi. Retour au texte

10 Il riferimento è qui al documento intitolato Le leggi dell’ospitalita, in Roberte ce soir, che Derrida utilizza per avviare il suo discorso in Sull’ospitalità. Si tratta di un manoscritto che lo zio del narratore aveva posto sopra la testata del letto, sulla parete della stanza destinata agli ospiti. A partire da quest’immagine, Derrida ragiona sulla posizione delle leggi, scelta sempre dal padrone di casa, quasi a conferire loro un senso di verticalità rispetto alle tensioni desideranti di cui il letto è simbolo (Derrida, Dufourmantelle, 2000, p. 88 e p. 111). Retour au texte

11 Su questo rapporto tra morte e politico e, più in generale, sulla logica autoimmunitaria presente nel pensiero di Derrida, cfr. Regazzoni, 2006, p. 551. Retour au texte

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Référence électronique

Stefania Guglielmo, « L’Altra assoluta », K [En ligne], 8 | 2022, mis en ligne le 01 juin 2022, consulté le 18 mars 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1055

Auteur

Stefania Guglielmo

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