Tanto più che quella parola, là, non era là per essere udita.
Mentre mi limitavo ad ascoltarla, con gli occhi chiusi,
mi piaceva lasciarmi andare a mormorare la cenere,
confondendo quel là, appunto, col femminile singolare
dell’articolo determinativo. Dovevo decifrare
senza perdere l’equilibrio, in bilico tra l’occhio e l’orecchio:
non sono sicura di essere riuscita a trovare là, un punto d’arresto.
Jacques Derrida
1. Tangente
Giovanna d’Arco, Jacques Derrida. Questi due nomi si toccano? Quale sarebbe l’effetto di questo toccare? Il loro accostamento forse rappresenta già un’operazione impertinente, ma non bisogna riconoscere che vi è impertinenza ogni volta che si tocca, ci si tocca o si lascia toccare?
Quando Derrida dedica le sue fitte pagine all’atto del tocco, quando contestualmente si spinge nel contatto con Jean-Luc Nancy, mette in scena una figura geometrica: la tangente. Essa “tocca una linea o una superficie, ma senza tagliarla, senza una vera intersezione, in una sorta di pertinenza impertinente” (Derrida, 2019, p. 169).
Il tocco, l’incontro, il contatto sono tutte questioni spaziali. In effetti, anche tra i nomi – ormai chiaramente senza corpi, senza materia e senza peso – di Jeanne d’Arc e Jacques Derrida si tratta di un luogo o una scena dove incontrarsi, raggiungersi e potersi toccare. Certo, quest’appuntamento tra spettri non può avvenire nel senso di un contatto o di una sincope ed è per questo che bisogna immaginare il corpus derridiano come una superficie o una linea che la tangente Jeanne d’Arc, tocca senza tagliare, “in un solo punto che non è nulla” (ib.).
Nella lingua di chi scrive, in italiano, “partire per la tangente” è un’espressione che indica l’inoltrarsi in una qualche digressione, il perdersi senza vedere dinnanzi a sé che la meta o il metodo inevitabilmente si allontanano. Partire per la tangente definisce qualcosa che promette male, che si destina al fuori-luogo.
Questo scritto, in effetti, equivale fin dall’inizio a “partire per la tangente” e continua a svilupparsi nel senso di qualcosa che è un fare ciò che non si può fare. Il possibile è subito forzato quando si intende lasciare che si tocchino due che non si sono mai rivolti uno sguardo, nemmeno asincronicamente.
Se si decide di procedere con scarsa cautela e molta impertinenza è a partire dal pensiero che una forma di potenza risieda proprio nella massima impotenza, che la maggiore possibilità alberghi in ciò che è impossibile. Pensiero, questo, su cui la decostruzione fonda ogni sua assenza di fondamento, ma che in modo unico la pulzella di Orléans ci lascia vedere attraverso i suoi occhi pieni di lacrime.
2. Giorno o notte?
Il tatto e la vista sono esplicitamente implicati da Derrida in una delle domande più inusuali dei suoi scritti: “possono degli occhi venire a toccarsi? Premersi come delle labbra? A quale superficie dell’occhio paragonare le labbra? Se due sguardi si guardano negli occhi, si può dire che in quel momento si tocchino – che vengono a contatto – l’uno dell’altro?” (p. 12).
Si avvia in questo modo il tentativo derridiano di andare al di là dell’ottico e del tattile, giungendo nei pressi dell’aptico1, un termine che sfida le distinzioni tradizionali tra gli organi di senso e supera l’idea di una visione pura, alludendo a un contatto profondo con il mondo, con ciò che è altro da sé.
Se ogni percorso decostruttivo parte da un’impossibilità a procedere, ciò vale anche per la decostruzione dell’atto del vedere nel modo in cui è canonicamente inteso dalla metafisica occidentale. L’ostacolo, in questo caso, è rappresentato dall’idea di purezza tradizionalmente associata alla percezione visiva, capace di fare considerare la vista il principale senso teorico e intellettivo.
In virtù del suo rapporto con ciò che è possibile o impossibile vedere, Giovanna d’Arco è quella figura che più di altre ci chiede di porre diversamente la questione dello sguardo. La sua è innanzitutto l’esperienza di una co-implicazione originaria dei sensi, tale da scardinare l’idea di una visione pura.
Questo può essere comprensibile in relazione a ciò che il nome Giovanna d’Arco evoca in generale o alle numerosissime rappresentazioni che la riguardano, dalla letteratura al teatro, dalla pittura al cinema. Tra tutte, però, ne emerge una ai fini di questo discorso, che si potrebbe definire come “messa in presenza muta” del volto e dello sguardo di Jeanne d’Arc. Si tratta di La passione di Giovanna d’Arco, pellicola realizzata nel 1928 da Theodor Dreyer, il cui tratto peculiare è la camera da presa che insiste ossessivamente su sguardi e volti, di Giovanna e dei suoi avversari2.
Se nel corso del processo viene ripetutamente chiesto a Giovanna se le voci abbiano “uno sguardo, degli occhi” (Ourcel, 1959, p. 33) e se la pulzella insiste rispondendo a proposito non di corpi e né di membra ma di immagini di visi (pp. 52-57), è proprio al cinema che riesce a fenomenizzarsi l’innesto tra immagini e suoni, luci e ombre, visibile e invisibile che caratterizza la sua esemplare vicenda. In particolare, rispetto agli altri lavori cinematografici a lei consacrati, lo sguardo di Dreyer si posa appassionatamente su primi piani, dettagli di facce, ritratti di sguardi, movimenti oculari perché questo è il modo in cui il regista intende restituire alla figura di Jeanne la sua essenza cinematografica ante temporum: Giovanna, infatti, vede le voci, non si limita a sentirle e lo ribadisce; per lei iconico e discorsivo, parole e suoni, vista e udito, sono da sempre contaminati. Giovanna si ostina a far capire che il movimento degli occhi, l’atto del vedere non è puro, piuttosto esso “è sempre accompagnato da altri stimoli sensoriali” (Ghilardi, 2011, p. 21).
Dreyer, autore di soli cinque film in quarantacinque anni di carriera, si dedica a filmare proprio Giovanna d’Arco, una donna che vede, i suoi occhi che guardano; lo fa esattamente un momento prima che le sia dato in dono di parlare attraverso la voce di altri. Il regista, da una sorta di futuro anteriore3, si intrattiene nei pressi di questo volto femminile vedente, e ne disloca il tempo, in assenza di parole vive, nell’attimo che precede il colore, quando non è ancora chiaro se è già giorno o è ancora notte.
3. La parola
Il film precede l’avvento del cinema sonoro, ma sembra prepararsi a questo evento4 tanto che ai visi ritratti dai primi piani e in particolare a quello di Giovanna “manca la parola” (Nancy, 2014, p. 27). L’opera si muove perciò sul bordo di un’aporia. Il regista lavora sul testo del processo, il suo progetto cinematografico si avvia a partire da una scrittura che egli legge e riscrive in sede di montaggio. Di Giovanna in carne e ossa, in effetti, restano poche tracce e le più attendibili sono tracce d’inchiostro, lettere iscritte e riscritte, parole di Giovanna registrate, archiviate e ridette prima nell’ambito di un processo giudiziario e, poi, all’interno di un processo di re-iscrizione interminabile nell’immaginario culturale e collettivo.
In effetti, la figura di Giovanna è essenzialmente prosopopeica5 se si pensa che, a meno di trent’anni di distanza dalla sua morte, le viene fatta riprendere la parola in tribunale6 e, da quel momento in poi, Jeanne non smette di ricomparire e di rispondere a posteriori, registrando quasi un record di rappresentazioni postume. Dreyer, però, immagina di trasfigurare quello scritto non mediante altre parole, bensì attraverso una scrittura di luce e ombra: il cinema. Così il processo di Giovanna d’Arco viene
Trasportato in un altro elemento fino a perdere qualcosa come il suo luogo o il suo rapporto con sé. Allora […] una specie di pace viene a immobilizzare in un solo tratto i due corpi, il corpo delle parole e quello degli spazi, affascinati l’uno dall’altro. Entrambi fuori da se stessi, una sorta di estasi. Estasi singolare, avete la sensazione che l’organismo verbale sia traversato dai tratti del pittore o del disegnatore, voglio dire filmato, fissato, sottoposto al rivelatore prima ancora del tempo della sua produzione, alla vigilia dell’inizio, avanti lettera (Derrida, 2016, p. 147).
Dreyer lavora proprio alla vigilia dell’inizio della storia del cinema sonoro e lo fa a partire dalla trascrizione di un processo storicamente avvenuto, di cui seleziona accuratamente le parti. Le frasi estratte dall’interrogatorio di Jeanne d’Arc non vengono solo riportate nel testo che interrompe e taglia le scene riprese, ma vengono rese tangibili attraverso quell’altra scrittura, di ombra e luce, che non ha ancora parole. Quest’opera di cinema muto si articola così in immagini che, simili a disegni, sembrano tacere solo “per provocare il discorso” (p. 164). I caratteri scritti, impossibili da sentire, svelano che in realtà quella del discorso è un’esperienza di invisibilità: l’essenza della parola è cieca, essa “si sente anche quando la si legge sotto la sua forma scritta, non è una parola se non nella misura in cui si sente senza vedersi” (ib.). La vista delle immagini in movimento coinvolge il nostro udito al prezzo della sua comprensibilità.
4. Lo sguardo
La figura di Jeanne, in generale, e la sua incarnazione in Renée Falconetti, in particolare, danno forma tangibile all’ipotesi derridiana della vista. L’insistenza di Dreyer sullo sguardo sospende la possibilità di un vedere immediato obbligandoci “a passare attraverso il discorso o la memoria” (p. 155). Della pulzella non è rimasta alcuna immagine e, per ri-vederla, bisogna smettere di guardare con gli occhi e iniziare a vedere par cœur (attraverso la memoria)7.
Per l’intera durata della pellicola Giovanna ha gli occhi addosso. Dreyer scambia ossessivamente le riprese degli sguardi inquisitori che colpiscono Giovanna e quelle che, invece, ritraggono la vista di Giovanna: sia il modo in cui Giovanna è vista dagli uomini che la accerchiano e per i quali ella si pone come oggetto di visione, sia le riprese che ci permettono di vedere la donna mentre vede.
Lo sguardo di Giovanna rappresentato da Dreyer è, come ogni altro sguardo, al tempo stesso vedente e visibile. Nella semantica derridiana si direbbe che i suoi occhi sono visibili e il suo sguardo è vedente. La scelta tra vedere e guardare sembra, infatti, incontrovertibile negli scritti di Derrida8: per incrociare uno sguardo – ossia qualcuno mentre sta vedendo, nel momento in cui esercita l’atto di vedere – dobbiamo smettere di vedere i suoi occhi. Solo guardando l’altro guardare, a patto cioè di rinunciare a vedere le sue iridi, possiamo davvero incontrare il suo sguardo e lasciare che i nostri occhi si tocchino.
Nasce proprio da questo necessario alternarsi tra vedente e visibile l’opportunità cinematografica di simulare lo scambio di sguardi, illudendo lo spettatore di guardare qualcuno mentre vede e, al contempo, ciò che vede9. Urgenza, questa, che Dreyer dichiara chiaramente di sentire nel momento in cui si dedica a rappresentare Jeanne10.
Il contrasto tra gli occhi nitidi dei giudici e quelli annebbiati di Giovanna è stridente in Dreyer: alla donna appartengono le pupille che non riusciamo a vedere. Non guarda noi, ma vede, lasciandoci come sola possibilità quella di vederla guardare. Si tratta di una visione disturbante dal momento che i suoi occhi non incrociano mai il nostro sguardo, pur restandoci innanzi, e sovvertono così la logica alla base di ogni visione.
Gli occhi di Giovanna sono impossibili da guardare: le sue pupille sono quasi bianche, somigliano a pupille cieche, si mostrano come origini di una visione, svelandoci che ciò a partire da cui vediamo è invisibile. Mentre gli occhi di Giovanna ci guardano, nell’attimo in cui crediamo di vedere il suo sguardo, esso ci pone dinnanzi al nostro accecamento, in un punto in cui non si vede più niente, ma ci si sente toccati da occhi di altri:
Perché se i nostri occhi vedono del vedente piuttosto che del visibile, se credono di vedere uno sguardo piuttosto che degli occhi, in questa misura almeno, in questa misura in quanto tale, allora non vedono nulla, nulla che si veda, nulla di visibile. Affondano nella notte, lungi da qualsiasi visibilità. Si accecano per vedere uno sguardo, evitano di vedere la visibilità degli occhi dell’altro per rivolgersi esclusivamente al suo sguardo, alla sua vista solamente vedente, alla sua visione (Derrida, 2019, p. 12).
5. Le lacrime
Gli occhi, posti al centro delle riprese di Dreyer, emergono come l’estremità dell’estensione carnale e corporea di Giovanna. A pochi minuti dall’inizio del film essi si lasciano raggiungere dalle lacrime. Giovanna d’Arco piange. Circondata da uomini che la vedono, la donna si lascia venire le lacrime agli occhi. Questo processo di “annacquamento” inizia quando la giovane ricorda la sua figura materna. La memoria conduce Jeanne alle lacrime e i suoi occhi divengono così lucidi da essere difficilmente osservabili dalla vista dello spettatore.
Nel testo filmico si istituisce quindi un doppio regime di visione: il primo, autoritario, è incarnato dagli sguardi che fanno di Giovanna un oggetto e appartengono a chi “vuole vederci chiaro”, vuole sapere, conoscere e dominare chi ha di fronte; il secondo è circoscritto allo sguardo di Giovanna che sembra ritratto, delocalizzato, non individuabile e irriconoscibile. Alla certezza della visione maschile nitida si alterna così l’appannamento di occhi femminili in lacrime.
A corollario di queste immagini sappiamo dalle didascalie mute che si sta svolgendo un processo in materia di fede. Giovanna d’Arco è una donna che crede? Se sì, le viene chiesto di fornire una descrizione verbale di ciò in cui crede e che dichiara di poter sentire e vedere. Come una Butade in carne e ossa, vediamo Giovanna farsi cieca nel “gesto di una donna che traccia il contorno dell’invisibile, di ciò che ella ama e che le è invisibile” (Derrida, 2016, p. 171).
Avviene così che la pellicola di Dreyer non abbia più o soltanto a oggetto la storia di Giovanna d’Arco, ma la sua passione: l’esposizione della vista (innanzitutto della vista di Giovanna, ma poi della vista umana) alla vista. Agli albori della storia recente di quell’arte che temporalizza lo spazio e spazializza il tempo11, si dà la rappresentazione di una verità rimossa dall’autorità del vedere: all’origine del nostro sguardo vi è l’accecamento.
Se la storia dell’occhio “come storia della vista minacciata, esposta, perduta, è una storia di uomini” (pp. 171-172), se questa stessa storia riconosce all’occhio la sua funzione propria nell’atto del vedere al fine di sapere, Giovanna porta allo scoperto la condizione di possibilità del suo regime di fondamento: per vedere bisogna che gli occhi si tocchino, è necessario che chiudendosi conoscano l’oscurità, la “‘macchia cieca’, il punto cieco, il blind spot” (p. 178), quel campo di invisibilità che è tutto il campo del visibile. Trattando come se fossero presenti i protagonisti delle sue visioni, Giovanna svela che “non vi è contrapposizione tra visibile e invisibile” (ib.), il tratto differenziale dell’umano risiede in un attimo in cui non vi è nulla da vedere: quando si piange. Gli occhi degli uomini, i loro sguardi, non sono tali quando vedono per vedere o quando osservano per sapere, ma quando fanno “ciò che si fa quando si piange, vale a dire essere toccati da un’emozione che annacqua la vista” (p. 172).
Dal corpo di Giovanna scivola, sotto forma di elemento liquido, la verità inconscia dello sguardo rappresentativo, della storia dell’accecamento occidentale. Se per Derrida l’accecamento è ciò che rivela la verità dell’occhio e se a poter vedere non sono gli occhi, ma solo le lacrime, gli occhi bagnati di Jeanne si riempiono di un’emozione impotente, che nulla può contro le mani che la cingono e conducono verso il rogo. Un’emozione da sempre estromessa dal regime dell’autorità del vedere. Alla mercè dello sguardo dell’occhio meccanico che avrà ampia fortuna da lì in avanti, e la cui storia sarà costellata da nomi propri declinati al maschile, nei panni di Renée Falconetti e in memoria di Jeanne d’Arc, “la verità dell’occhio” inizia a essere “rivelata dalle lacrime della donna” (p. 173).
6. La cenere
Cosa resta di figurabile di Jeanne d’Arc, infine? A che cosa serve chiarire che la sua figura assente arriva a decostruirci lo sguardo? Ci si è riferiti sin dall’inizio a lei come una figura; anche se l’esistenza storica della pulzella d’Orleans è ben documentata, “evidentemente si tratta di una figura, proprio nel momento in cui non vi è dato scorgervi nessun viso” (Derrida, 2000, p. 61). Come si potrebbe d’altronde scorgere un volto divenuto cenere?
“Cenere di nome è figura, e proprio perché non vi è qui cenere, non qui (niente da toccare, nessun colore, niente corpo, solo parole)” (ib.). Di Giovanna d’Arco ci restano solo parole, quelle con cui la pulzella gioca “come si gioca col fuoco” (p. 57). Perfino le sue lacrime sono arse dal fuoco. Tutto il corpo di Giovanna è bruciato, compresi i suoi occhi. La pulzella non ci guarda da tempo immemore, se non attraverso le versioni fantasmatiche e fantastiche che di lei sono prodotte nel tempo e che sono molteplici, contraddittorie, fuorvianti. Di Giovanna, alla fine, non sembra restare molto altro che visioni sfumate ed evanescenti come ceneri. Eppure, forse, a significare qualcosa, a indicarci l’essenza di questa figura, è proprio il fatto che le lacrime di Jeanne si asciughino nel fuoco:
Indizio che riconduce ancora a una bruciatura. All’apparenza il fuoco si è ritirato, l’incendio è stato domato, ma se vi è la cenere, questo vuol dire che – sotto sotto – un po’ di fuoco resta. Ed è ancora tramite questa sua dissimulazione che esso finge di aver abbandonato il campo. Continua a simulare, continua a mascherarsi sotto la molteplicità, la polvere, le ciprie, il pharmakon inconsistente di un corpo plurale che non gli appartiene più. Non restare in contatto con sé, non appartenere più a sé: sta in questo l’essenza della cenere, la sua stessa cenere (pp. 54-56).
La sua figura in fiamme si fa metafora di Cenere che “incendia l’apparato categoriale con il quale sempre cerchiamo di imbrigliare l’essere” (Moroncini, 2015, p. 58). Come Cenere, di lei non abbiamo immagine, ma tracce di differenza: “differenza di differenza, differire (nel senso di rinviare) il suo differire (nel senso di essere differente da un’altra cosa), di abolire la differenza mentre si differenzia” (ib.).
Giovanna non resta da nessuna parte, è là12. Giovanna brucia, proprio come si dice di una passione. È questo il motivo per cui Dreyer ci può mostrare il desiderio che muove la giovane donna verso una distanza invisibile e la trasforma in cenere.
Gli occhi di Giovanna ci toccano a partire da immagini grigie, indecise tra il giorno e la notte. Le sue bianche pupille si rendono specchio in cui ritrarre il nostro volto umano, in lacrime. Se proprio di ogni animale è disporre di sensi come la vista o il tatto, a noi è dato di piangere. Se la conoscenza visiva e la presa potente delle nostre mani consentono di disporre del mondo, l’impotenza dei nostri sguardi che si cercano l’un l’altro, l’impossibilità del desiderio che li muove veloci nel tentativo di toccarsi, l’incredulità in cui restiamo ogni volta che ci troviamo esposti nella ferita, nel pianto e nel dolore più profondo, aprono i nostri occhi al non-vedere, a tutto ciò dinnanzi a cui si può soltanto piangere o credere.
Le visioni di Jeanne d’Arc si palesano così come “concentrazione di luce” (p. 65): è la stessa luce accecante in cui si polverizza infine il suo volto di donna “a forza di vedere per non vedere, scrivendo nella passione del non-sapere piuttosto che del segreto” (ib.). Si tratta di quella stessa luce in cui non c’è più niente da vedere e bisogna chiedersi: “c’è ancora posto, spazio o intervallo, chōra, per il fenomenico del giorno e per la sua visibilità trasparente?” (Derrida, 2019, p. 13).
Giovanna d’Arco resta, ci attende là, viene a toccarci con i suoi occhi. Torna a invitarci a pensare agli occhi come a “mani miracolose”, come “le labbra di Dio” (p. 160). Giovanna d’Arco resta, là, con il suo sguardo muto che, guardandoci, sembra dire ancora: “Finchè non mi avrai toccato con gli occhi, finché non mi avrai toccato gli occhi, come labbra, non potrai dire ‘un giorno’. Né ‘addio’” (p. 13).