Credono di conoscerla tutti, Medea
E. Cantarella, L’amore è un Dio
K: Eva Cantarella, mille grazie per aver accettato il nostro invito a parlare di Medea. È un grande onore per la nostra rivista.
Nell’introduzione a una nuova edizione de L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana1, lei ricorda che quel libro, la cui prima uscita risale a più di quarant’anni fa, era il 1981, apriva una nuova stagione del suo esercizio teorico: non si trattava più di un libro specialistico, come quelli pubblicati in precedenza, legato al mondo dell’accademia se così possiamo sintetizzare, piuttosto sperimentava un’altra scrittura, saggistica, e immaginava un universo di lettori diverso da quello per lei consueto. Questa annotazione ci appare interessante perché nella riedizione de L’ambiguo malanno lei rivendica che l’adozione di un genere letterario meno rigido, meno specialistico, si lega alla definizione del pensiero del femminismo degli anni Ottanta. La sua intenzione esplicita doveva richiamare quindi – chiaramente con l’enorme distanza storica, ma con una curiosa vicinanza in riferimento alle strutture concettuali e antropologiche – una possibile relazione tra il mondo greco, tra il ruolo della donna nel mondo classico, e la questione femminile contemporanea. A questo punto noi vorremmo adottare le stesse intenzioni e tentare di rendere l’inattualità di Medea quanto mai attuale. In effetti, l’interrogazione di Medea – dopo due anni di pandemia – è, come lei faceva all’inizio degli anni Ottanta in L’ambiguo malanno, agitata anch’essa dalla contemporaneità: tant’è vero che il sottotitolo del numero che K. dedica a Medea è La lacerazione della cura.
Arriviamo adesso al primo interrogativo che vorremmo sollevare. Si tratta di una questione legata ai grandi temi da lei studiati: la questione giuridica e del femminile nel mondo classico. Temi che vorremmo collegare alla figura di Medea. Si dice sempre – probabilmente giustamente – che una svolta nella tragedia di Medea, cioè quando le cose precipitano verso la catastrofe, è quando Medea comprende che subirà l’esilio; vale a dire che verrà bandita da Corinto dopo che Giasone ha deciso di lasciarla per sposare la figlia del re della città. Il bando nel mondo classico rappresenta una figura giuridica molto complessa e articolata, che, però, possiede una pregnanza decisiva per tentare di decifrare lo statuto psicologico di una straniera come Medea. Ci stiamo chiaramente riferendo alla figura dell’atimia. Medea è atimos; la soglia estrema del diritto. Come dire: ti escludo ma ti catturo all’interno della maglia giuridica. La cosa peggiore che può accadere a un uomo o un donna del mondo classico; peggio persino della morte, perché il bando colloca chi ne soffre nella dimensione del disumano.
La questione in generale in Euripide, e in particolare nella Medea, è cruciale. Nelle tragedie euripidee, per lo straniero, sia esso un barbaro, un greco fuori dal comune, è impossibile sostenere la propria identità fuori dalla polis, perché l’umano coincide con la polis. Evidentemente, la messa al bando scaglia fuori la civiltà, in una dimensione ferina. Medea sembra cogliere perfettamente la gravità di questa condanna.
A questo punto, se lei è d’accordo, proveremmo a indagare il profilo di questa figura politico–giuridica del bando.
Eva Cantarella: Certamente e con grande piacere, anche se non senza difficoltà. Il vostro interesse per l’atimia, infatti, impone a uno storico del diritto (quale io sono, di formazione) la necessità di fare una indispensabile precisazione preliminare, di tipo lessicale.
Sul piano giuridico, la parola atimia ha un significato diverso da quello che ha nel linguaggio a–tecnico, nel quale indica la perdita della reputazione, con la riprovazione generale che ne consegue, che può arrivare all’emarginazione di chi ne è stato colpito. E Medea, intendendo la parola in questo senso, può ben essere vista come una vittima prototipica di questa sanzione. A renderla tale, privandola della sua timé (vale a dire, appunto, la considerazione sociale) basterebbero i suoi dati anagrafici: Medea era nata e proveniva da un paese straniero, e il giudizio sfavorevole che l’etnocentrismo greco non esitava a dare su chiunque non fosse greco è cosa così nota da rendere superfluo soffermarvisi. E a questo si aggiungevano tre altri elementi che certamente non giocavano in suo favore: il primo era il paese dal quale veniva, la lontana Colchide, considerata all’estremo limite del mondo civile, quasi al di là dell’umana civiltà. Il secondo era il fatto che oltre a essere una donna dotata di poteri magici, come tale temutissima, Medea era giunta a Corinto preceduta da una pessima fama. A partire dal momento in cui aveva lasciato la Colchide per seguire Giasone, infatti, aveva commesso una preoccupante serie di omicidi: durante la fuga sulla nave degli Argonauti, quando questa rischiava di venire raggiunta da quella di suo padre, che la inseguiva, Medea aveva fatto a pezzi il fratello Apsirto, che l’aveva seguita nella fuga, e ne aveva gettato in mare i resti, brano per brano, costringendo il padre a fermarsi per raccoglierli, uno alla volta. Arrivata così sana e salva a Iolco, la patria di Giasone, temendo che lo zio di questi Pelia lo uccidesse, per continuare a esercitare il potere che aveva esercitato in sua assenza, aveva garantito di poter ringiovanire Pelia, ormai molto avanti negli anni, immergendolo con delle erbe magiche in un calderone di acqua bollente: e Pelia era morto bollito. Medea, insomma, non era una normale straniera: era una figura tragica, alla ricerca di un paese dove ricostruirsi una vita, un’esule che aveva perduto le sue radici, di cui a causa delle sue origini si diffidava, alla quale si era propensi ad attribuire indole criminale; che non veniva compresa e non ci si sforzava di comprendere. E a tutto questo si aggiungeva la sua unione con Giasone, che faceva di lei, agli occhi degli abitanti di Corinto, una profittatrice che usava le armi della seduzione per raggiungere i suoi scopi e soddisfare le sue ambizioni: ce n’era quanto bastava perché fosse vittima di una grave, irrevocabile atimia sociale.
Ma dal punto di vista tecnico–giuridico l’atimia era cosa che non la riguardava, e che in alcun modo la toccava. L’atimia, in quel senso, era una sanzione che colpiva i cittadini che si erano dimostrati indegni di essere tali, che di conseguenza venivano privati del diritto di partecipare alle assemblee (gloria degli uomini, come le definisce Omero) e di ricoprire cariche pubbliche: in altre parole del diritto di cittadinanza. Era, dunque, una sanzione gravissima, che escludeva chi ne veniva colpito dal numero delle persone tutelate dalle regole del diritto, che non gli concedeva più alcuna delle tutele concesse a chi subiva dei torti, delle ingiustizie o delle violenze. Chi uccideva un atimos, di conseguenza, non veniva considerato un omicida. L’atimos non esisteva, non era una persona alla quale potevano essere tolti dei diritti: quali, se non ne aveva mai avuti? Nel caso di Medea, l’essere di fatto la moglie di Giasone (oltre che la madre dei suoi figli) non gliene aveva mai attribuito alcuno. Medea non esisteva. Senza bisogno di condanne, per lei al tempo stesso impossibili e inutili, Medea non esisteva di per sé, per le caratteristiche che fanno di lei un personaggio tragico fin dal momento del suo arrivo a Corinto, anche prima che il comportamento di Giasone la inducesse a reagire nelle forme che ben sappiamo. Il suo dramma era che a Corinto lei non esisteva.
K: Vorremmo insistere proprio su questa sua non–esistenza. Medea non è soltanto una donna; come dicevamo, è una straniera. La vera questione tragica di Medea è, certo, la questione del femminile, ma nel femminile, tutto sommato, sin dal prologo della Nutrice, sentiamo che Medea, come dire, potrebbe trovare un luogo di accoglienza. Invece, probabilmente, il vero problema è la sua estraneità all’universo simbolico greco. Medea, infatti, commetterebbe l’inimmaginabile ma perché viene da un altro universo antropologico. Quale? Lo dice bene, dal suo punto di vista, Giasone: il suo è un universo senza nomos. La straniera non ha nessuna capacità di riconoscere la legge, qualsiasi essa sia, Né quella simbolica né quella giuridica della polis.
E. C.: Che il mondo di Medea sia senza nomos è, come abbiamo avuto modo di vedere, cosa indiscutibile. Ed è altrettanto vero che Medea non si limita a non rispettare quello della polis; non rispetta neppure l’universo simbolico della legge. E questo mi pare richieda l’apertura di qualche considerazione sul nomos simbolico specifico della condizione femminile, che – Medea – al di là della sua alterità – condivideva con le donne di Corinto e più in genere greche, la cui vita (al di là dalle differenze di disposizioni specifiche esistenti tra le diverse poleis: alle spartane, ad esempio, era concessa una libertà di movimento nello spazio pubblico maggiore di quelle concesso alle ateniesi), era regolata dallo stesso, fondamentale principio: la loro “naturale” destinazione alla maternità, grazie alla quale il corpo cittadino veniva riprodotto. Circostanza, questa, che merita una breve parentesi. Nel 451 a.C. Pericle introdusse ad Atene una nuova regola: a partire da quel momento era cittadino solo chi era ex amphoteron aston gegonotos, vale a dire nato da padre e da madre ateniesi. Per la prima volta, il contributo materno veniva esplicitamente, giuridicamente riconosciuto. Si trattava, forse, di un ulteriore passo di Pericle in direzione di una democrazia sempre più inclusiva? Piacerebbe pensarlo, e devo ammettere che quando molti, molti anni or sono, muovevo i primi passi nello studio del diritto greco, l’idea mi aveva entusiasmato: ma sbagliavo. Ben altre erano, infatti, le ragioni della nuova regola: la democrazia era costosa per la polis, e nel tempo i suoi prezzi erano diventati insostenibili: qualunque persona svolgesse una carica pubblica riceveva uno stipendio, compresi i numerosissimi cittadini che quotidianamente venivano sorteggiati come giudici nei tribunali popolari. Il passo ultimo, rappresentato dalla concessione dello stipendio a chiunque partecipasse alle assemblee popolari, che si riunivano con notevole frequenza, fu la cosiddetta goccia che fece traboccare il vaso. Nonostante Atene (allora al massimo della sua potenza imperialistica) non esitasse a utilizzare per le sue personali esigenze cittadine i contributi che le versavano le città a lei alleate nella Lega Delio–Attica, era comunque necessario restringere il diritto di cittadinanza, limitando il numero di coloro ai quali questo spettava. Ma il fatto che questo, e non altro, fosse l’obiettivo di Pericle non toglie che nel 451 a. C. alle donne venne per la prima volta ufficialmente riconosciuto un ruolo nella nascita dei loro figli. Cosa, questa, che se a noi sembra ovvia, per secoli e secoli non era stata considerata tale dai greci, che a lungo e accanitamente avevano discusso sul seguente argomento: la donna contribuisce o meno alla nascita del nuovo essere da lei partorito? Solo poco alla volta, infatti, essi cominciarono ad attribuir loro un ruolo in materia come finalmente accadde solo nel pieno del V secolo a. C. Come dimostra, inequivocabilmente, la testimonianza di Eschilo nell’Orestea, e più precisamente nelle Eumenidi. La storia è ben nota: Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, aveva ucciso la madre, che al ritorno del marito dalla guerra di Troia lo aveva accolto accoltellandolo. Un comportamento difficile da giudicare, quello di Oreste: vendicare la morte del padre era gesto approvato dalle mentalità dell’epoca, ma uccidere la madre non era inaccettabile. Come giudicare il comportamento di Oreste? Per risolvere il problema, viene istituito l’Areopago, il primo tribunale ateniese, e a presiederlo fu la dea Atena, il cui voto decisivo a favore di Oreste determinò l’assoluzione di questo. Ed eccone la motivazione: “Non è la madre la genitrice, il genitore è il padre. Il figlio, presso la madre, nel corpo della madre, è come un ospite e resta lì finché lo protegge, a meno che un dio non lo fulmini”.
Così Eschilo nelle Eumenidi: evidentemente, quella espressa dal voto di Atena era un’opinione ancora ampiamente condivisa. Sino al momento in cui, a proporre una diversa soluzione giunse l’opinione e l’autorità di Aristotele, al quale dobbiamo la spiegazione della natura e del ruolo del contributo femminile: accanto allo sperma, egli spiegò, alla formazione dell’embrione concorre il sangue mestruale, ma con un ruolo diverso. Lo sperma è sangue, come quello mestruale, ma più elaborato. Il sangue infatti altro non è che il cibo che non viene espulso dall’organismo, trasformato dal calore del corpo: ma il corpo della donna, essendo meno caldo di quello dell’uomo, non può compiere l’ultima trasformazione, che dà luogo allo sperma. E la riproduzione ha luogo quando il seme maschile “cuoce” il residuo femminile, trasformandolo in un nuovo essere. In altre parole – e andando alla sostanza del problema – il seme ha un ruolo attivo, il sangue femminile un ruolo passivo. Anche se indispensabile, dunque, il contributo femminile è quello della materia, per sua natura passiva, con cui la donna si identifica; l’apporto maschile invece è quello dello spirito, attivo e creatore2. E grazie alla indiscussa autorità del suo autore, la soluzione dettata da Aristotele divenne, nei secoli, elemento fondamentale del patrimonio culturale dell’Occidente.
E torniamo finalmente, alla luce di tutto questo, per concludere il discorso, al nomos simbolico del femminile, dettato dalla paura che la semplice idea del potere generatore delle donne ingenerava negli uomini, a riprova della quale non abbiamo che l’imbarazzo della scelta. Il che non impedisce che a Medea – all’interno di quel discorso – spetti un ruolo speciale, che la rende particolarmente preoccupante: Medea infatti, possiede il logos, il ragionamento e la parola maschile, ed è capace di usarlo contro gli uomini.
K: È grazie al logos che, nella tragedia di Euripide, Medea, nel suo primo monologo, trova la complicità delle donne di Corinto, condividendo la loro condizione: senza un uomo socialmente non esistono, sempre dipendenti, mai veramente libere. Siamo di fronte a un discorso strabiliante che rivela una coscienza della condizione femminile unica nel mondo tragico.
E. C.: Probabilmente soltanto Euripide poteva concepire il discorso di Medea alle donne di Corinto. Quale altro uomo greco vissuto in quell’epoca avrebbe potuto mettere in scena una donna che denunziava le ingiustizie della condizione delle donne, a cominciare dal momento in cui, come Euripide racconta, appena uscite dall’infanzia, venivano date in moglie dal padre a un uomo del quale, quale che fosse il suo comportamento, esse non avevano alcun modo di liberarsi? “Alle donne il divorzio porta cattiva fama”– dice infatti la Medea di Euripide – … e a seguire l’elenco delle infinite ragioni che dimostrano, come dichiara all’inizio del suo discorso, che “fra gli esseri tutti, dotati di senso e ragione, noi donne siamo la razza più sventurata”. È il primo testo, questo, che denuncia esplicitamente l’esistenza delle discriminazioni di genere nella storia dei greci.
E veniamo, ciò premesso, al discorso sulla solidarietà delle donne di Corinto, che a mio giudizio andrebbe valutata con non poche cautele. Nelle versioni del mito precedenti a quella di Euripide i figli di Medea non vengono uccisi da lei, bensì, secondo alcuni, dagli abitanti di Corinto e, secondo altri, dalle donne di questi, per gelosia. L’uccisione per mano della madre, come ben noto, venne introdotta da Euripide. E non credo sia azzardato pensare che lo abbia fatto per mostrare a quali orrori possono portare le guerre e gli sconvolgimenti che queste portano con sé. Medea, infatti, andò in scena nel 431 a. C., l’anno in cui scoppiò la guerra del Peloponneso. Non credo sia azzardato pensare che Euripide, notoriamente tutt’altro che guerrafondaio, avesse ben presente che le conseguenze delle guerre non si limitavano alle perdite sui campi di battaglia. Euripide pensava la sorte delle donne dei vinti, stuprate e fatte schiave dai vincitori, conosceva la sorte degli esuli. Facendo compiere a Medea il gesto che, come dice Seneca, “fa di lei Medea” sembra voler mostrare che la disperazione può condurre le vittime delle guerre a oltrepassare persino i limiti che segnano i principi etici fondamentali, come quelli che Medea valica uccidendo i figli. Non credo sia troppo azzardato pensare che fossero questi i temi sui quali Euripide, mettendo in scena Medea, invitava i padroni del mondo di allora a riflettere. Temi attuali, in quella primavera del 431 a.C., così come oggi, a distanza di millenni.
K.: La questione dell’infanticidio ci riporta a un suo libro del 2007, L’amore è un dio. Il sesso e la polis3. Nel capitolo che dedica a Medea, lei sostiene che per capire qualcosa di Medea non è sufficiente Euripide. Bisognerebbe fare un passo indietro nel mito di Medea, per capire un problema cruciale, cioè quello del rapporto tra Medea e il desiderio perché passioni come le sue, incondizionate, non possono avere cittadinanza dentro la polis greca.
Varrebbe la pena a questo punto sviluppare la “terza vita” di Medea, quando si compie quello che, secondo la tradizione mitica posteriore rispetto a Euripide, rappresenta l’ultimo tratto della sua parabola, quella che la vede probabile sposa di Achille. A questo proposito, appare molto interessante che nel bellissimo volume di Bettini e Pucci, Il mito di Medea4, nel prologo, in cui Bettini narra la storia di Medea in modo molto libero e letterario, il racconto si concluda proprio con l’incontro onirico tra Medea e Achille. Medea, immagina Bettini, accompagna Achille verso le nozze e nota a un certo punto che Achille ha un medaglione d’oro che porta l’effige di un’altra donna. Medea chiede chi sia quella donna e Achille le risponde che si tratta di Pentesilea, un’amazzone. Medea allora chiede se l’avesse amata e dove sia adesso e Achille risponde di sì, che ha amato la donna, e che l'ha uccisa. Il modo in cui Bettini conclude questo racconto non solo sembra adombrare l’ipotesi che Medea abbia trovato una sorta di suo corrispettivo, un semidio come lei, che ha ucciso la propria sposa (e che, quindi, potenzialmente, potrebbe uccidere anche lei), ma risulta stimolante anche perché evoca il nome di Pentesilea, protagonista dell'opera teatrale forse più estrema di uno dei più grandi autori tragici moderni (sicuramente l’unico grande autore tragico tedesco), Heinrich von Kleist, in cui, invece, il rapporto si inverte: non è Achille che uccide Pentesilea, ma è questa che uccide “per amore” e in modo inaudito Achille, cioè sbranandolo e dandolo in pasto ai suoi cani.
E. C.: È giusto e importante non ragionare solo sulla Medea di Euripide, dimenticando che la vita di Medea non si conclude con la sua fuga da Corinto sul carro del Sole. Ed è molto importante ragionare sul comportamento di Medea ad Atene, dove la sua vita non è certo quella di una profuga: dopo aver sposato il re Egeo, infatti, ha da questi un figlio di nome Medo. Si è risistemata in un’ottima posizione, e la sua vita procede senza problemi sino al momento in cui ad Atene giunge un uomo che, anche se il padre Egeo non lo ha ancora riconosciuto, è Teseo, il primo figlio di questi. Medea, che a differenza di Egeo lo ha capito, vede messa in pericolo quella che è evidentemente la sua ambizione: che a suo tempo ad Egeo succeda suo figlio Medo. E quindi decide e si accinge a uccidere Teseo, avvelenando il vino che questi si appresta a bere. Ma prima che questo accada Egeo scopre che la spada dello sconosciuto ospite è quella che, anni prima, egli aveva dato a suo primo figlio in partenza. Capisce che tipo di donna è e cosa vuole Medea e la caccia da Atene. È la fine della seconda vita di questa, alla quale, peraltro, ne segue una terza nell’aldilà, dove la troviamo nelle vesti di moglie di Achille. Ma quello che qui interessa, al momento, è la sua vita ad Atene, e la lucida, ferrea razionalità con la quale, per soddisfare le sue ambizioni regali, pianifica la morte di Teseo. Questo è – a mio giudizio – quello che più o colpisce nel personaggio di Medea ateniese: la conferma dell’esistenza di una razionalità che le viene abitualmente negata.
K: Ad Atene, vediamo, ancora una volta, che Medea non incarna precisamente la figura della vittima, perché lei in qualche modo si vendica. In altre parole, è un esempio, per quanto terribile, di lotta, di uno spirito continuamente in lotta.
E. C.: È giustissimo: Medea non è solo una vittima. Certo, è pesantemente discriminata da diversi punti di vista, ma non è una vittima, e certamente non si comporta come tale. Come dicevo, a me non pare che nel suo modo di agire e nella gestione delle sue scelte si legga quella irrazionalità che di regola le si attribuisce, in particolare nella decisione di uccidere i figli. È piuttosto il lucido, freddissimo, ragionamento sulla sorte che li avrebbe aspettati se fossero sopravvissuti che la conduce a quella decisione. Non a caso nei suoi discorsi torna quasi ossessivamente la domanda sul loro eventuale futuro. Se verranno cacciati da Corinto: dove andranno? Cosa ne sarà di loro? Meglio che muoiano, è la risposta, anche se mai esplicitamente formulata. E a rafforzare l’ipotesi della razionalità dei suoi comportamenti interviene il suo tentativo, nella sua seconda vita, di uccidere Teseo, come abbiamo visto in quel caso per motivi certamente non nobili, come la sua ambizione e il suo desiderio di potere. Ma pur sempre in base a una scelta razionale.
K: Quanto lei dice è un punto cruciale per comprendere la formazione del soggetto Medea. Nel già citato Il mito di Medea di Bettini e Pucci, gli autori sostengono una tesi un po’ diversa, ossia che nonostante la modernità dei grandi monologhi di Medea, in realtà ciò che Medea sconfessa sempre – e questa sarebbe la sua grandezza in Euripide – è la volontà individuale. Nelle decisioni di Medea – nel suo conflitto tra il thumos (la passione) e le sue decisioni – c’è una finezza del ragionamento straordinaria, però il rischio, questa è la domanda, di sovraccaricarla della questione della razionalità forse la proietta in una costellazione storico–antropologica e concettuale che invece Euripide problematizza. Medea, cioè, non incarna mai semplicemente una volontà individuale, non ragiona mai, anche quando sembra farlo, a partire da quello che noi consideriamo il soggetto moderno. Lo scontro tra il thumos, la passione che a un certo punto la travolge (come fa vedere, per esempio, Ovidio), e i bouleumata (cioè quelle decisioni che, per una madre, dovrebbero essere ciò che non si dovrebbe mai prendere), queste tensioni che sono contrapposte e sono il conflitto – diciamo una cosa moderna – interiore di Medea. Tuttavia forse non sono riconducibili alla dimensione della razionalità. A Medea, infatti, mancherebbe ciò che più di ogni altra cosa dovrebbe caratterizzare il soggetto moderno, ossia il fatto di avere coscienza di sé, a partire dal riconoscimento di una ragione. Si anniderebbe qui l’elemento “arcaico” di Medea. Medea, cioè, non può riconoscere nessuna legge proprio perché non è un soggetto individuale con una volontà propria, pure quando sembra mostrarla.
Se fosse vero che Medea non mette in scena un logos come espressione di una volontà individuale, potremmo arrivare a Pasolini; in particolare a quanto diceva in un’intervista quando collega Medea al mondo del sottoproletariato5. Pasolini sostiene che non c’è una grande distanza tra Medea e personaggi come Accattone e, più in generale, tutte le figure che popolano il suo universo estetico. A questo punto la razionalità di Medea, proprio in quanto non incarnerebbe più un logos inteso come espressione di una volontà individuale, potrebbe essere, invece, vicina alla metis, intesa come un’astuzia, una sagacia che ha a fare con una forma di intelligenza collettiva, condivisa quasi fisiologicamente da chi, escluso e minacciato dall’ordine del logos e del diritto, deve inventare le forme della propria sopravvivenza? Come ricordano Bettini e Pucci, qualunque greco avvertiva la parentela profonda iscritta nel nome Medea tra medomai (“provvedere”, “ordire”, “tramare”) e metis. Medea, dunque, potrebbe essere il nome di una singolarità – senz’altro eccezionale – in cui intelligenza e parola appaiono non più come proprietà di un soggetto che può disporne secondo la propria volontà quanto, piuttosto, come una dimensione pre o post individuale che, nella parola stessa, può far emergere altre strategie di resistenza?
E. C.: La questione, complessa e difficile, meriterebbe una riflessione ben più approfondita di quella quantomeno a me possibile in questa sede. A me riesce infatti difficile leggere in Medea la concezione arcaica del soggetto che le viene più che autorevolmente attribuita. Per me Medea rappresenta esattamente il contrario, è un soggetto antropologicamente libero e autonomo, che esprime una volontà individuale che si contrappone, sovrapponendo e cancellando concezioni arcaiche del soggetto. Quanto al fatto, da voi ricordato, che Pasolini, interrogato sulle ragioni per le quali aveva voluto che la Callas raccontasse una Medea così particolare e diversa, abbia spiegato di averla voluta contrapporre al mondo borghese e moderno di Giasone, per rappresentare un mondo proletario e arcaico, a me pare si tratti di cosa molto interessante ai fini dell’interpretazione dell’opera e del personaggio di Pasolini, ma come tutte le interpretazioni può essere o meno condivisa: e al di là del fatto che personalmente non riesco a farlo, non vedo quale rilevanza possa avere sulla Medea della quale abbiamo sin qui discusso.
K: Forse la questione si potrebbe chiarire meglio se ci riferiamo al tema della cura, intorno al quale abbiamo concepito il nostro discorso su Medea. Se il femminile, il materno come ordine simbolico, è anche il luogo della cura, Medea (quando dice: “Ucciderò i figli, non c’è nessuno che me li strapperà”), ma soprattutto la Nutrice nel prologo – questa sarebbe una grande questione da interrogare a partire dalle critiche di Nietzsche a Euripide – ci dicono già tutto. La Nutrice mette tutti in allarme: “Medea odia i suoi figli”; lo dice chiaramente, proprio perché sente che c’è qualcosa che non torna, che i figli non sono propriamente di Medea. Allora noi vorremmo interrogare, attraverso Medea come figura estrema, una possibilità persino politica del femminile, perché tutto sommato Medea distrugge ogni potere. Certo, lo fa per vie catastrofiche, però il potere politico a Corinto va in frantumi, e va in frantumi anche la sovranità paterna.
E. C.: Che Medea sia figura rivoluzionaria, anche per la totale, radicale inesistenza tra le sue caratteristiche della dimensione della cura è assolutamente vero. Per quanto mi riguarda, tenderei a legare questa sua caratteristica a quella sulla quale ci siamo già soffermati a proposito del discorso del nomos simbolico del femminile, che a me sembra essere la sua razionalità.
K.: Folle, irrazionale, cinica e spietata sono gli aggettivi che generalmente vengono associati alla figura di Medea: una donna incapace di rispettare un tabù, di incarnare il ruolo di custode della cura e di consegnarsi, come le altre, alla razionalità dell’oikos. All’inizio di questa intervista, lei ha fatto riferimento alla duplice discriminazione subita da Medea. Allo stesso modo, nell’ultimo numero di K. precedente a quello dedicato a Medea, dedicato alla figura di Rosa Parks (Il viaggio di Rosa Parks: https://revue–k.univ–lille.fr/numero–7.html), anche noi abbiamo provato a riflettere sulle molteplici forme di discriminazione subite dalle donne nere durante e dopo gli anni della schiavitù, intravedendo in questa fitta trama di discriminazioni l’affermarsi di un modello di femminilità che naturalmente sfuggiva (e continua a sfuggire) alla comprensione degli uomini e delle donne bianche, persino delle femministe. Se volessimo provare a rileggere la storia di Medea, anche alla luce di ciò che la schiavitù ha comportato per le donne nere, è possibile, secondo lei, intravedere nel gesto di Medea l’affermazione di un’altra razionalità? L’infrazione di un tabù, in questo caso da parte di donne, può voler affermare un altro modello di femminilità?
E. C.: Si, certamente. Il discorso sugli infanticidi praticati dalle schiave nere per salvare i figli e le figlie dal destino della schiavitù (che a me sembra confermi la mia lettura dell’infanticidio di Medea come un gesto di lucida ed estrema razionalità) contiene certamente, in modo implicito, l’affermazione di un altro modello di femminilità.
K.: Vorremmo adesso provare a guardare alle vicende di Medea da un’altra angolazione, facendo riferimento a Ontologia dell’accidente. Saggio sulla plasticità distruttrice, il libro della filosofa Catherine Malabou che studia la forma mostruosa assunta da alcune soggettività post–traumatiche6. Tra i traumi che precedono queste forme di soggettività “assolutamente altre”, Malabou segnala, è il nostro caso, le infedeltà che le coppie non si riescono a superare. In verità, Malabou non nomina tra i traumi solo le infedeltà insuperabili, ma anche le lesioni cerebrali, le catastrofi naturali e politiche, la perdita del lavoro nella crisi, ad esempio, del 1985 in Francia; fa riferimento anche agli incidenti automobilistici e alle esperienze degli insegnanti nelle zone disagiate.
È un approccio interessante per il tema della nostra discussione, anche perché nella postfazione all’edizione italiana di Ontologia dell’accidente Salvatore Tedesco sostiene che nella costellazione delle individualità post–traumatiche potrebbe rientrare anche la figura di Medea. Quali caratteristiche presentano queste figure post–traumatiche? Proprio l’analisi dei loro tratti ci può consentire di tornare anche alla questione del rapporto di Medea con l’arcaico e di trovare forse una risposta convincente. Innanzitutto, come si è detto queste figure non hanno scampo, non hanno un posto dove fuggire – giustamente lei prima sottolineava che Medea, essendo irrimediabilmente “fuori”, non ha un luogo dove fuggire; anche ad Atene resta una straniera, non c’è uno spazio dove possa acquisire un radicamento, una consistenza. E poi, aspetto decisivo, non riesce a fuggire né in qualche modo a elaborare l’accidente dell’infedeltà di Giasone. La distruzione è plastica perché, lungi dall’annichilire ogni forma possibile, produce una forma d'essere che non ha precedenti nella vita di chi viene formato dalla distruzione. La forma della distruzione, distruggendo il sé, rende assolutamente "altri" da ciò che si era, ma anche "altri" dal nomos condiviso, dal simbolico potremmo sostenere. Il dolore del trauma si trasforma in gelo, più che in razionalità. Al riguardo si potrebbe però avanzare l'ipotesi che l'assenza di tragicità della figura di Medea non sarebbe l'effetto di quella fine del tragico, di quella "decadenza" che Nietzsche attribuisce a Euripide, ma il comparire di una figura che incarnerebbe una negatività irriducibile, l'interruzione della continuità dell'ebbrezza della vita, impensabile nella tragedia.
E. C.: Questo è un discorso di grande interesse, capace di introdurre elementi nuovi e diversi sul dibattito sulla personalità e la razionalità di Medea. Ma per essere fatto con la serietà che merita richiede competenze che mancano a chi, come me, ha una formazione e interessi storico giuridici che non prevedono le approfondite escursioni in campo psicoanalitico necessarie per affrontare i problemi da voi giustamente posti. Tutto quello che posso dire, dunque, pensando a Medea alla luce delle vostre considerazioni, è che se il tradimento d’amore è ovviamente importante nella storia di Medea e ha certamente giocato un ruolo nella formazione della sua soggettività, non mi pare possa essere considerato sufficiente alla nascita di una soggettività postraumatica come quella da voi descritta. Tra gli eventi della vita di Medea e i suoi comportanti prima e dopo il tradimento d’amore io continuo a vedere una logica e una conseguenzialità, per non dire una coerenza che non viene meno. Non vedo in lei una fuga da se stessa causata da quell’evento. Ma l’ho detto e lo ripeto, al di là di questa poche considerazioni non ho in materia competenze che mi consentano di affrontare un argomento così complesso e delicato, e dato l’interesse dell’argomento me ne dispiaccio.
Per concludere questo incontro non mi resta che ringraziarvi per gli aspetti di Medea sui quali mi avete indotto a ripensare, e sui quali continuerò a riflettere.