“Il potere destituente del teatro”

Conversazione con Romeo Castellucci

DOI : 10.54563/revue-k.1002

Notes de l’auteur

L’intervista con Romeo Castellucci è stata realizzata da Stéphane Hervé, Fanny Eouzan e Luca Salza presso la MC 93, Maison de la Culture de Seine-Saint-Denis a Bobigny, dal vivo, successivamente la conversazione è proseguita per iscritto via mail. La fotografia è di Giovanni Ambrosio. K Revue ringrazia vivamente Romeo Castellucci per la sua disponibilità e generosità.

Texte

K: Potrebbe sembrare paradossale voler discutere con te di un personaggio mitologico, nella fattispecie Medea, dal momento che il tuo lavoro consiste nello “scavo” del personaggio fino ad arrivare all’anonimato. Ma, appunto, questa defezione radicale dal personaggio che tu proponi ci sembra essere in sintonia con il progetto della nostra rivista che lavora intorno a delle figure e dei personaggi destituenti. Il ritiro dall’ordine del discorso dominante, la delegittimazione dell’ordine del moderno richiedono, in un certo senso, la dissoluzione dell’identità nell’anonimato, come in Kafka. Qual è, per te, il potere dell’anonimato?

Romeo Castellucci: L’anonimato è un orizzonte, non la condizione da cui muovere. Necessariamente ci si allontana dal soggetto in senso antibiotico per disfare le biografie, le autobiografie d’autore, al fine di raggiungere l’essere di specie, che è muto e universale. Non ci sono più razze, genere, età, condizioni sociali. È uno scavo orientato verso la matrice del possibile, fuori dal dominio dei nomi, là dove vi è novità – questa parola abusata dalla pubblicità – che si dà come giardino i cui frutti sono disponibili a chi allunga il braccio. Questo nuovo abitare, che il teatro rappresenta a ogni occasione, corrisponde a uno scavo, a una drammaturgia “per via di levare”. L’anonimato è quello specchio che riflette il nostro volto senza la cornice dei nomi, è l’appello muto rivolto a ciascuno spettatore. Non si tratta più di esprimere una stereotipata visione dell’artista. Quando parlo di forza antibiotica mi riferisco primariamente a quella che lavora sul corpo dell’artista, che è chiamato a farsi fuori per dare accesso a quello che è, e significa, il palcoscenico definitivo: il corpo dello spettatore.

K: La rimozione del personaggio nell’anonimato e questa questione del corpo dello spettatore (“il palcoscenico definitivo”) sono le condizioni per la formazione di una comunità, una comunità che si creerebbe intorno al vuoto, all’assenza?

R. C.: Si dà accesso a una comunità istantanea – non già di adepti – formata al cospetto dell’immagine. Non c’è un discorso che cala dal palcoscenico, non una pedagogia. L’immagine mette a nudo, è scèpsi, dubbio radicale che interroga, che invita alla scelta morale dello sguardo. Ci si trova immediatamente da soli a “risolvere” il problema che l’immagine consegna. Il teatro crea un tempo nuovo e un luogo nuovo di comunità, ma a una condizione: quando si esce dalla sala tutto deve finire, la comunità dilegua al contatto con la città. Si ritorna cittadini.

K: In questa tua prospettiva la tragedia non può essere la celebrazione delle leggi e dei valori civici, e nemmeno la prova ambigua della fondazione della “polis”, come è stata spesso (ed è ancora) invocata in quanto modello teatrale nel Novecento.

R. C.: La tragedia attica esautora il potere del giudizio in quanto mostra sistematicamente – nel sistema – valori morali contrapposti ma equivalenti, da questo deriva lo spaesamento, la sfasatura del quadro umano. E da qui nascono le difficoltà di definire le categorie della catarsi. Come affermato da Benjamin la catarsi non libera dall’angoscia, né purifica, in quanto mera scarica nervosa espressa dalla risata finale del dramma satiresco – la commedia che chiudeva la tetralogia –. Solo una risata nervosa poteva sollevare lo spettatore dallo scacco del tragico. Risata retroattiva, che “legge” la tragedia.

K: Nella tua Orestea (una commedia organica?) creata nel 1995, hai effettivamente concesso un potere a Clitennestra (e a Cassandra, del resto), che persiste oltre la morte del personaggio della fabula. Hai, in seguito, fatto riferimento al volume di Bachofen Das Mutterrecht, che ci invita a pensare alla tragedia attica come espressione di una transizione antropologica dal matriarcato al patriarcato. Questo saggio è stato anche al centro della lettura di Pasolini dell’Oreste nelle sue varie opere tratte dalla trilogia di Eschilo. Nel 1961, quando tradusse l’Orestea, Pasolini lesse il riflusso del matriarcato come una vittoria delle istituzioni della “polis” sui poteri malvagi. Alla fine degli anni Sessanta, Pasolini abbandona questa lettura: se nel suo saggio cinematografico Appunti per un’Orestiade africana riflette ancora sulla possibile inclusione (e non trasformazione) delle Erinni, portatrici di forze matriarcali, nelle emergenti società africane, dà voce, nell’ultima scena di Pilade, a una veemente condanna di Atena (nata senza madre), la dea del logos, maledetta per aver distrutto senza sosta le forze arcaiche, quell’alterità che avrebbe reso possibile la vita. Nella tua opera, tu non deplori, come il pasoliniano Pilade, la fine del matriarcato, ma sfidi, in un certo, senso una lettura “progressista”, comunemente accettata della trilogia di Eschilo, e rifiuti la sua risoluzione mostrando la sopravvivenza fantasmatica della madre. Inoltre, nella tua messa in scena di Die Zauberflöte, hai adottato in qualche modo la prospettiva della madre, la figura infernale, la Regina della Notte, contro le luci accecanti, spaventose e fatali di Sarastro. Quindi, possiamo dire che la questione della madre conta per la forma tragica (e la contestazione della fabula)?

R. C.: Sì, giustamente, perché il matriarcato, o per meglio dire la ginecocrazia, è un principio di governo mitologicamente annichilito dalla leva della tragedia scritta, in particolare dall’Orestea di Eschilo, che “salva” il matricida Oreste. L’Areopago si allestisce qui come tribunale – qui vi si trova il fondamento mitologico della giurisprudenza e dello stato di diritto –. Alla fine, il processo allestito su Oreste sancisce il superamento culturale del principio femminile rovesciandolo in quello patriarcale. Il femminile ritorna come fantasma – già evidente nell’Orestea, nella scena capitale in cui Clitennestra appare come visione di fantasma a Oreste –. D’altra parte, non bisogna dimenticare che le radici della tragedia attica sono matriarcali e si ritrovano in quelle “cose da vedere” avvolte dal segreto che erano i Misteri d’Eleusi, dedicati a Demetra.

K: In questo senso Medea potrebbe essere interessante perché appunto rappresenta la forza femminile. Un’altra cosa che ci ha colpito molto nella tragedia di Euripide è il fatto che lei non paghi mai per i crimini commessi. È colpevole della morte del fratello, è omicida a Iolco, e soprattutto ucciderà i figli, eppure sfugge ad ogni condanna, come se fosse assolta a prescindere.

R. C.: Sì, assolta, sempre e giustamente. Medea è madre e potenza tifonica, in egual misura. Come la madre terra, che crea e distrugge con la medesima forza. Occorre leggere il paradosso del simbolo, occorre parteggiare per lei. La tragedia non è un racconto morale essendo, piuttosto, essa stessa dilemma morale. Il principio tragico non risiede negli eventi cruenti mostrati; il tragico è il modo di vedere tutte le cose. È lo sguardo la vera tragedia. Il principio antifrastico della tragedia consiste in una visione del mondo basata sul pessimismo antropologico. Il problema è essere nati, non il morire. Ma tutto ciò non genera tristezza, perché la tragedia genera forme, genera poesia, il che porta alla gioia.

Medea, figura del profondo, incarna l’abominio che – né più né meno – è in ciascuno di noi. Come in uno specchio concavo occorre però vederne i principi morali qui esposti in forma rovesciata. Medea è sommamente immagine della polarità etica dei personaggi tragici: il tutto si rovescia in tutto, Medea uccide i figli perché sono il premio della sua vita, estirpa da sé l’idea stessa di generazione della specie. L’amore è un deserto. E se si leva in cielo è perché quello è il suo abisso, la sua è una morte celeste. Ma probabilmente la storia di Medea rappresenta l’offesa che facciamo a madre terra. Il gesto estremo di Medea – una sorta di cupio dissolvi, a ben vedere – toglie la terra da sotto i piedi. Siamo confusi. E questo è il dono di Medea: considerare l’abisso. È stupido giudicare Medea con la ragione – certe messe in scena straordinariamente superficiali “attualizzano” questi personaggi –, per quanto il suo crimine sia osceno. Occorre saper cogliere, nascosto in bella vista, l’amore. L’altra metà del simbolo è il terrore con il quale si nasconde l’hard-core di questa storia, l’amore, appunto.

K: Medea è una di quelle figure femminili trasgressive che, come scrive Nicole Loraux, fanno “il passo per agire: dal dolore alla rabbia, dalla rabbia alla secessione”. Se sono “privati dell’arma della secessione, a volte arrivano fino all’omicidio”. Potremmo quasi dire che Medea rimette in scena l’accoppiamento, tanto temuto dall’ordine ateniese, di un pathos straripante con una meschinità esplosiva. La violenza distruttiva si nutre del dolore. Come dicevamo all’inizio, questa prospettiva, incentrata sulla soggettività (anche se questi affetti sono in realtà in eccesso rispetto al soggetto, si impadroniscono del soggetto) non è forse totalmente pertinente per interrogare il tuo lavoro, eppure ci sembra che tu conceda, paradossalmente, un potere distruttivo alla vittima, a colui che appare sulla scena (“Al di là di questa condizione patetica, cioè di passione, di pathos, il teatro non è possibile”, scrivi ne Les pèlerins de la matière). Potresti parlarci di questo “essere vittima” e sul suo potere paradossale?

R. C.: È evidente come il polarismo del tragico rovesci nel suo opposto il valore di una determinata circostanza. Possiamo cogliere le catene morali dell’essere agire in Medea, in quanto vittima delle offese dello sposo, spinte fino al parossismo del comportamento umano. Medea non solo infrange la legge morale della famiglia ma pare interrompere la legge universale della specie, che vuole garantire a ogni costo la sua riproduzione e la propria sopravvivenza. Medea è contro il principio di vita, ma quanta poesia paradossale nell’esprimere questo. Per quanto sia sconvolgente, il suo infanticidio non esprime – solo – un disagio psicologico. È innanzitutto “forma”, scandalo religioso e sociale, linea spezzata che obbligava il greco a riconfigurare il proprio sguardo; la visione del mondo che vacilla, anche per un solo momento. Medea uccide le sue creature: allora davvero la nascita della tragedia è crepuscolo degli dèi, quel cielo vuoto, freddo e immobile che condanna tutta una teologia, che interroga radicalmente un sistema di valori, che condanna a pensare, non a pregare più, perché inutile. Per questo il teatro occidentale non ha repertorio – a differenza di quello orientale –. E non ce l’ha perché è condannato a essere nuovo, a inventare forme sempre diverse, condannato a avanzare, di pari passo alle civiltà. Il teatro occidentale è negativo – un vuoto ci interpella – là dove in quello orientale, pieno, dimorano ancora gli dèi.

K: Nel numero su Antigone, il nostro numero 0, abbiamo intervistato Florence Dupont e anche lei propone questa lettura antropologica delle tragedie. Secondo lei, si tratta solo di testi letterari, esercizi retorici; la tragedia è, infatti, un rito.

R. C.: La tragedia, già nel nome che porta, mostra le vestigia del rito, del sacrificio animale. Notoriamente il lamento del capro. Nel tempo in cui qualcuno grida “il grande Pan è morto” il vuoto del cielo viene rivelato da uno squarcio. L’istituto sacrificale entra in crisi, viene superato culturalmente; fioriscono le tragedie, azioni parlate poste non più su un altare ma su un palco. Lo sfondo del palco è il cielo vuoto, uno sfondo in cui gli dei sono mostrati come inflessibili, crudeli, bambineschi e, infine, assenti. Euripide arriverà persino a ridicolizzarli. Mentre Eschilo – che io considero il più alto poeta di tutti i tempi – intende la tragedia ancora come una azione che avanza su una linea retta, conserva il tratto apodittico del rito cruento. La sua scrittura ha ancora i tratti liturgici della violenza che vuole superare.

K: Permettici di insistere su questa questione dell’essere vittima al teatro, vorremmo discutere ancora della passione della figura scenica, al di là delle considerazioni psicologiche che possono effettivamente sorgere riferendosi a questo concetto. Il termine “vittima” è stato criticato, qui in Francia, perché implica un certo fatalismo astorico e impedisce l’emergere di un soggetto. Tuttavia, sembra che il tuo lavoro proceda precisamente a una destituzione del soggetto, al di là anche del personaggio. Attore, il nome non è esatto, il titolo di uno spettacolo (e ora di un libro, edito per i tipi della Cronopio a Napoli), è eloquente: non si può parlare di azione (di recitazione) in teatro, e quindi non c’è soggetto sovrano. Lungi dal ricondurre all’impotenza, l’essere-vittima non si caricherebbe allora di un potere distruttivo dei quadri di rappresentazione basati sull’idea di soggetto?

R. C.: Il sistema vittimario è il nucleo del tragico, proprio perché, come abbiamo detto, la tragedia è l’approdo finale del rito. Nel rituale la violenza era indirizzata sulla vittima – René Girard ha già scritto tutto quello che possiamo dire al riguardo –. Ma chi è qui la vittima? E chi il carnefice? Nella tragedia spesso le due figure coincidono. E dove si nasconde ora il coltello che scanna la vittima? Non è forse lo sguardo dello spettatore che penetra e dissangua?

Il sistema vittimario del tragico – al contrario delle letture politiche e sociali dell’oggi – instaura massimamente il soggetto. I greci avevano persino un nome per questo processo di profonda coscienza del sé: agnizione. Ma ancora una volta, agnizione di chi? dell’eroe? O piuttosto dello spettatore? Io propendo per la seconda ipotesi.

K: Tornando alla tragedia, quando stavi facendo La Tragedia Endogonidia, hai scritto “un’autentica fondazione della tragedia è impossibile oggi”.

R. C.: Ricostituire la tragedia oggi non solo è assurdo ma è anche falso e impossibile, per la semplice ragione che non siamo ateniesi. Ma ecco che queste sono due buone ragioni proprio per tentare: solo l’irrapresentabile vale la pena di essere rappresentato. Le cose false sono le più vere, quando la così detta verità su un palco è solo verosimile. Il fallimento è a priori, l’esposizione al ridicolo necessaria. L’errore è da sempre lì. Ma l’esperienza del tragico che cosa sarebbe se non l’esperire il luogo dell’errore? L’errore di essere trovato lì, l’errore di avere pronunciato quella frase, l’errore di avere un linguaggio, di essere nati, come ricordano Sofocle o Beckett. La tragedia oggi non può che partire da questa dimensione “sbagliata”. Lo aveva capito meglio di tutti Hölderlin – il vero Greco tra noi –.

D’altra parte, la nostra esperienza di tragedia attica si basa solo sulla rovina, sul frammento. La parte che manca è con evidenza la parte operativa, quella che ci obbliga a lavorare spiritualmente per analogia. È un vuoto che parla e che ci interpella. L’amato Hölderlin, il più grande tra noi, non poteva che scrivere tragedie incompiute, laddove l’incompiutezza era il dire potenza del non-dire.

K: In questo stesso testo, hai anche scritto: “Tutta la tragedia è un esperimento in vitro contro la città e la sua politica”. In questa frase risuonano delle riflessioni di Nicole Loraux. Nella sua critica al mito del “miracolo greco” che, a partire dalla contemporaneità delle nascite della filosofia, della democrazia e della tragedia, concede al teatro una virtù civile e democratica, Loraux sostiene che la tragedia è, al contrario, antipolitica: mostra ciò che viene negato, represso, dimenticato dalla “polis”, insomma “ogni comportamento che devia, rifiuta o mette in pericolo, consapevolmente o meno, i requisiti e i divieti che costituiscono l’ideologia della città, che fonda e alimenta l’ideologia civica”. Nonostante l’impossibilità attuale della tragedia, ci sembra che tu stia proponendo in un qualche modo proprio un’“antipolitica”, nel mostrare, tra l’altro, ciò che i fondamenti delle nostre società reprimono. In questo senso, il tuo teatro non è scandaloso?

R. C.: La parola scandalo deriva da scandalon, magnifica parola greca che significa “pietra di inciampo”. Non è un eccitamento, è una cosa – una semplice pietra sul sentiero che stai percorrendo, e che non vedi – un oggetto che ti obbliga, nel tempo il più breve possibile, a un cambiamento di passo, se non vuoi cadere, a un cambiamento di veduta che ti obbliga a riconfigurare il contesto. Lo scandalo rende viva la rappresentazione. Non si dà arte senza scandalo come, d’altra parte, già detto da Baudelaire.

K: In questa configurazione il teatro ha ancora a che fare con la “polis”, la città, la politica?

R. C.: Come la intendiamo non mi pare. Non risolve nulla il teatro, non lo ha mai fatto. Non opera sul piano della realtà. È stupido, anzi, peggio, è naïf pensare che il teatro possa avere una presa diretta sulla società. L’attivismo a teatro, o l’attualizzazione, il commento a ciò che succede intorno a noi è pretenzioso, opportunistico e interessato. Moralista. La politica del teatro esiste, certo, ma si trova su un piano ineffabile. Io so che il teatro è politico, ma tutto ciò ha a che fare con la solitudine – l’opera d’arte più grande è quella che ti fa sentire solo –. Ognuno poi la pensa come vuole, si può pensare anche a un effetto sociale del teatro, se interessa. Io lo trovo consolatorio, stereotipato e condiscendente. Devo però registrare una cosa strana: il teatro greco è certamente l’espressione diretta della città, nasce in città, non avrebbe mai potuto nascere in campagna o in mezzo alla natura. Credo che abbia a che fare con il conflitto e la coercizione del vivere insieme. La violenza che la tragedia mette in mostra è ridotta a esperimento, esperita in differita, accettata sul piano simbolico ma allontanata sul piano della realtà. La natura, che invece è violenta per davvero, non avrebbe capito questa distanza.

K: Nel Simposio dopo la notte in cui hanno discusso di Eros, fra i personaggi che sono ancora un po’ ebbri, Socrate costringe gli assonnati Agatone e Aristofane a questa affermazione: è il proprio dello stesso uomo il saper comporre commedie e tragedie e chi è poeta tragico per arte è anche poeta comico. Cosa pensi di questa nota affermazione socratica che è presentata da Platone come un assioma anche se viene fatta dopo una notte trascorsa a parlare d’amore? Sapendo che hai portato in scena la Commedia di Dante e molte tragedie, cosa pensi del rapporto tra tragicomico e immagine oppure tra il tragicomico e l’altra questione che abbiamo già affrontata, il femminile?

R. C.: Alla questione del rapporto tra il comico e il tragico avrebbe risposto ancora una volta Benjamin quando parla della conformazione della tetralogia: tre tragedie e una commedia (o dramma satiresco). Come detto è nella commedia che vi è catarsi, la scarica nervosa del non-liquet cioè quello stallo morale e giuridico del tragico, davanti al quale lo spettatore veniva abbandonato a sé stesso. La risata “risolve” la domanda impossibile. Si potrebbe dire che il comico determina il tragico; si potrebbe dire – e qualcuno lo ha detto – che la Tragedia appartiene alla Commedia. Il fatto di essere nati, di essere qui, di avere un nome è l’umana commedia. A Atene le tre tragedie aprivano un altro versante, quello attraverso cui la catastrofe rovesciava l’abituale visione dell’esistente, senza una soluzione o una certezza morale. La conclusione era la sconfitta dell’eroe che destituiva ogni vittoria, la sua condanna era anche la sua redenzione. Le forze morali in campo erano bloccate nel ghigno sorridente e pietrificato di Gorgone. La risata della Commedia consentiva di uscire dal teatro sani e salvi, camminando però su una sottile lastra di ghiaccio. Sotto, l’abisso.

K: Abbiamo dedicato un numero precedente a Lucrezio, “Natura senza fondamento”. Per noi, lo straordinario “De rerum natura” di Lucrezio non porta sulla “Natura”: per lui non c’è la “natura”, ma ci sono solo le “cose di natura”. La filosofia di Lucrezio, per riprendere Clément Rosset, è precisamente un pensiero dell’“anti-nature”. Potremmo dire, allo stesso modo, che il palcoscenico – spazio separato, staccato dal mondo – è anche un’anti-natura?

R. C.: Su un palco ogni cosa è possibile perché tutto è sbagliato. L’errore regna fin da subito, ancora prima di creare. Allora posso osare un gesto, evocare una immagine. Le leggi fisiche barcollano, il significato del tempo vacilla, lo spazio euclideo confutato per sempre. L’apertura del sipario è una palingenesi che inaugura un nuovo tempo e un nuovo spazio, nuove leggi di una natura che si dà qui per la prima volta. Fare il teatro significa disfare mondi, come l’asina mitologica di Ocno che divora la corda.

K: A questo proposito ci viene in mente il cantiere che stiamo aprendo per il nostro prossimo numero. Lavoreremo intorno alla figura di Malevič, la cui opera pittorica si propone proprio di “disfare mondi”. Per andare velocemente, Malevič è il nome della distruzione della rappresentazione.

R. C.: Il grande Malevič fa sua l’idea aniconica della tradizione ebraica – a mio avviso, in questo senso, non è precisamente un iconoclasta – che per par/adosso trova il proprio modello nell’iconografia bizantina. Malevič accelera la forma dell’icona russa verso il rigore aniconico del deserto mosaico. Il pieno che dipinge è un vuoto teologico. Non c’è più una figura da rappresentare perché ciò che appare è una soglia, un roveto ardente. Malevič prepara la via a un altro Mosè della pittura: Rothko.

K: Al centro del progetto formativo che hai realizzato alla Triennale di Milano nell’autunno 2021, hai posto un verbo “Nascondere”, a priori antitetico al dispositivo teatrale. Le poche frasi programmatiche ci sembrano delineare un progetto estetico (e politico) assolutamente affascinante, per noi che stiamo lavorando sul “destituente” (“nascondere ciò che si vuole esprimere/come creare a partire dal terrore del nulla/come creare a partire dal terrore di qualcosa/come creare un oggetto che non esiste tra due oggetti che esistono/come immaginare il tempo, inteso come argilla/come fare la cosa sbagliata, giustamente/come perdere il linguaggio”). Potresti parlarcene un poco per concludere la nostra conversazione?

R. C.: Queste giornate erano concentrate intorno al verbo “nascondere” il quale, se assunto e svolto rigorosamente, offre la possibilità ellittica di lavorare sulla sottrazione di informazione. Fare dei buchi. Costruirli. Lo spettacolo è solo una scusa. Ciò che opera è la mancanza della cosa. Lo spettacolo prepara l’eclissi dello spettacolo. Si ingorga in una manovra che scavalca i contenuti. I contenuti ci sono, ma sono solo un’esca.

Se è vero - come è vero - che l’arte del teatro è l’arte del contatto, allora toccare il corpo dello spettatore diventa essenziale. Ma ecco che si tocca il corpo dello spettatore solo se c’è uno spazio reale, uno spazio per l’avanzamento drammatico verso di esso. È una manovra, un principio di movimento. Questo spazio aperto sullo spettatore risuona come un appello in grado di pronunciare il tuo nome. È per questa ragione che ci si sente visti da ciò che si sta vedendo. Posso dire che quando entro nella sala di un teatro sono visto, vedo il verbo vedere.

K: Per finire davvero, e per cercare di riassumere nei limiti del possibile. Abbiamo parlato della destituzione del personaggio, di quella del soggetto, della contestazione delle leggi civiche, del nascondimento dello spettatore, ma cosa possiamo dire dell’autore?

R. C.: L’autore deve eclissarsi nella propria opera. Nella mistica ebraica c’è la parola tzimtzum che esprime il movimento del ritrarsi di Dio dalla sua creazione per dare spazio alla creatura. Se l’autore si impossessasse dell’opera sarebbe difficile, o forse impossibile, dare spazio all’altro, fare semplicemente accadere qualcosa.

K: Ma cosa succede con questa scomparsa durante il processo di creazione? All’inizio della nostra conversazione, dicevi che le forme sceniche che proponi sono necessariamente precise, controllate, padroneggiate. Come articoli questa scomparsa dell’autore con la questione della tecnica che si pone necessariamente nei tuoi spettacoli. In altri termini, ti consideri un regista?

R. C.: Alla definizione di regista preferisco il termine francese, più passivo: “metteur en scène”.

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Référence électronique

Romeo Castellucci, Stéphane Hervé, Fanny Eouzan et Luca Salza, « “Il potere destituente del teatro” », K [En ligne], 8 | 2022, mis en ligne le 01 juin 2022, consulté le 18 mars 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1002

Auteurs

Romeo Castellucci

Stéphane Hervé

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