K.: Il corpo di Jane Avril, così come appare nei quadri di Toulouse-Lautrec, sembra smembrato, disorganizzato, come un’anticipazione delle grandi scomposizioni che avverranno con i costumi di Malevic in Vittoria sul sole, di Picasso in Parade o nelle danze astratte di Schlemmer. Nei vostri spettacoli, a partire da à elle vide e Kin Keen King che abbiamo visto a Marsiglia, la figura umana sembra essere scomparsa, sostituita da figure animali o fantasmatiche, lontani echi di cartoni animati o manga (in Marzo). Più recentemente, in Le Sacre du Printemps, queste stesse figure si dissolvono in flussi tessili senza corpo di diversi colori. In breve, vorremmo chiedervi del soggetto della danza. O più precisamente, visto che “soggetto” sembra già problematico: cos’è che danza? Mentre per molti coreografi e pensatori la danza è essenzialmente legata al corpo, voi sembrate sciogliere questo legame e sognare una danza al di là del corpo.
Dewey Dell: Nel nostro lavoro si è evoluta una controparte alla coreografia del corpo che chiamiamo la danza dell’informe. Ci sono macchie, masse, contorni, volumi, costumi che coprono chi danza forzando una biomeccanica diversa da quella umana, portano in scena un corpo percepito ma non conosciuto, in continua evoluzione.
Informale non significa non avere una forma ma che la forma che si manifesta non riesce ad essere ricondotta a nulla di già conosciuto. Sono corpi che non somigliano a nulla. Nei dipinti di Toulouse-Lautrec raffiguranti Jane Avril che danza troviamo l’informale nello svolazzare delle vesti bianche o colorate, che come nubi vaporose circondano le gambe sferzanti della danzatrice rendendo quel gesto ancora più incisivo, uno sfondamento.
L’occhio umano viene messo a nudo quando si confronta con qualcosa di informe. L’essere umano infatti intuisce e prevede più di quanto veda e l’informe annulla la presa mentale sulla visione, lasciando l’occhio orfano di qualsiasi sapienza, nel baratro siderale di un nuovo inizio. In tale ottica primordiale l’informale ha un potere pensante, è un’immagine che più che mostrarsi si fa pensare.
A volte accade, come per raro incanto, di guardare l’informe e di riconoscere, per un istante brevissimo, qualcosa di vagamente famigliare, come una eco di una somiglianza già incontrata nella propria esistenza. Anche se fugace e fulmineo, il riconoscimento diventa una seduzione profondissima. È l’informale che ha preso chi guarda e non il contrario, è l’informale che ha riconosciuto lo spettatore. Lo sguardo si rovescia.
La danza in realtà ha un potere informale anche quando è formalmente riconoscibile. Un corpo, con la sua energia in atto, è tanto forte da alterare più profondamente la natura delle cose, più che l’intelletto con i suoi sogni o immaginazioni. Il movimento stesso è la trasfigurazione di ciò che è pensato come dato, senza segreti. La danza rimette in discussione il corpo riaprendo il mistero del proprio confine, della forma, dell’individuazione: è la forma di libertà più assoluta.
Il corpo che danza evade incessabilmente da se stesso, divorato da una cascata di figure, con slanci fuori dalla propria forma.
K.: Un altro punto che ci ha occupato molto nella preparazione di questo numero è lo spazio della danza. Dove si produce la danza? I vostri spettacoli prevedono spazi diversi e astratti: se la nostra memoria non ci inganna, il nero assoluto di à elle vide, la luce intensa e senza profondità di Marzo, di I’ll do, I’ll do, I’ll do, il cerchio o la caverna del Sacre. Infatti, questi spazi più o meno immateriali o primordiali sono animati da vibrazioni o suoni percussivi. Qual è il sito della danza? Ha un luogo?
D.D.: Nei nostri lavori la realtà del mondo non è mai assunta come vera. Vale a dire che nessuno spettacolo è ambientato in una realtà riconoscibile, proprio perché lo stesso assolutismo della realtà viene messo in discussione.
L’ambiente è un altrove sospeso o un luogo in grado di essere moltitudine di luoghi diversi al tempo stesso. La caverna del Sacre per esempio è una crisalide, un nido di ragno, una caverna, una cassa toracica e una cripta. Il sito della danza deve essere in grado di accogliere la continua, mostruosa trasformazione delle forme in movimento, lo spazio eleva, rilancia e completa l’azione e il montaggio degli elementi. È lo spazio che partorisce l’azione, ed essa può vivere solo in quel grembo.
K.: Molti filosofi, come Jean-Luc Nancy, hanno pensato alla danza in relazione alla nascita o all’imminenza: la danza rimette costantemente in scena la nascita del gesto, o dispiega un movimento anteriore al senso, che non è ancora senso, come pura medialità, un mezzo senza fine, per dirla con Agamben. Invece voi mettete in relazione la danza con la morte, con la dissoluzione. Potreste tornare su questo intreccio tra morte e danza? In riferimento a Jane Avril questo punto ci interessa molto perché la sua immagine rinvia spesso a quella di uno spettro, pensiamo ancora ai ritratti di Toulouse-Lautrec, che la dipinge bianchissima, scheletrica, senza corpo forse…
D.D.: Le carcasse che pullulano di vita sono una prova schiacciante di come la morte sia una via d’accesso alla trasformazione. La morte è la soglia di un nuovo ordine, un rimescolamento delle parti votato a formarsi. Senza morte e smembramento, non è possibile ricostruirsi. La danza ha un legame fortissimo con la morte perché è proprio nel movimento del corpo che si percepisce la potenza del vitale e al contempo la possibilità di trascenderlo. La danza in questo senso è come la morte.
La danza ha trovato l’esistenza di Jane Avril, e la sua danza è profondamente legata alla morte, perché attraverso di essa è possibile ripensarsi, ogni sera, prima e durante lo spettacolo. La serietà di Jane Avril, come appare nei dipinti di Toulouse-Lautrec, stride con l’umore della musica e del ballo delle serate al Moulin Rouge, ma in realtà quella seria assenza prova la sua fisica connessione al profondo rimescolamento mortale e quindi, forse, alla dedizione assoluta per l’unica vita possibile.
K.: Jane Avril ci ha interessato anche per le sue potenze mimetiche, che rimettono in scena performance isteriche e scene di possessione, ridotte a simulacri puramente spettacolari. Questa mimesis ci sembrava un gesto di indigenza, di sottrazione all’autorità del grande Altro. Eppure, la danza contemporanea ci sembra reintrodurre questa alterità utilizzando la possessione come mezzo figurativo per esprimere l’alienazione dei corpi o rivelare l’altra faccia della norma. Tuttavia, voi sembrate opporre alla possessione l’estasi, almeno in I’ll do, I’ll do, I’ll do. In questa performance, il corpo scompare nel nulla in espansione, dissolvendosi nel nero. Potreste tornare sulla questione dell’estasi, che sembra fare del vuoto e dell’informe l’origine impossibile o la finalità della danza, in altre parole, che testimonia la sua mancanza di fondamento?
D.D.: Nonostante l’uomo sia sulla terra da oltre 100.000 anni, e tutti i gesti umani comporrebbero l’epopea umana più completa di ogni storia, non esiste una archeologia del gesto. Il gesto si perde sempre. Possiamo ricostruire alcune scene primitive all’interno delle caverne, o alcuni atti del crimine, ma il gesto rimane sostanzialmente qualcosa di effimero.
La danza squarcia questa dinamica: vuole fare dell’effimero una vera e propria materia. Assente di fatto, ricordata e sempre diversa. La danza vive della e nella propria mancanza. Mentre si compie inesorabilmente si perde. Come una fiamma che vive su quello che brucia per sempre.
Solo gli occhi di qualcuno che è fuori possono liberare il gesto da sé stesso. La danza vive dentro e fuori di sé. La danza che esiste solo per se stessa, che non cerca il confronto con il fuori, è una danza abissale, che può essere solo quello che fa. Non gli interessa altro al di fuori di sé e non gli importa di essere vista o ricordata o associata a un infinito aperto.
Per questo l’Altro, il pubblico, ha un ruolo fondamentale con il suo sguardo; perché produce memoria sul gesto che non esiste più, mantenendolo presente. Non solo, lo sguardo dell’Altro permette alla danza di amplificare la sua relazione con l’imprevedibile, l’inaspettato, il nascosto.
La vista della danza scatena nell’Altro un susseguirsi di immagini, ricordi, idee in continua trasformazione, immagini pensanti. Bagliori scatenanti. La danza vive di queste immagini, si gonfia e si smembra attraversata da queste idee esterne.