Nous travaillons ensemble pour quelque chose qui nous réunit au-delà des blasphèmes et des prières. Cela seul est important.
(Albert Camus)
Il valore esemplare del modello lucreziano non è solo evidente nell’opera di Calvino, è rivendicato e sottende anche diversi passi del suo ultimo lavoro, quelle Lezioni americane mai tenute nelle quali espone i punti cardine della propria visione della letteratura. Ritroviamo Lucrezio sin dalle prime pagine delle Lezioni, e anche in conclusione. In quello che Manganelli definirà come un vero e proprio De litterarum natura (Manganelli, 1997, p. 86), densissimo di riferimenti e citazioni, Lucrezio appare come l’autore più citato dopo Dante e Leopardi. Tra i cinque principi della letteratura presentati come i valori da difendere nel prossimo millennio, quattro saranno così illustrati dal poema di Lucrezio – leggerezza, rapidità, esattezza e molteplicità – ed egli sarà anche l’ultimo autore evocato da Calvino in chiusura del libro, nell’illustrare “la risposta che [gli] sta più a cuore dare”:
far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…
Non era forse questo il punto d’arrivo cui tendeva Ovidio nel raccontare la continuità delle forme, il punto d’arrivo cui tendeva Lucrezio nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose? (Calvino, 1993, p. 135).
1. Far parlare le cose
Nello stesso periodo dell’elaborazione delle Lezioni, Calvino rivela in una lettera all’editore Piero Gelli l’influenza del De rerum natura su un lavoro iniziato più di vent’anni prima: la scrittura delle Cosmicomiche, mai interrotta sin dall’uscita dei primi racconti nel 1964, e la successiva loro pubblicazione secondo vari agencements in volumi più volte ripensati. Il progetto iniziale era stato di “dare all’insieme delle Cosmicomiche un’organicità lucreziana” e di costituire “una specie di summa cosmologica” (Calvino, 2000, p. 1519) – o, per dirla con Lucrezio, un “sistema che penetra l’essenza stessa dei cieli e degli dei” e che rivela “i principi delle cose1” (Lucrezio, 1966, trad. del redattore, I, vv. 54-55, p. 4).
Parlare delle cose, e dalle cose non allontanarsi mai. Se l’intento di Lucrezio è di rivelare l’invisibile, spiegare ciò che è difficilmente apprensibile, non evidente, nascosto, la sua attenzione non si discosta mai da ciò che è visibile. La scrittura lucreziana procede come perfetta aderenza tra visibile e invisibile, noto e ignoto, semplice e complicato. Fa ricorso a tutti i livelli del sapere a sua disposizione e li organizza, spaziando tra discipline ancora inesistenti, dalla fisica atomica alla cosmologia, dalla medicina alla sociologia. È l’organicità di cui parla Calvino, il quale fa riferimento tanto alla struttura del poema che alla sua prospettiva di esposizione: non esistono gerarchie nel De rerum natura. Lucrezio dedica la medesima attenzione alle particelle elementari e ai sogni umani, esamina con altrettanto rigore e minuzia le qualità delle pietre e dei fenomeni meteorologici che quelle dei corpi umani. Se il testo è rigorosamente strutturato, ed ogni sua parte, annunciata, le scale spaziali dei fenomeni descritti si articolano in un’unica visione del mondo, una descrizione della natura che si vuole totalizzante, ma sempre a partire dalle cose che la compongono. In Lucrezio, la struttura molecolare dei corpi non esiste indipendentemente dai corpi, dai paesaggi, e dagli animali che occupano questi paesaggi:
Ora qual velocità sia data ai corpi della materia,
in poche parole da ciò si può riconoscere, o Memmio.
Anzitutto: quando l’aurora di luce nuova cosparge le terre
e schiere di uccelli, misurando a volo boschi solinghi,
attraverso la morbida aria riempiono i luoghi di voci argentine
– come d’improvviso salga il sole, sorto in quell’istante,
a rivestire ogni cosa della sua luce
avvertiamo che è a tutti noto e appare evidente (Lucrezio, 1992, II, vv. 142-149, p. 97).
Non senza analogie con il procedimento di descrizione della natura messo in atto da Lucrezio, Calvino sceglie, nelle Cosmicomiche, di illustrare teorie scientifiche complesse – spesso attinenti alla formazione dell’universo – partendo da situazioni triviali e da oggetti del quotidiano2. Possiamo anche emettere l’ipotesi che, in molti di questi racconti ambientati nel cosmo, la potenza comica – grottesca3 – che li caratterizza nasca precisamente da una forma di condensazione del modello di esposizione lucreziano, una condensazione esagerata che conduce all’inverosimiglianza. Insomma, alla coerenza dei molteplici livelli di analisi propria del modello lucreziano, Calvino sembra rispondere con un uso sistematicamente incongruo della giustapposizione. Così, non sono più gli atomi ad essere presentati nelle loro evoluzioni nel vuoto, bensì direttamente i personaggi. In Giochi senza fine, per esempio, i due protagonisti giocano a biglie con atomi d’idrogeno, in un universo in cui non hanno nient’altro a disposizione. Gli atomi, le particelle e i loro vortici andranno a costituire elementi chiave dell’imaginario calviniano – con un chiaro riferimento a Lucrezio4 – integrando anche discorsi saggistici, ma nelle Cosmicomiche diverranno cruciali, onnipresenti e parte integrante della diegesi: “Quando cominciammo a scommettere non c’era ancora niente che potesse far prevedere niente, tranne un po’ di particelle che giravano, elettroni buttati in qua e in là come vien viene, e protoni su e giù ciascuno per suo conto” (Calvino, 1997, p. 82).
Con le Cosmicomiche Calvino fonda pertanto un modello letterario originale – con l’integrazione al testo di descrizioni introduttive appartenenti al registro scientifico5 – di ispirazione lucreziana6, eppure sostanzialmente diverso, poiché laddove Lucrezio, nell’intento di rivelare i segreti della natura, sceglie il mezzo della poesia, Calvino opta invece per la narrazione – anzi, il pensare raccontando7 – ispirandosi dichiaratamente ai meccanismi propri a due generi letterari: da un lato, i racconti mitologici, e dall’altro, le fiabe, sulle quali ha lavorato a lungo durante l’elaborazione del volume delle Fiabe italiane, pubblicato nel 1957.
Da Lucrezio a Calvino avverrà peraltro uno slittamento della funzione dell’assioma scientifico che, da verità da svelare, diverrà spunto narrativo, stimolo dell’immaginazione – anche se la base scientifica del discorso di entrambi rimane un tratto comune essenziale. “Scienziato-poeta” (Calvino, 1995d, p. 1135), Lucrezio rappresenta pertanto un “modello operativo”, più che una vera e propria fonte delle Cosmicomiche (Scarpa, 2011, p. 236).
2. Per una scrittura cosmica
Il funzionamento del poema lucreziano influenza Calvino a vari livelli, ovvero non solo per quanto riguarda le cose di cui si parla – la tematica, le questioni esaminate –, o il fatto di parlare di cose – scelta poetica cruciale –, ma anche per le sue modalità espressive e per il senso che acquisisce la scrittura di Lucrezio in sé, ovvero la portata metaforica, simbolica della scrittura, carica di risonanze filosofiche, e perfino politiche, derivanti da scelte in apparenza meramente linguistiche, o discorsive.
Tanto in Lucrezio quanto in Ovidio la leggerezza è un modo di vedere il mondo che si fonda sulla filosofia e sulla scienza: le dottrine di Epicuro per Lucrezio, le dottrine di Pitagora per Ovidio […]. Ma in entrambi i casi la leggerezza è qualcosa che si crea nella scrittura, con i mezzi linguistici che sono quelli del poeta, indipendentemente dalla dottrina del filosofo che il poeta dichiara di voler seguire (Calvino, 1993, pp. 14-15).
Calvino vede all’opera in Lucrezio una scrittura della dissoluzione, ovvero “la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo” (p. 13), la definisce così non solo in quanto essa rende percettibile, descrivendo la composizione delle cose, “ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero” (ib.), bensì anche nella misura in cui il linguaggio adoperato è esso stesso “un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube” (ib.). L’idea tornerà in Esattezza, in cui Calvino definisce Francis Ponge “il Lucrezio del tempo nostro” precisamente per la sua capacità a ricostruire “la fisicità del mondo attraverso l’impalpabile pulviscolo delle parole8”. Conciliare la pesantezza del mondo non scritto, la sua molteplicità intricata, e l’essenzialità, la leggerezza della scrittura costituisce un’ossessione per Calvino, il quale non cesserà mai di affrontare e rappresentare la questione, nei testi teorici come nei racconti di diverso genere, fino alla conclusione di Palomar e delle Lezioni americane.
Calvino crede quindi in una potenza rivelatrice e conoscitiva della scrittura strettamente dipendente dalle sue qualità, che tenterà di mettere in atto in modo sempre più determinato col passare degli anni, concentrandosi sull’esplorazione delle possibilità espressive del non detto, per una poetica concepita in quanto mezzo più efficace di ogni affermazione, più ricco e sottile di ogni discorso esplicito. Una fiducia nella potenzialità e nella forza delle parole simile a quella espressa da Lucrezio, il quale decide di scrivere un poema in lingua latina per esporre al meglio le teorie di Epicuro:
il tuo valore, tuttavia, e il piacere sperato
d’amicizia soave, qualunque fatica m’induce
a sopportarla, a vegliare le notti serene, ricercando con quali parole, con quale poesia, appunto,
possa io diffonderti innanzi alla mente luci splendenti,
e per esse tu possa vedere a fondo le cose nascoste (Lucrezio, 1992, I, vv. 140-145, p. 13).
I principi che Calvino cerca di mettere in atto nella scrittura sono precisamente quelli riconosciuti in Lucrezio, il quale “vedeva nella combinatoria dell’alfabeto il modello dell’impalpabile struttura atomica della materia” (Calvino, 1993, p. 52). La “scrittura come metafora della sostanza pulviscolare del mondo” (p. 32), ma anche, lo vedremo, metafora del vuoto che lo costituisce, diviene nelle pagine calviniane simile a quella di Lucrezio in quanto si tratta di una scrittura cosmica, che intende non solo scrivere e descrivere l’universo ma anche riprenderne nella forma stessa alcuni principi fondatori. Non ricalca la realtà, bensì racconta la creazione utilizzando le sue forze motrici. Non si accontenta di spiegare la molteplicità e il vuoto, ma li utilizza.
In questa prospettiva, Lucrezio e Calvino rappresentano gli estremi di una tradizione neolatina più volte evocata da Calvino stesso, formata dagli autori a lui più cari:
possiamo segnare una linea Ariosto-Galileo-Leopardi come una delle più importanti linee di forza della nostra letteratura […]. Questa è una vocazione profonda della letteratura italiana che passa da Dante a Galileo: l’opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile, lo scrivere mosso da una spinta conoscitiva che è ora teologica ora speculativa ora stregonesca ora enciclopedica ora di filosofia naturale ora di osservazione trasfigurante e visionaria. […] ora forse è venuto il momento di riprenderla (Calvino, 1995b, pp. 232-233).
3. La chute
Calvino ricorda l’importanza cruciale del vuoto nel poema lucreziano, nel quale è “altrettanto concreto che i corpi solidi” (Calvino, 1993, p. 13). La concretezza di ciò che solitamente non vediamo o non percepiamo attraverso altri sensi costituisce una leva espressiva caratteristica delle Cosmicomiche, dove, l’abbiamo visto, i protagonisti giocano con atomi, scommettono su molecole, ovvero sentono sulla propria pelle il contatto degli elementi impalpabili della materia ai quali è consacrato il discorso di Lucrezio. Mentre egli si dà per compito di svelare l’esistenza, i rapporti, i moti dei corpi primi, la cui “natura […] si trova infatti molto al di sotto della forza dei nostri sensi” (Lucrezio, 1992, II, vv. 312-313, p. 107), in Calvino “tutto questo vorticare di particelle non aveva altro effetto che un prurito fastidioso” (Calvino, 1997, pp. 97-98). D’altro canto, se uno dei principi fondatori del De rerum natura consiste nel conferire pari importanza e valore all’esistenza di ogni cosa – compresi gli esseri umani – Calvino applica ad litteram questa visione dell’universo, immergendo direttamente i personaggi cosmicomici in mezzo all’“eterno/agitarsi degli elementi primordiali delle cose nell’immenso vuoto” (Lucrezio, 1994, II, vv. 121-122, p. 167) o facendone esseri unicellulari di cui racconta dettagliatamente le evoluzioni, come in Mitosi. Ovvero laddove la parità di valore, l’uguaglianza tra le cose è stabilita da Lucrezio dal discorso e dalla sua strutturazione, in Calvino è espressa dalla concretezza delle situazioni.
Allo stesso modo, l’assoluta necessità del vuoto, sulla quale insiste a lungo Lucrezio, diventa nelle Cosmicomiche evidente tramite la narrazione: i personaggi abitano il vuoto, lo vivono, lo concepiscono continuamente. Il vuoto è un elemento del quotidiano, famigliare quanto qualsiasi parte del paesaggio, qualsiasi ambiente naturale, come nel racconto La forma dello spazio: “Cadere nel vuoto come cadevo io, nessuno di voi sa cosa vuol dire” (Calvino, 1997, p. 110).
In caduta libera nel vuoto, i tre protagonisti del racconto sembrano illustrare perfettamente alcuni punti dell’esposizione lucreziana sul movimento dei corpuscoli, sperimentando e narrando in prima persona “quale mobilità sia loro data nello spostarsi per il grande vuoto” (Lucrezio, 1994, II, v. 65, p. 163). Nonostante il paragrafo introduttivo, nel quale annuncia ispirarsi alle teorie che mettono in relazione la curvatura dello spazio e la distribuzione della materia, Calvino scrive una trama che potrebbe avere per incipit alcuni versi di Lucrezio:
molti [atomi] errano nel grande vuoto,
che, respinti dall’aggregarsi delle cose, in alcun luogo
sian riuscite, trovando accoglienza, a trovare un armonico moto […] (Lucrezio, 1992, II, vv. 108-111, p. 95).
Gli atomi di Lucrezio diventano personaggi in Calvino, e le leggi della fisica che regolavano i movimenti dei corpuscoli, principi che determinano la condizione umana. Echi lucreziani decisivi punteggiano, e condizionano, la narrazione: riflessioni sul senso della caduta – verso l’alto o verso il basso –, sulla sua traiettoria, perfettamente rettilinea (in apparenza, poiché la curvatura dello spazio entrerà in gioco in un secondo tempo).
Si cadeva così, indefinitamente, per un tempo indefinito. […] Ripensandoci non c’erano prove nemmeno che stessi veramente cadendo: magari […] mi muovevo in senso ascendente […]. Ammesso dunque che si cadesse, si cadeva tutti con la stessa velocità senza sbalzi […] non c’erano incontri possibili tra noi, perché le nostre cadute erano parallele […] (Calvino, 1997, pp. 110-111).
Ritroviamo soprattutto la questione cruciale della possibilità, o meno, di cambiare traiettoria, ovvero la questione del libero arbitrio, dell’incidenza della volontà sullo svolgersi della propria esistenza, per tre personaggi la cui condizione si riassume ad una caduta infinita nel vuoto. In altre parole, Qfwfq, irresistibilmente attratto dalla seducente ma inaccessibile Ursula H’x, spera con tutto se stesso in un clinamen che potrebbe sviare l’una o l’altra delle loro traiettorie. O meglio, spera che il clinamen già inerente alle loro traiettorie rispettive le conduca prima o poi ad incontrarsi: “Vi dirò che un incontro delle nostre parallele io l’avevo tanto sognato, in tutti i suoi particolari, che esso faceva ormai parte della mia esperienza come se l’avessi già vissuto” (Calvino, 1997, p. 112). E come in Lucrezio, l’incontro degli atomi – o meglio, il loro scontro – è per Calvino la condizione sine qua non dell’aggregazione dei corpi, un’aggregazione descritta seguendo i principi del modello lucreziano, ovvero spaziando tra fisica ed eros:
ed ecco che la linea invisibile che percorrevo io e quella che lei percorreva sarebbero diventate una sola linea, occupata da una mescolanza di lei e di me dove quanto di lei era morbido e segreto veniva penetrato, anzi, avvolgeva e quasi direi risucchiava quanto di me con più tensione era andato fin lì soffrendo d’essere solo e separato e asciutto (ib.).
Tornando ai versi di Lucrezio che descrivono la declinazione atomica e le sue conseguenze, ritroviamo molti tra gli elementi appena evocati, sviluppati, e quasi dispiegati, dal racconto calviniano:
i corpi primi, quando sono tratti nel vuoto verso il basso in linea retta
dal peso che loro appartiene, in tempo assolutamente indeterminato,
e in luoghi indeterminati declinano un po’ dal percorso,
tanto quanto basta a dire che il moto è stato cambiato. (Lucrezio, 1992, II, vv. 217-220, p. 101)
donde viene, ti dico, nel mondo per gli esseri vivi
la volontà, indipendente dal destino, libera,
per cui ci muoviamo là, dove guida ciascuno il piacere […]. (II, vv. 256-258, p. 105)
Si tratta a nostro avviso di echi lucreziani di cui Calvino era consapevole, in quanto egli sintetizza così la teoria del clinamen proposta dal poeta: “Al momento di stabilire le rigorose leggi meccaniche che determinano ogni evento, egli sente il bisogno di permettere agli atomi delle deviazioni imprevedibili dalla linea retta, tali da garantire la libertà tanto alla materia quanto agli esseri umani” (Calvino, 1993, p. 13). D’altro canto, se la volontà è per Lucrezio “libera”, nondimeno è guidata – come nei racconti calviniani – dal piacere e dal cuore, e da essa poi “si diramano i moti attraverso le membra” (Lucrezio, 1992, II, v. 262, p. 105):
così vedi che la spinta del moto è creata dal cuore,
e che dal volere dell’animo si genera questo impulso,
e da qui si diffonde per tutto il corpo e le membra.
[…] Or ti avvedi, che sebbene una forza da fuori molti uomini
spinga e contro volere li costringa spesso ad avanzare,
e a venir trascinati a precipizio, tuttavia c’è nel nostro cuore
qualcosa che può combattere, e far resistenza? (II, vv. 274-280, p. 105)
4. Verso il vuoto
La necessità del vuoto formulata e ripetuta in diversi luoghi del poema lucreziano trova una risonanza particolarmente feconda nell’insieme dell’opera di Calvino, di cui diviene a nostro avviso uno dei principi strutturanti: l’affermazione in Lucrezio dell’esistenza del vuoto (I, v. 335), della sua esistenza in quanto luogo, ovvero spazio libero nel quale le cose possono esistere (I, vv. 420-421; I, v. 439), anzi nel quale necessariamente ogni cosa o evento esiste (I, v. 505; I, vv. 532-535) e senza il quale nulla potrebbe avvenire, ma anche l’insistenza quanto all’esistenza del vuoto nelle cose (I, v. 330; I, v. 399), corrispondono a riflessioni onnipresenti nei racconti come nei testi saggistici dell’autore ligure, in modo sempre più evidente col passare degli anni. Un movimento ricorrente legato al vuoto ci sembra in particolare, tra tutti, rivelatore dei meccanismi del pensiero calviniano: mentre molti racconti cosmicomici sono ambientati nel vuoto o in uno spazio rarefatto, altri testi illustrano invece uno svuotamento in atto, un divenire vuoto che si estende a ogni cosa, fino alle più estreme conseguenze, come in questo brano dove si apre inaspettatamente un “abisso vuoto”:
Ci guardammo intorno […] uno dei caffè di via Veneto, a Roma, la strada che è diventata famosa per la «dolce vita» internazionale, e dove tutto sa di imbecillità e di noia, luogo dove s’intrecciano gli scandali brillanti e tutto invece sembra insapore e lontano dai sensi, come un limbo innocente e funereo, un paese dei morti, dai colori illusoriamente allegri. Parlavamo della tragedia e della felicità, e intorno avevamo questo scenario di finta gioia del vivere, di finta eccitazione, di finta ricchezza; un fiume d’auto immobilizzate […] in un concerto di clackson, le donne più belle del mondo andavano incontro ad amori stolti, le vetrine esponevano merci inutilmente perfette.
Sotto di noi si spalancava un abisso vuoto9 (Calvino, 1995a, pp. 84-85).
I percorsi verso il vuoto nascono spesso in Calvino da situazioni in cui si esprime con maggiore intensità la molteplicità vertiginosa del mondo, quasi come se il vuoto si manifestasse in quanto conseguenza del raggiungimento del livello di massima entropia del sistema (sistema-mondo, situazione, sistema-libro) preso in esame10. Nel Dialogo di due scrittori in crisi appena citato, il vuoto nasce e sembra quasi generato dall’agitarsi variegato e superficiale della vita romana – disordine molecolare –, la cui frivolezza rumorosa non basta a coprire la propria essenza cava, vuota. In modo simile, nell’ultimo racconto di Se una notte d’inverno un viaggiatore, pubblicato nel 1979, si assiste all’annullamento della molteplicità d’elementi che compongono la città. Lo scopo del protagonista, ancora una volta, è quello di poter incontrare la donna da cui è attratto, e la forza del desiderio si fa forza motrice di ogni evento del racconto, dotata di potenzialità infinite. Preoccupato dinanzi alla confusione degli elementi che riempiono la città dagli accenti gogoliani in cui si trova, e che potrebbero ostacolare l’incontro che lo ossessiona, decide di sopprimere ogni interferenza visiva, persona o cosa, intorno a sé. Fino ad eliminare proprio tutto:
Camminando per la grande Prospettiva della nostra città, cancello mentalmente gli elementi che ho deciso di non prendere in considerazione. Passo accanto al palazzo d’un ministero […]: decido di abolirlo completamente; al suo posto un cielo lattiginoso si leva sulla terra nuda. […]
La natura… Ah, ah, non crediate che non abbia capito che anche questa della natura è una bella impostura: muoia! Basta che resti uno strato di crosta terrestre abbastanza solida sotto i piedi e il vuoto da tutte le altre parti. […] Eccomi dunque a percorrere questa superficie vuota che è il mondo. […] in basso non vedo alcun fondo ma solo il nulla che continua giù all’infinito; corro su pezzi di mondo sparpagliati nel vuoto […] (Calvino, 1994d, pp. 854-861).
Un altro passo fondamentale per capire questo processo mentale appariva già sette anni prima, nel 1972, nelle Città invisibili. Le conseguenze di questo ragionamento in narrazione saranno cruciali, e paradigmatiche dell’uso calviniano del vuoto: “A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Kublai era arrivato all’operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato: il nulla…” (p. 462). La molteplicità di città, paesaggi, tempi, stagioni, delle loro qualità, “infinite difformità e disarmonie”, di modelli e sistemi concepiti per comprenderle e dirle, di giochi, possibilità, movimenti, i “multiformi tesori dell’impero” e le loro dimensioni illusorie – ovvero tutto ciò che ha tentato di scrivere Calvino fino a questo punto del libro – è, o nasconde, il nulla, o su di esso sfocia. Non più il vuoto, assenza di materia, ma il nulla, ovvero il non essere – ricordo forse leopardiano – dalle implicazioni ben più angoscianti. Ma è un nulla calviniano, ovvero con i puntini di sospensione.
Si tratta, per Calvino come per Lucrezio – e questo punto è fondamentale – di “contemplare ogni cosa con mente serena” (Lucrezio, 1992, V, v. 1203, p. 409), compreso il vuoto. Scostarsi da tutto ciò che è tristezza e che, in quanto tale, esercita un potere (Deleuze, 1969, p. 323). Occorre pertanto chiederci, con Calvino e Lucrezio: perché il vuoto sarebbe negativo? Entrambi affermano invece la necessità del vuoto, e lo fanno, ancora una volta, sfruttando la potenza simbolica del narrare.
5. Cosmogonie
In Se una notte d’inverno un viaggiatore, l’autore stesso, ovvero il punto originario della narrazione, diviene vuoto: “L’autore era un punto invisibile da cui venivano i libri, un vuoto percorso da fantasmi, un tunnel sotterraneo che metteva in comunicazione gli altri mondi col pollaio della sua infanzia” (Calvino, 1994d, p. 709).
Il vuoto calviniano si dispiega spesso sotto i piedi delle persone, come un abisso: è un vuoto onnipresente, nascosto sotto le cose, intrinseco alle cose, un vuoto che appartiene a ciò che esiste e che si manifesta talvolta in modo più evidente. L’immagine del vuoto presente al di sotto delle costruzioni umane è per esempio ricorrente nelle Città invisibili, dove è costitutivo del modello immaginario delle città, fatto di pesantezza in leggerezza (pensiamo all’illustrazione scelta per la copertina della prima edizione del volume, Il castello dei Pirenei di René Magritte, che rappresenta una pietra enorme sospesa nel vuoto, sulla quale sorge una piccola città).
Se i movimenti di annullamento, di svuotamento, s’iscrivono pienamente nella poetica calviniana, non si tratta mai di processi irreversibili né definitivi. Dalla scomparsa delle cose, e perfino delle illusioni, nasce uno spazio di libertà sul quale è possibile costruire ex novo. E lo illustra perfettamente il libro calviniano che più di tutti sfrutta le regole della combinatoria, Il castello dei destini incrociati:
– Il mondo non esiste, – Faust conclude quando il pendolo raggiunge l’altro estremo, – non c’è un tutto dato tutto in una volta: c’è un numero finito d’elementi le cui combinazioni si moltiplicano a miliardi di miliardi, e di queste solo poche trovano una forma e un senso e s’impongono in mezzo a un pulviscolo senza senso e senza forma […].
Mentre questa sarebbe la conclusione (sempre provvisoria) di Parsifal: – Il nocciolo del mondo è vuoto, il principio di ciò che si muove nell’universo è lo spazio del niente, attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è, in fondo al gral c’è il tao, – e indica il rettangolo vuoto circondato dai tarocchi. (Calvino, 1994a, p. 589).
L’immagine cartografica del libro, ovvero l’ordine delle carte da gioco disposte a significare e a narrare, rappresenta al contempo la struttura del mondo e la sua profusione intorno al vuoto e a partire da esso. L’intero edificio del sistema espressivo calviniano è così costruito – all’immagine delle Città invisibili – sul vuoto11.
Il vuoto costituisce in Calvino un potente stimolo della scrittura: nel deserto di senso, chi scrive può liberamente pensare, associare, definire12. Ed è il meccanismo che sottende, a nostro avviso, l’elaborazione delle Cosmicomiche, in cui ogni racconto si sviluppa intorno a uno o tuttalpiù un paio di concetti chiave, che possono così essere contemplati sotto una luce nuova proprio grazie al contesto di vuoto nozionale in cui sorgono. Il più delle volte, i personaggi delle Cosmicomiche non hanno la minima idea della natura, del senso o del nome delle nuove qualità della materia che stanno scoprendo sul loro nascere: i colori, lo spazio, o ancora la luce sono così descritti come accidenti della materia, tramite le situazioni vissute dai protagonisti e i cambiamenti concreti che introducono nelle loro modalità di esistenza (Palombi, 2014). Questa situazione definizionale ideale è permessa dal contesto cosmogonico scelto da Calvino, in cui si assiste a una delle fasi della creazione dell’universo. Ovvero un mondo vergine di senso.
Calvino immagina così non solo uno, bensì una serie di scenari cosmogonici, talvolta anche contraddittori tra loro. Poco importa. Quello che conta è precisamente il fatto di iniziare, ricominciare da capo.
Questa tendenza al ricominciare perpetuo emerge in diverse opere, composte per lo più di racconti o testi brevi, poi organizzati in volumi sistematizzati. Diviene perfino principio fondatore di un intero volume, Se una notte d’inverno un viaggiatore, composto da una serie d’incipit di romanzi lasciati in sospeso, ovvero caratterizzati da una forma di “béance terminale” che si somma e si articola con la “fitta e costante béance interna” del volume, costellato di vuoti vertiginosi (Segre, 2014, p. 1327). Allo stesso modo, Le città invisibili, all’infuori dalla cornice composta dai dialoghi tra Marco Polo e il Khan, sono composte da una serie di racconti che corrispondono, ogni volta, all’arrivo del viaggiatore narratore in una nuova città, ovvero in un mondo nuovo sotteso da leggi, ordini, principi totalmente diversi.
Così la dissoluzione della Prospettiva, in Se una notte d’inverno…, si conclude con un inizio: l’incontro tanto sperato con Franzisca, il cui sorriso, i cui occhi scintillanti, ridano in un baleno esistenza al mondo, alla sua complessità, con il caffè all’angolo pieno di specchi, e l’orchestra che suona il valzer. Ma l’esempio più evidente di questo schema ricorrente appare nelle Città invisibili, nel dialogo-cornice successivo al brano precedentemente citato (vedi infra), di cui riprende testualmente le parole: “Allo scacco matto, sotto il piede del re sbalzato via dalla mano del vincitore, resta il nulla […] la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato.” Da lì, Marco Polo inizia una lunga ed accurata descrizione, che diventa narrazione. “La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d’ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre…” (Calvino, 1994b, p. 469). Ovvero, a partire dal pezzo di legno che raffigurava il vuoto nasce e prende vita un intero universo narrativo, esattamente come nel modello collodiano, tanto ammirato da Calvino13: c’era una volta un pezzo di legno (Collodi, 1995, p. 361).
Dove cercare la fine, con scrittori dell’inizio? Il timore della fine è presentato da Lucrezio come la prospettiva da evitare più di ogni altra, e se “la porta della morte non è chiusa neanche al cielo,/né alla terra, né al sole, né alle profonde acque del mare,/e anzi li attende e li scruta con vasta e immensa voragine” (Lucrezio, 1994, vv. 373-375, p. 451), ben più terribili della morte sono le conseguenze del “terrore dell’animo” e delle “tenebre” (v. 39, p. 535), di cui troviamo le illustrazioni più memorabili nei versi conclusivi del poema, che raccontano la Peste di Atene. Più insostenibili forse delle descrizioni dei sintomi della malattia e delle sue manifestazioni cliniche nei tessuti umani sono quelle delle reazioni umane che negano, pur di sfuggire alla morte, ogni principio di vita: l’immagine degli uomini che si mutilano, rinunciando alle parti virili nella speranza di sopravvivere più a lungo (v. 1209, p. 617), è l’esatto contropiede dell’incipit del poema, che nasceva sotto la protezione di Alma Venere, la quale “infondendo in petto la dolcezza dell’amore,/[fa] sì che nel desiderio propaghino le generazioni secondo le stirpi” (vv. 19-20, p. 71).
D’altro canto, mentre in Leopardi “Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta” e “questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi” (Leopardi, 1998, pp. 400-401), Calvino, nonostante momenti di angoscia in cui contempla la possibilità del nulla, non sembra mai risolversi al non essere, sempre spinto dall’impeto che lo dispone a creare instancabilmente nuovi universi e storie, e in particolare, secondo una dinamica paradigmatica del suo rapporto alla scrittura, nuove Cosmicomiche (sappiamo che aveva in progetto la redazione di ulteriori racconti, Calvino, 1997, p. 412). L’unica fine del mondo possibile in un pensiero fatto di narrazione deve necessariamente corrispondere alla scomparsa dell’io narrante, e così succede, infatti, nel suo ultimo racconto, Come imparare ad essere morto, nell’excipit del volume Palomar (1983):
di rinvio in rinvio si arriva al momento in cui sarà il tempo a logorarsi e ad estinguersi in un cielo vuoto, quando l’ultimo supporto materiale della memoria del vivere si sarà degradato in una vampa di calore, o avrà cristallizzato i suoi atomi nel gelo d’un ordine immobile.
«Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, – pensa Palomar, – e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine». Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non lì avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore (Calvino, 1994c, p. 979).
Un anno dopo Palomar, Calvino proporrà un’altra soluzione – un’altra fine possibile? – per sfuggire alla catastrofe del tempo (Calvino, 1997, p. 376), poiché “il tempo è una catastrofe perpetua, irreversibile” (p. 374). Contro il “culto della deflagrazione generale”, a ritroso dell’“esaltazione per la potenza rivoluzionaria delle artiglierie”, dalle “passioni, l’io, la poesia […] visti come un perpetuo esplodere” (p. 374), Qfwfq, nel racconto L’implosione (1984), opta per un movimento infinito di sottrazione:
Esplodere o implodere – disse Qfwfq – questo è il problema: se sia più nobile intento espandere nello spazio la propria energia senza freno, o stritolarla in una densa concentrazione interiore e conservarla ingoiandola. Sottrarsi, scomparire; nient’altro; trattenere dentro di sé ogni bagliore, ogni raggio, ogni sfogo, e soffocando nel profondo dell’anima i conflitti che l’agitano scompostamente, dar loro pace; occultarsi, cancellarsi: forse risvegliarsi altrove, diverso. […] Esplodete, se così vi garba […]: io implodo, crollo dentro l’abisso di me stesso, verso il mio centro sepolto, infinitamente (pp. 372-373).