Da dove il vento, che inanellata pria
viene, e dove finirà –
contro di esso ergiamo – di comune accordo tacendolo –
fisicità colme di dolore, abbandonate sul mare.
Pier Paolo Pasolini
1. Roma
Nel 1950 Pier Paolo Pasolini giunge a Roma dal Friuli, terra della madre, terra contadina, luogo delle sue prime produzioni poetiche: le Poesie a Casarsa, poi confluite nello scritto La Meglio gioventù, ci offrono, attraverso la lingua dilettale, l'immagine di una natura dispersa tra i campi, le rogge, le fontane, le piazzette civili, su cui si specchia il poeta, moderno Narciso. La raccolta l'Usignolo della chiesa cattolica annuncerà l'ingresso del poeta nella storia attraverso l'adesione al marxismo e alle lotte a fianco dei braccianti friulani per il possesso della terra.
Nella capitale, il poeta entra a contatto con una dimensione sconosciuta, imprevista.
Nell'epoca dell'avvento del boom economico, del cammino incessante del Neocapitalismo che riconfigura una nuova storia – interamente storia borghese – e accatasta rovine nel suo cammino, sul “fronte della città”, sulla soglia tra città e campagna, Pasolini vede apparire frammenti di un' “età sepolta”; quelli che Karl Marx, nel suo celeberrimo Il 18 brumaio di Luigi Napoleone Bonaparte, chiama Lumpen: garzoni, prostitute, scansafatiche, ladruncoli, perdigiorno. Pasolini, in Le ceneri di Gramsci (1957), ne parlerà come di “un popolo di animali” (Pasolini, 2017a, p. 61), perso interamente in una vita “troppo vicina alla natura”, che è solo “brusio”. In Ragazzi di vita (1955), il suo primo romanzo romano, ne scriverà come di ragni, di lupi: grovigli di animalità. Strettamente legati ad una vita di cui hanno pieno il cuore e che – come animali – abbandonano serenamente (p. 63), in essi si incarna una dimensione arcaica, naturale, a cui sembrano appartenere. Ma bisogna indagare cosa significhi nell'opera poetica pasoliniana questa naturalità, ed in che modo essa permetta di individuarvi una corrente sotterranea che la legherebbe al materialismo lucreziano, ad un materialismo, come scrive Louis Althusser, aleatorio, un materialismo dell'incontro.
2. Creature: per un materialismo senza natura
Possiamo tentare di leggere la poesia di Pasolini attraverso la mediazione di Lucrezio, per trovare in essa i germi di una natura non “naturale”, di un materialismo radicale. È proprio nelle immagini poetiche che può infatti emergere l'impensato dell'opera pasoliniana, l'inconscio lucreziano che la abita1.
Non è un caso se è proprio attraverso un modello che potremmo definire, con Michel Serres, idraulico2, che Pasolini dà forma alla dimensione naturale e magmatica dei Lumpen.
I giovani sottoproletari attraversano le “sgretolate muraglie” e le “scoscese case” (p. 4), invadono le grotte, i tuguri che scavano la periferia riversandosi come “fiumane” (p. 14) a invadere le vie polverose che continuamente si biforcano e si interrompono per riprendere, inaspettatamente, altrove. Il paesaggio di cui l'autore scrive si configura immediatamente come una “natura cava”: le borgate “sferzate dal sole” (Pasolini, 2015 p. 27), ferite dai venti, dalle tempeste, dai crolli (basti pensare al crollo improvviso delle Scuole a Donna Olimpia, casermone sottoproletario, in Ragazzi di vita), si mostrano al poeta come “un mondo solido […] – e minacciato dal continuo pericolo di un'inaspettata dissoluzione”(Pasolini, 1998, p. 343); un corpo intessuto di vuoti in cui diviene visibile il tempo del declino e della consunzione – sotterraneo al “tempo degli orologi” (Serres, 2000, p. 96), illusione di una temporalità lineare e omogenea –, esposto al sopra-giungere di “qualche rovinoso pericolo” che potrebbe per caso, in un momento qualunque, precipitarlo nella morte che incombe e “guata con immensa e vasta voragine”. (Lucrezio, 2004, p. 355, V, v. 373).
Sospeso su questo abisso, Pasolini mostra il movimento frenetico di una folla “liquida” di “brulicanti” corpi dimenticati da ogni anagrafe; affetti da continui accidenti – derubati, affamati, in cerca di una donna o di denaro – e fuori da ogni regola sociale, da ogni forma di coscienza di classe e di responsabilità individuale (tanto che Marx vi poteva riconoscere un pericolo per l'unità della classe “redentrice”), essi sono radicalmente aperti ad ogni evento possibile, all’imprevedibile di ciò che potrebbe accadere o non accadere:
possono buttare il loro giorno […]
possono andare trascinati da quel povero impeto
del loro cuore quasi animale,
alle gioie mattutine di via Sciarra
e del Gianicolo, gioie di studenti, balie
giovinette, verso la gazzarra
dei loro pari […]
sempre pronti alle nuove
avventure del sogno…
(Pasolini, 2015, p. 85)
Queste “forme dell'esistere”, “prede d'un vento che le trascinava sulla terra, senza vita alla morte” (pp. 92-93), si agitano come un turbine (“Una marea di girotondi/ lungo la svolta della muraglia” – p. 88) sulla tensione dei corpi verso l'equilibrio del nulla, l'identità e la morte; per essi non esiste riposo perché, come scrive Lucrezio, “l'agitarsi di tutti i corpi della materia ricorda che nell'intero universo non c'è un fondo” (Lucrezio, 2004, p. 137, II, vv. 90-92): non esiste alcun fondamento su cui possano istallarsi, alcun centro attorno a cui possano organizzarsi gerarchicamente. La natura in cui queste esistenze si iscrivono è dunque una natura abissale, infondata, che non potrà essere pensata come un'origine o una sostanza, e neppure secondo l'ottica dell'alienazione del Geist hegeliano, tappa di un superamento dialettico. Nessun principio d'ordine, nessuna legge né entelechia può determinarne la nascita o lo sviluppo.
I testi pasoliniani descrivono una cartografia di questi movimenti vorticosi3 in cui si producono incontri/scontri casuali di prostitute urlanti, masnade di giovani, accozzaglie di “ferini lucidatori, invertiti commessi, tranvieri incarogniti, tisici ambulanti, manovali buoni come cani” (Pasolini, 2015, p. 49), espressi poeticamente dal ritmo incalzante delle terzine spezzate, da “rime casuali” che disseminano i corpi senza qualità – i corpi degli ultimi – dal cui incontro sorge una “natura” come lo srotolarsi di un “palinsesto creaturale” (Pasolini, 2008a, p. 2021)4.
Il creaturale sarebbe infatti, come scrive Pasolini riprendendo Pascal, filosofo tragico, nel suo saggio su Corporale di Paolo Volponi, il “coin detournè de la nature”, un minimo (Pasolini scrive sempre di “creature vive appena”) che nasce da una deviazione infinitesimale che dà vita a “un'infinità di figure minori” (p. 2020), incarnate dai Lumpen. La loro esclusione da ogni supposta identità e da ogni legge rivela infatti la radicale an-archia della natura che si mostra, nella creatura, come nascita dal nulla di “qualcosa” che diserta ogni logica d'origine ed essenza perché estranea a qualunque garanzia d'esistenza; la sua unica necessità è la sua “vita perentoria” (Pasolini, 2017a, p. 14).
La creatura è dunque il nome dell'improprietà di ciò che, prodotto da imprevedibili urti, scontri, movimenti, non avrebbe alcuna ragione di esistere: una “creatura, nient'altro che creatura, che non sa e non chiede nulla” (Pasolini, 2008d, p. 2401), soggetta “insieme alla morte e alla nascita” (Lucrezio, 2004, p. 349, V, vv. 242-243).
Forse un luogo della produzione pasoliniana può fornirci una prima immagine del creaturale, non estraneo alla natura ma neppure identificabile con la classica physis: la lingua.
3. Deviazioni
In gioventù Pasolini ha udito risuonare tra i giovani contadini della riva destra del Tagliamento una lingua naturale, astorica: il dialetto, “parlar materno” che, identificandosi con la natura, scorre suo quia temopore (p. 77, I, v. 146) al di sotto dei mutamenti linguistici come sostrato vitale e sostanzialmente immodificabile dalla storia. Nelle borgate romane però il poeta scopre una lingua che non coincide pienamente né con il dialetto né con la lingua borghese: il gergo.
Pasolini pensa il gergo della malavita, la lingua dei Lumpen, come gesto in cui la lingua, ri-condotta al corpo da cui la cultura occidentale l'aveva separata elevandola come proprietà dell'umano, non costituisce più una facoltà dell'individuo, ma l'interstizio in cui, incerto tempore incertisque loci, può cadere la parola imprevista, una punta espressiva “inventata la sera stessa” (Pasolini, 1998, p. 333), deviazione dall'apparato ordinato del senso.
Un nuovo termine, pronunciato forse da Picchiola, Sciaboletta, Zelletta o da uno qualunque dei “ragazzi di vita” lampeggia ad un tratto, come un “ammiccare” o un “alludere”, nella dimensione “corporea, collettiva” (Pasolini, 2015, p. 60) dell'esibizione malandrinesca, nel viavai incessante della borgata, teatro in cui una plebaglia “rimasta per secoli irresponsabile” si espone: “sta a sentì sto pezzo”, esclamano i ragazzi – concrezioni temporanee di ladri, papponi, accattoni – all'apparire di una nuova battuta, di una “sparata” innovatrice e fugace (Pasolini, 2008b, p. 695).
L'Espressione erompe improvvisamente, “sotto il segno del piacere”, “fuori dalle chiostre, dal buio verso il buio” (pp. 697-698): nata dal nulla, essa non ha compimento che nel suo darsi, nella voluptas della declinazione, interna al combinarsi temporaneo e sfuggente di nuove aggregazioni, sull'abisso del nulla.
‘E tu, addò vai', mi chiede […]
‘Vado a spasso', gli rispondo.
Lui si volta, e dice “A spasso se va de domenica”.
Il suo novenario non è solo, in una città dove i parlanti sono in continua sovraeccitazione. Ricordo i due quinari di Alfredo Fileni, alla borgata Gordiani […] E l'endecasillabo del Pulenta […] Dormivano in dodici in una camera, il soffitto screpolato da cui colava l'acqua: e il Pulenta, salutandomi, lanciò il suo disperato endecasillabo: “Se dorme bbene, eh? a Largo Arenula! (Pasolini, 1998, p. 455).
Questo balenare della lingua è il modello sensibile del clinamen, evento “che non è dell'ordine dei corpi e tuttavia non è immateriale” (Foucault, 2016, p. 29) in quanto ac-cade sempre nella materia; precipitando tra i corpi come un fulmine, esso muta le combinazioni delle cose giusto un po', “quel tanto che basta per dire che è mutato il movimento” (Lucrezio, 2004, p. 145, II, vv. 216-220) e dà origine a un trans-individuale (Balibar, Morfino, 2014): un corpo nuovo che sorge nell'incontro e spossessa i suoi termini di ogni presunta identità a sé stessi.
Se, come scrive Lucrezio, il linguaggio si produce imprevedibilmente nello schioccare e nel tentennare collettivo della lingua (cfr. Lucrezio, 2004, p. 309, IV, vv. 835-841; p. 391, V, vv. 1021-1023), nel balbettio dei malandrini, degli esclusi dal logos occidentale, l’intervenire improvviso della deviazione diserta – nell’istante del suo apparire – l’organizzazione dell'organismo linguistico e rompe, a partire dal nulla, la struttura gerarchica delle positure; non “parlare umano”, ma “parlata”, essa opera perfino un ri-posizionamento dell'anatomia che inverte le funzioni corporee (cfr. Pasolini, 2008b, p. 698; Solla, 2013, p. 143) e vi libera, nel movimento di una ri-composizione inedita, l'inaudita vitalità della nascita, al di là di ogni finalismo. Nell’invenzione gergale infatti la lingua (e con essa il dialetto, lingua “naturale”) è trascinata in un vortice che la riconduce alla sua in-fanzia, non tappa iniziale di un apprendimento progressivo (inventum), ma gemmazione felice (inventio) – perché florida e casuale (Zanardi, 2011, p. 91) – di “deformità” che, sempre prossime alla scomparsa, sottraggono, per un momento, la natura alla sua rappresentazione, sospendendo ogni scissione tra phonè e logos e tra natura e artificio.
Secondo l’identità lucreziana di atomi e lettere per cui “appena variano gli incontri, i moti, l'ordine, la posizione, le forme della materia anche i corpi stessi devono mutare” (Lucrezio, 2004, p. 189, II, vv. 1015-1022), la lingua dei senza-nome mostra dunque, nel clinamen di novenari ed endecasillabi fugaci, nell'apparire “labile, sfuggente come un'ombra, praticamente nullo” (Pasolini, 1998, p. 417) di una parola sempre in pericolo, la nascita di nuovi corpi già da sempre in pezzi, sempre esposti “all'improvviso disordine” di “un’esistenza condotta sul filo di rasoio della più estrema modernità” (Pasolini, 2008c, p. 416): le creature, non essenze, ma solo “gangli”, “coaguli” (Pasolini, 2015, pp. 31-32) di materia, di atomi e vuoto.
Come il gergo che la agisce, la creatura non sarebbe infatti che il peso del nulla, una sua intensificazione locale e contingente, imprevedibile e fragile, nella disseminazione materiale delle cose. Rovina sia dell'umano che dell'animale, di ogni identità – persino di quella prevista da un “ordine naturale” – essa è “niente, cioè: nessuno degli esseri concepiti e concepibili” (Rosset, 1973, p. 141).
Giunto a Roma, Pasolini comprende che l’operazione di totale conquista della natura – dei Lumpen – intrapresa dal Neocapitalismo è già compiuta. Storicamente queste esistenze dunque non si danno più, totalmente sussunte dall’apparato di cattura del potere che – in particolare attraverso la conquista linguistica, la “rivoluzione interna delle sue strutture” (cfr. Pasolini, 1991, pp. 64-68) – incede come l’espansione di una lebbra5, cancellando la molteplicità delle lingue minori, penetrando nelle forme di vita, travolgendole e disgregandole “come, il mondo, non fosse che un cumulo di scintillanti frantumi, di casuali rifiuti, spazzati da un cataclisma” (Pasolini, 2017b, p. 94).
Tuttavia, quella natura che nella storia rimaneva come un fuori dalla storia era, paradossalmente, sorta proprio dalla catastrofe, dall’urto distruttivo tra corpi.
Del suo moto sorgivo si potrà allora, secondo l'insegnamento lucreziano, solo costruire, poeticamente, una memoria: “la nostra età non può scorgere quel che prima è avvenuto, se in qualche modo la ragione non ne addita le tracce” (Lucrezio, 2004, p. 415, V, vv. 1446-1447).
Il creaturale è il nome di questa memoria, una memoria senza passato, senza ricordo: la memoria im-possibile del clinamen, dei rimossi che esso ha prodotto, del lampeggiare di una “naturalità” forse mai esistita.
“In essi/inermi, per essi/il mito rinasce”, scrive Pasolini a proposito dei Lumpen ne Le ceneri di Gramsci, insieme e contro il padre del marxismo italiano (Pasolini, 2017a, p. 63).
Se dell'origine – che non ha nulla di originario – non si può avere che memoria, il mito sarà la messa in forma di questa memoria nella lingua poetica, darsi evenemenziale di un nuovo clinamen, di nuove invenzioni linguistiche nella tecnica della costruzione atomica dei versi.
4. Nach-leben
Il materialismo creaturale, che disarticola l'idea di natura, rende possibile rintracciare, nell'opera di Pasolini, una politica del clinamen in grado persino di sfuggire alla scissione occidentale tra materialismo e idealismo attraverso l'invenzione di un materialismo poetico.
L'apparire delle creature – i Lumpen – investe il poeta come un balenare fugace di qualcosa che compare per brevi istanti e subito si sottrae alla vista:
Dall'angolo d'un palazzo, eretti,
appaiono, ma stanchi per la salita,
e scompaiono, per ultimi i garretti,
all'angolo d'un altro palazzo.
(Pasolini, 2015, p. 76)
La precarietà del mostrarsi sfuggente di questi globi di luce, lucciole6 che attraversano la notte per sparire immediatamente, è quella di un'insorgenza che emerge nella con-tingenza degli incontri/scontri che la producono, singolarità la cui situazione si installa negli intrecci di una congiuntura – incontro “irrigidito” che ha già avuto luogo – e vi crea un ingorgo, un arresto ossia, potremmo dire con Lucrezio, una fluttuazione imprevista e imprevedibile nel flusso, una turbolenza sulla turbolenza della storia.
Se, come insegna la fisica lucreziana, ogni “struttura” si configura come eccezione, resistenza fortuita e instabile alla deriva, essa può, tuttavia, rimuovere e catturare nei propri apparati (in una “statica”) il carattere “nascente” della deviazione, il nucleo vuoto, aleatorio, che la abita.
Il Neocapitalismo, divenuto storia tout court e “nuova natura”, si configura per il poeta proprio come l'operatore di tale rimozione, “regno dello stesso”, della ripetizione, sotto il dominio del quale la nascita della natura “è respinta” (Serres, 2000, p. 117). Come l’inferno sulla terra teorizzato da Lucrezio (cfr. Lucrezio, 2004, p. 255, III, vv. 978-979), esso produce infatti concatenazioni causali mitiche che, di fatto, rimuovono dalla storia il sorgere del nuovo.
La natura però non conosce eterno ritorno. Se “una cosa va in sfacelo”, un’altra, prima inimmaginabile, “sorge in suo luogo ed esce dal disprezzo” (p. 381, V, vv. 825-836).
I Lumpen appaiono esattamente come una dimensione naturale impensabile prima della propria apparizione. Rimossi dalla storia, essi non esistono affatto, se non “fantomaticamente” (Althusser, 2016, p. 59), prima del loro stesso evento, un “evento da nulla”, imprevisto e imprevedibile che però può inaugurare un altro tempo, che insiste tra la temporalità del fluire laminare di atomi e vuoto e quella della storia.
Ciò impone un'interrogazione sulle condizioni di possibilità che permettono a tale apparizione di sconvolgere le regole della visibilità politica.
Pasolini questo lo capisce bene. Se il sorgere di un molteplice che appare e scompare immediatamente è una “figura dell'istante” (Badiou, 2011, p. 140), la sua carica rivoluzionaria sarà determinata dalla sua capacità di durare. Lucrezio stesso ci illustra l'assoluta aleatorietà da cui potrebbe nascere o meno un mondo: “gli atomi […] volteggiano in mille modi […] Da sé spontaneamente a caso urtandosi i semi della materia, dopo essersi in mille modi addensati ciecamente senza esito e invano, alfine si uniscono” (Lucrezio, 2004, p. 191, II, vv. 1054-1061). Solo nella durata dell’incontro, se esso “fa presa”, i Lumpen divengono, retrospettivamente, una singolarità: una “classe”.
La scrittura poetica dà una forma alla disseminazione degli incontri/scontri (furtivi, violenti, complici) tra i loro corpi minimali – come appare, forse in maniera esemplare, proprio nella tra-scrizione pasoliniana del gergo – e crea così una durata per ciò che non era previsto ne avesse una ma che, con la sua straordinaria intensità, rende possibile la sua invenzione: la creatura.
Essa è indice della potenza che “ciò che è stato” conserva una volta che il luogo di distribuzione della sua nascita e della sua esistenza è venuto meno. L'opera di Pasolini – tanto cinematografica (se il cinema è creatore di durate, di blocchi spazio-temporali) che letteraria – può dunque definirsi una poetica delle “sopravvivenze” (Nach-leben)7. Nelle Ceneri di Gramsci, a proposito dell'esistenza dissipativa dei Lumpen, Pasolini parla di “sopravvivenza”, non vita ma “forse più lieta della vita” (Pasolini, 2015, pp. 60-61). Il dopo-vivere delle sopravvivenze crea infatti un contrattempo, un resto che, tra la vita e la morte, conserva la traccia “mnemonica” dell' “origine” – del clinamen sopra-venuto casualmente nella materia – e resiste al flusso e alla dissoluzione coagulandosi in molteplici forme:
Impuri segni che di qui sono passati
vecchi ubriachi di Ponte, antiche
prostitute, frotte di sbandata
ragazzaglia: impure tracce…
(p. 36)
Se l'intreccio che si scioglie quasi subito resiste solo pochissimo al flusso incodificato della caduta, la ri-scrittura delle sue tracce può innescare una serie di movimenti di ri-torno, invertire e rovesciare il tempo complicandolo e rendendolo, in un certo senso, reversibile. “In un singolo tempo […] stanno celati molti attimi” (Lucrezio, 2004, p. 307, IV, vv. 794-796) scrive Lucrezio, non a caso, proprio nella sua trattazione dei simulacri, ad un tempo immagini e fantasmi che colpiscono i nostri sensi senza posa, involontariamente. La poetica delle sopravvivenze dunque ci consegna un nuovo pensiero della ripetizione che non ha nulla a che fare con la ripetizione della rimozione del caso dalla struttura, ma con una ripetizione differenziale che sottrae all'evento ogni carattere “miracoloso”.
Nel ritmo dei suoi ri-torni, la poesia serializza l'evento, produce una carambola di incontri fortuiti e potenzialmente efficaci in cui esso può durare.
È ciò che Pasolini immagina nella sua Profezia prefigurando l'arrivo dei Persiani che, giunti dal Terzo Mondo, potranno incontrare altri esclusi che abitano i regni della fame e potranno, solo a partire da questo incontro duraturo (poetico), distruggere la vecchia civiltà, “sciogliere i vincoli” (p. 436, VI, v. 356) dei foedera marziali, configurandosi come una “classe” che – “minima” coagulazione di corpi indocili, emergere politico della natura – dismette ogni carattere di classe per ri-iniziare la storia, “con le bandiere rosse di Trotzky al vento…”(Pasolini, 1998, p. 862). La poesia ci permette dunque di pensare una catastrofe che non rimuova la potenza distruttrice e creatrice del clinamen, ma, serializzandosi, la rinnovi.
Così nell'opera di Pier Paolo Pasolini il clinamen che ha prodotto la creatura continua a ri-prodursi: Riccetto, Tommaso, Accattone, Innocenti Totò e Ninetto, sono immagine di un legame naturale, di un intreccio di creature precario e duraturo ad un tempo che, sospeso sul nulla, evoca il dono dell'esserci contingente e ingiustificabile delle cose (es gibt) che si rinnova nelle forme poetiche per ricordarci che il clinamen una volta è stato possibile.
Se la nascita di una forma si staglia sempre sul triplice abisso del “poter non essere stata”, del “poter essere breve”, del “poter non essere più”, è proprio nel senza-fondo del suo evento che possiamo leggere il nuovo “compito di una politica mondiale” che assuma “il nichilismo come metodo” per riconsegnare la natura (e con essa la storia) alla felicità mondana della sua caducità, al “ritmo del suo eterno trapassare” (Benjamin, 2008, pp. 512-513).
Nel momento in cui l'incedere del neocapitalismo rischia di far perdere persino le tracce dei suoi rimossi, la poesia è dunque l'operazione prettamente materialista messa in campo da Pasolini; l' “organizzazione del pessimismo” che, esponendo “le cose della natura” nella loro oscurità al di là di ogni salvezza – secondo la legge d’amore di Venere8 – restituisce al clinamen la potenza custodita nella doppia traduzione del termine caso: insieme hasard e chance.
Nella memoria poetica, la creatura, la sua apparizione fugace, nomina infatti la grazia immanente di un im-previsto che, sorto una volta dal nulla, potrebbe di nuovo, inaspettatamente, sopra-vivere, ac-cadere.
È per questa natura che, per Pasolini come per Lucrezio, è sempre ed ancora possibile lottare, immaginare, resistere alla catastrofe.