1. Senza volto
Di Giovanna d’Arco, la Pulzella di Orléans, non possediamo alcun ritratto. Di quella giovane che, nel cuore dell’estenuante Guerra dei cent’anni, guidata dalle sue “voci”, partì per liberare la Francia dagli inglesi, la storia non ci consegna alcuna immagine. È proprio su quest’immagine mancante, tuttavia, che si è potuta esercitare un’opera di incessante codificazione estetica e politica. All’inesausta produzione di rappresentazioni, fa eco un’ipertrofia di significazioni politiche decise a delineare, a catturare quel volto in un’iconografia nazionale o in baluardo di resistenza e di emancipazione1. Sul vuoto lasciatoci da quel volto si è costruita, infatti, l’immagine della Patria per cui, nel 1914, migliaia di francesi saranno mandati a morte; si è forgiata l’icona della lotta per il riscatto degli oppressi. Jeanne, figlia del popolo e paladina del Regno di Francia, iscritta nelle maglie del nazionalismo o schierata tra le fila del socialismo, appare disponibile ad ogni appropriazione.
Dalla soglia del XV secolo, tuttavia, il vuoto di quel volto resiste: Jeanne diviene nome di un’opacità irriducibile, conficcata al centro di ogni iconografia, di ogni supposta verità politica. Dalla frontiera precaria da cui Jeanne era partita – da Domrèmy, paese ai confini del Regno – il suo volto assente impone la propria illegibilità. Essa si installa nel punto cieco di una chiamata – quella che rivoluziona la vita di Jeanne e che ancora il suo volto assente ci consegna – come uno scacco che attraversa e sospende ogni generalità. Tra un’immagine mancante e una parola che, attraverso le minute dei processi di condanna e riabilitazione, è sopravvissuta ai secoli, ciò che di Jeanne ne eccede le gesta, ciò che sembra non potersi risolvere nei segni della propria manifestazione e nei discorsi che intorno ad essa si producono, potrà, forse, apparire in un’immagine che non voglia più produrre alcun fedele ritratto.
2. Dei segni
Ciò che consegna Giovanna d’Arco alla storia si consuma in un arco di tempo brevissimo: dal 1429 al 1431 la sua parabola sembra giungere all’apice ed esaurirsi nel processo che la condannerà a morte. Sin dalla sua apparizione sul teatro storico-politico del 1400, Jeanne, inviata da Dio a liberare la Francia dagli inglesi, appare come il luogo di un peculiare incontro tra i tempi: in Jeanne, pre-visto e pro-fezia entrano in contatto e si confondono in un dispositivo complesso. Le voci che Jeanne aveva udito, per la prima volta, nelle campagne di Domrémy, e a cui aveva risposto partendo, abbandonando la casa paterna e rompendo ogni promessa – prima fra tutte, quella di divenire sposa – sembrano tradursi in un impero dei segni – profetici, politici – che si imprimono sulla sua vita, sulle sue imprese militari, sul suo stesso corpo. Le vittorie militari, l’incoronazione del re Carlo VII, la stessa verginità di Jeanne, inseriti nell’ordine della profezia, devono divenire segni visibili della chiamata. Il moto verso ciò che precede e significa e quello verso ciò che, attraverso la prova, sancisce la verità della parola pronunciata si saldano in un’unità apparentemente senza scampo. Dichiarando la propria missione divina e combattendo per il diritto regale del delfino, Jeanne appare come una figura eccezionale in grado di sancire insieme l’alleanza tra Dio, popolo e sovrano e l’investitura carismatica del profeta. L’incoronazione di Carlo VII a re di Francia voluta da Jeanne sembra infatti rispondere al paradigma della manifestazione sensibile dell’elezione: l’alleanza tra Dio e il santo Regno di Francia, popolo eletto della cristianità2, ricollega la tradizione francese a quella dei re-messia biblici, e la missione di Jeanne a quella degli antichi e nuovi profeti3. Se l’iscrizione nell’ordine profetico fa di Jeanne la sorella di Rebecca, di Deborah, delle donne chiamate ad annunciare il patto tra Dio e il suo popolo; se è nell’ordine visibile del segno che sembra fondarsi la legittimità dell’impresa di Jeanne, Jeanne sembra, tuttavia, attraversarne e sfuggirne l’imperativo e, con esso, ogni determinazione profetica o politico-teologica. All’alba degli Stati nazionali, tra la progressiva autonomizzazione di un potere temporale deciso a svincolarsi dal potere spirituale della Chiesa sussumendone la “finzione” teologica e l’iscrizione dell’unzione spirituale dei fedeli nel corpo mistico dell’apparato militante ecclesiastico (cfr. Kantorowitz, 2012), Jeanne appare come uno scarto: nella nascente “mistica dello stato” e nell’amministrazione universalistica e gerarchica della fede e della grazia, installa un’interruzione incodificabile.
Profetessa che – disertando la funzione attribuita alle mistiche – vorrà agire da sé la propria profezia, strano generale che piange sotto le mura della battaglia e rifiuta di uccidere (Delay, 1997, p. 39; cfr. Cremisi, 2022, p. 73), né interamente «donna profeta» né interamente «uomo di guerra» (cfr. Gauvard, 2022, pp. 97-109), Jeanne sembra sfuggire all’ordine del miracolo.
Se è a partire da una “fedeltà” all’apparizione delle voci che si declina la vita di Jeanne, se è nella scrittura della storia che è possibile leggerne le tracce, la scrittura cinematografica, a partire dalle parole pronunciate durante il processo che la condannerà al rogo, potrà “risalirne” l’evento, oltre le codificazioni e i feticci, oltre ogni eccezionalità impressa sull’invenzione carismatica della santa Giovanna d’Arco.
3. Della voce
Dei passi lenti aprono Le Procès de Jeanne d’Arc (1962), traduzione cinematografica diretta da Robert Bresson del processo subito da Giovanna d’Arco presso Rouen. Sono i passi della madre di Giovanna che, il volto sottratto alla vista, legge, dopo l’esecuzione della figlia, una memoria che preannuncia l’imminente apertura del processo di riabilitazione su cui, tra il 1904 e il 1920, si istituirà il processo di beatificazione e santificazione.
Saranno dei rapidi passi, speculari a questi, quelli dei piedi nudi di Jeanne condotta al rogo, ad inaugurare la sequenza della morte della Pulzella. Tra queste due serie di passi – di raccordi in movimento – si dipana il film. Sullo schermo nero, la lunga didascalia prevista da Bresson in apertura annuncia, insieme, la fedeltà filologica ai verbali del processo e la traccia silenziosa che percorre l’intero film, iscrivendolo in un’interrogazione sui limiti della rappresentabilità di un evento, della trascrizione iconica di una vita, quella di Jeanne.
Jeanne d’Arc è morta il 30 maggio 1431.
Non ha ricevuto sepoltura e non possediamo di lei alcun ritratto. Ma ci resta qualcosa di più che un ritratto: le sue parole dinnanzi ai giudici di Rouen.
Il ritmo cadenzato della lettura dalla madre e la scrittura didascalica che fornisce le coordinate essenziali del processo lasciano apparire sullo schermo il primo ritratto di Jeanne: esso è affidato ad una parola fuori campo – “Mi chiamo Giovanna e ho 19 anni” – che, annunciando senza volto l’irriducibilità della propria vita, si imprime sulle sue mani incatenate al momento del giuramento che inaugura il Processo. Sullo scarto tra la parola e l’immagine, tra l’imposizione di una parola obbligante e la voce di Jeanne, si inaugura il film.
Se le mani – quelle mani che avevano condotto il prigioniero Fontaine, fratello cinematografico di Jeanne (Un condamné à mort s’est échappé), alla libertà –, costrette all’immobilità, dicono la fine di ogni privilegio d’azione, l’impossibilità di un gesto liberatore nello spazio doppiamente carcerario della cella e del castello, è alla parola, al duello verbale, che è affidata la costruzione filmica. Il succedersi delle audizioni, svuotato di ogni indizio cronologico, e il contrappunto tra le parole di Jeanne e quelle dei giudici, privato di ogni esitazione psicologica, trascinano nel proprio ritmo il flusso delle immagini. Il volto di Giovanna (Florence Delay) appare nell’inquadratura un attimo dopo la parola, installandosi in un’asse spaziale che oppone Jeanne ai suoi giudici in un conflitto frontale: le linee vettoriali che percorrono l’immagine contrappongono il suo corpo al corpo dell’autorità conciliare, la sua parola a quella di chi possiede l’autorità della parola, di chi ne amministra il potere politico e pastorale. La suddivisione dello “spazio del parlare” sancita dall’istituzione ecclesiastica che, come ogni istituzione, distribuisce i luoghi di enunciazione, produce, nell’immagine ottico-sonora, un’organizzazione geometrica dello spazio che convoca Jeanne al cuore del proprio ordinamento. Catturata nella simmetria apparentemente inaggirabile di uno scontro dialettico, è sotto il segno di una sottrazione a quella parola di cui la Chiesa è garante che Jeanne appare sullo schermo. Ai giudici che le impongono la reclusione, al termine della prima audizione, Jeanne risponde rivendicando il proprio diritto alla fuga; a chi vuole imporle la ripetizione del giuramento, sacramento ad un tempo linguistico e politico su cui si fonda la validità dell’interrogatorio, Jeanne risponde, “dirò la verità ma non dirò mai tutto. È Dio che mi manda e non dovrei star qui, rimandatemi a Dio dal quale sono venuta”.
La parola di Jeanne, opponendo di volta in volta un rifiuto (“passate oltre”) o un consenso ai giudici che le ingiungono di offrire i segni della propria investitura, si configura come dichiarazione che, non rispondendo ad alcuna autorità se non a quella dell’evento che la attraversa – la chiamata divina –, si mantiene nel rischio di un’esposizione irriducibile. Solo nel cinema essa potrà sfuggire all’amministrazione giuridico-religiosa della prova, alla produzione logocentrica di un’identità alternativa e simmetrica a quella in cui si tenta di iscriverla.
Nel montaggio bressoniano, infatti, la distribuzione della parola si trasforma in partitura (cfr. Bresson, Guitton, 1962) partizione sonora che traduce la “battaglia di frasi” in un conflitto tra potenze non più giocabile nell’ordine della parola, ma piuttosto, “sulla capacità dei corpi di sostenere la propria voce” (Scarlato, 2006, p. 84). Se la voce dei giudici non è che il diritto di intentare un processo, se essa reclama una voce che si traduca in Verbo, in visibilità della volontà divina4, una voce sottratta ad ogni forza di legge e persino ad ogni rappresentazione visibile del logos potrà dar forma alla sospensione di cui Jeanne è nome. Jeanne diviene infatti, nell’immagine, figura di una creaturalità che sostiene la propria voce e, nell’atto stesso in cui la emette, ne dice la potenza eventuale, la sua intima estraneità. Alla dimensione sonora è affidato il compito di restituire la vita di Jeanne alla sua attualità (cfr. Bresson, Guitton, 1962). Jeanne, infatti, parla la propria voc-azione: abitata dall’apertura dell’ascolto, la sua voce non potrà che essere quella del Modello, “automa moderno” (Deleuze, 1989, p. 294) che, al di là di ogni soggettività e psicologia, di ogni verosimiglianza e intenzionalità, parla “come si ascolta” (p. 267). Trascinata fuori da ogni identità – partendo per la Francia Jeannette diviene Jeanne, e Jeanne diviene “Jeanne la Pulzella, figlia di Dio” – e impossibilitata a rientrare in sé stessa (cfr. Bresson, 2008, p. 40); “automaticamente ispirata” e, insieme, “inventiva” (p. 33); assolutamente esposta all’impensato e consegnata a una chiusura radicale5, Jeanne, Modello dei Modelli, diviene figura di una soggettivazione estranea all’ordine del discorso ecclesiale o a quello di un’alterità mistica.
Nella ripetizione automatica delle parole di Jeanne, registrate negli atti del processo e ri-lette da Florence Delay, la sua voce, svuotando ogni ingiunzione e ogni presenzialità della parola, è strappata ad ogni risonanza diretta e al regime del discorso interiore. Giovanna, infatti, sembra distinguersi dalla famiglia delle mistiche. La sua voce non scivola in una fonazione glossolalica, in una lingua pre-babelica o angelica; il suo volto non è invaso dal sorgere delle lacrime, che dell’esperienza mistica è il correlato visibile e carismatico. La voce automatica del modello – di Jeanne – installa, nel logos, una spaziatura, che al dominio logocentrico del discorso giuridico-religioso e alla vocalizzazione mistica sostituisce l’introduzione, nella voce stessa, di una duplice estraneità – quella delle voci e quella della lettera – che si dis-appropria continuamente la lingua6 e, con essa, la propria identità. Qualcosa come un volto piangente sarà allora possibile per Jeanne solo a posteriori, nell’attimo che segue il pianto: le lacrime, divenute riflesso e traccia di una trasformazione impercettibile e già avvenuta, ri-velano il “resto non detto” (Badiou, 1997, p. 27) di ogni tentativo di significazione, ciò che, in anticipo e in ritardo sul pre-visto e sulla pro-fezia, può sorgere, nella stringente ritualità del processo, come un indecidibile.
Nello scarto tra la parola del processo, la voce del modello e l’immagine, Jeanne – modello in grado di sottrarsi perfino alla “propria sorveglianza”, di essere “divinamente sé” (Bresson, 2008, p. 73) – può divenire immagine di una grazia in grado di sopravvivere alla propria iscrizione.
4. La meccanica della grazia
Nella scrittura del film, Bresson si attiene rigorosamente ai verbali del processo. La ritualità liturgica delle domande e l’identica costruzione delle inquadrature che aprono ogni audizione, instaurano, sullo schermo, una logica implacabile. Jeanne appare consegnata a una trappola che – come i dialoghi tra i giudici e gli inglesi sottolineano – ne impone sin dal principio il destino. Senz’altra difesa che la propria fragilità e la propria ostinazione – di cui parlano il capo inclinato, gli occhi rivolti ritmicamente verso il basso o verso i giudici – Jeanne non potrà che morire, “sarà bruciata”. Nulla sembra far eccezione a questa struttura rigidamente determinata.
La “logica della caccia” (Rancière, 2013, p. 90) che determina il processo è infatti la logica stessa della Storia: il compimento ineluttabile della sorte di Jeanne appare segnato dalla traccia scritta del già-stato che, archiviato nei verbali delle audizioni, sancisce ciò che del passato deve essere “memorabile”. Un ingranaggio perfetto – messo a punto dai nemici di Jeanne e dal principale alleato della Pulzella, il regista – si stringe fino a catturare ciò che, nel cinema classico, può sottrarsi all’imperativo del visivo e del verbale. Il fuori-campo ottico è consegnato, a partire dal trasferimento del tribunale nella cella di Jeanne, allo sguardo dei giudici e degli inglesi, che ne sorvegliano segretamente i movimenti; il fuori-campo sonoro è affidato alle voci di coloro che, assistendo al processo, invocano a gran voce la condanna a morte. Se nulla interviene a scalfire questo inaggirabile meccanismo, tuttavia, qualcosa tra le immagini ne compromette dall’interno le determinazioni. L’automatica esattezza del processo, la causalità della storia, divengono, nel montaggio, un’esca: tra immagine e suono, nella paradossale forma di testualità che la voce letteralizzata del modello-Jeanne mette in campo, qualcos’altro, un fuori più radicale di ogni fuori-campo, penetra nel volto e nella voce di Jeanne, scindendo persino la lettera del processo dalla sua iscrizione storica.
“Credi di essere in grazia di Dio?”, chiede a Jeanne il vescovo Cauchon. Nell’immagine bressoniana, il suono della penna che si imprime sul foglio per tracciare e occupare il posto della voce, attira irresistibilmente lo sguardo dei due. “Se non lo sono che Dio mi ci metta, se lo sono che Dio mi ci conservi”, risponde la Pulzella. Nella tensione verso un terzo polo dello sguardo, scrittura e voce, storia e grazia confliggono e si incontrano, in uno scambio che è insieme cattura e durata, morte della voce nel segno e diserzione, nel segno stesso, dall’ordine storico-scritturale che esso impone. Se la vita e le parole di Jeanne – la sua ostinata dichiarazione di fede, i cedimenti, l’abiura – appaiono sottoposti alla legge di “caduta dei corpi” (cfr. Bernanos, 2021, p. 58), il montaggio fa il vuoto affinché possa prodursi, in essa, una deviazione, il punto aleatorio di una variazione minima e decisiva. Solo come un imprevedibile Jeanne potrà, infatti, balenare dal montaggio del suo corpo in pezzi e dello spazio che la imprigiona in frantumi, dal recto tono delle parole pronunciate a fior di labbra dalla voce a-soggettiva del modello. Una meccanica – indisgiungibile da una “fisica dell’anima” (Sontag, 1998, p. 275) fatta carne – produce nel meccanismo del processo un “ignoto” che, non cercato né conosciuto prima della propria apparizione (cfr Bresson, 2008, p. 125), penetra negli interstizi come un soffio, una grazia appena percettibile che lascia sulla pelle di Jeanne e dell’immagine solo l’effetto del proprio passaggio, sottratto ad ogni legge causale. Sulla più piccola parte del volto di Florence Delay (“nella sua pupilla”, p. 65) Jeanne potrà apparire a un tratto, disertando – nell’apertura ritmica di un’ispirazione e di un’espirazione, di un’emissione e di una respirazione – ogni codificazione e ogni rappresentazione della propria identità. Nell’“uguaglianza di tutte le cose” (p. 120) prodotta dal montaggio, l’immagine di Jeanne rivela il caso contenuto nella trama di ogni generalità, il carattere fittizio di ogni associazione o insieme che tenti di suturare nell’ordine del segno e del logos il carattere eccezionale di tutto ciò che esiste. La “strana aria che si respira quando Jeanne parla delle proprie voci come delle cose più ordinarie del mondo” (Bresson, Guitton, 1962, p. 937), della pura materialità di ciò che esiste, apre immagine e storia a un “altrove” che è “separazione, breccia o fuga nel ‘qui’ stesso” (Nancy, 2012, p. 178), luogo incollocabile in cui contingenza e necessità, libertà e caso divengono indistinguibili9.
“Come sapevi che era il linguaggio di un angelo?”, si chiede a Jeanne. “Ho creduto così perché ho avuto la volontà di crederlo”. Decisa a decidere per l’evento, segnata dalla paradossale necessità del non poter non credere all’accadere delle voci, all’imperativo “acosmico e illegale” (Badiou, 2018, p. 69) della propria contingente soggettivazione, Jeanne, modello costretto a non poter non essere sé stesso (cfr. Bresson, 2008, p. 54), diviene figura di una sovranità naturale ed eccezionale, non più riconducibile ad alcuna investitura personale. Nell’adorante e a-drammatica indifferenza di chi attende a colpo sicuro una grazia senza garanzie, Jeanne ci consegna la paradossale an-archia di un’esistenza che “si decide abbandonandosi a sé stessa” (Nancy, 2000, p. 24), che attende e sorprende la propria venuta (cfr. Bresson, 2008, pp. 92, 97). Jeanne attraversa così la struttura dia-logica e dialettica del processo come una diagonale che, tangente ad ogni discorso, ne interrompe la chiusura; l’ordine del segno come un eccesso10 che trascina ogni “deposito storico” verso un deposito “segreto e sacro” (p. 90) che assorbe e disperde segni senza alcuna restituzione, dis-locando indefinitamente il terreno su cui si gioca la battaglia tra l’amministrazione della vita e la sua incatturabilità.
Dopo aver confidato nella salvezza, dopo aver attraversato il dubbio, Jeanne accetta, infine, la propria morte. “Dove sarò stasera?”, chiede a chi le amministra, in un palese cortocircuito che investe le leggi del processo, la comunione. La sua morte appare come l’ultima, radicale scelta per ciò che la sceglie, per ciò in cui ogni essenza e ogni legge si annullano11. La carrellata che ne segue i piedi avanzare verso il patibolo, nell’infimo taglio prospettico dell’immagine, conduce Jeanne alla materialità del suo corpo, a quell’infanzia evocata sin dal principio del film. Invasa dai fumi dell’esecuzione, l’immagine del rogo della Pulzella precipita verso il bianco, verso un vuoto di leggibilità. Oltre l’immaginazione, che “tende perpetuamente a tappare le fessure attraverso cui passerebbe la grazia” (Weil, 2017, p. 35), lo sguardo, liberato dall’“occhio troppo pensante” (Bresson, 2008, p. 75), mostra la genesi di un corpo sconosciuto, di un visibile che continua a scomparire alla vista. Se Jeanne è “colei che se ne va” (Badiou, 1997, p. 29), che attraversa ogni predicato senza appartenere ad alcuno, l’immagine del palo, arso e vuoto che, dopo il rogo, campeggia sullo schermo, ci consegna la sua paradossale e infilmabile icona: l’icona di una fuga assoluta, di una nuova sensibilità (cfr. Bresson, 1962, p. 95). In un’immagine e in una voce sottratti ad ogni autorità, Jeanne, insieme orante e militante, si ri-presenta, “com’è stata un tempo”: “possibile e impossibile”, “verosimile e inverosimile” (Bresson, Guitton, 1962), indecidibile. L’immagine di Jeanne, divenuta-assente nella nuova durata prodotta dal cinema, fa-luogo per l’impensabile vicinanza di un vuoto in grado di rimanere, finalmente, vuoto. Jeanne appare, così, come figura infurigurabile di una diserzione paradossale, necessitata e contingente, divina, umana e impersonale, che apre, al di là di ogni segno e di ogni profezia, di ogni elezione o necessità storica, un nuovo spazio d’azione, un posizionamento irriducibile ad ogni spazio di enunciazione e ad ogni posizione prevista. Nell’immagine cinematografica, Jeanne rivela la “debole forza” di “quel che avviene nelle giunte”: “Le grandi battaglie, diceva il generale di M., si combattono quasi sempre nei punti di intersezione delle cartine militari” (Bresson, 2008, p. 26).
5. Cosa resta del Popolo?
Come pensare, a partire dal divenire-assente di Jeanne che l’immagine cinematografica, al di là di qualunque intenzione esplicitamente politica, produce e rivela, ciò che in suo nome si è preteso di istituire? Almeno a partire dalla pubblicazione degli atti del processo, infatti, il suo nome appare legato a doppio filo alla fondazione del Popolo. Jeanne diviene ben presto l’eroina di una nazione ferita dalla guerra perduta nel 1871, contesa da socialisti – nel 1840 Lucien Herr rivendicava l’appartenenza di Jeanne ai “lavoratori socialisti di Francia e Algeria” – e clero – nel 1894 Leone XXIII firmava il decreto pontificio che riapriva la causa di Jeanne con la sigla “Johanna nostra est” –, da nazionalisti monarchici o repubblicani. Nel 1920, la santificazione di Jeanne e l’istituzione di una festa nazionale ordinata per lei dalla Repubblica Francese, sanciscono la cattura dell’evento-Jeanne nelle maglie della sua istituzionalizzazione: nazionalista, cristiana, rivoluzionaria, Jeanne diviene mito fondativo del Popolo Francese, su cu ogni contesa, ogni ulteriore determinazione e predicato – di Jeanne e del Popolo che da lei risulta ormai indistinguibile – sembra ancora oggi innestarsi.
Se, come scriveva Jules Michelet, la Patria [francese] è nata da un cuore, dal suo sangue e dalle lacrime di una donna, se essa appare inscindibile dal popolo di “amore e grazia” che la Francia stessa incarna (cfr. Michelet, 1976), come pensare, a partire dall’incatturabilità di Jeanne, questa Patria, questo popolo? Se, sin dalla sua apparizione, sul rapporto che lega Jeanne al popolo, sembrano in qualche modo giocarsi i destini politici di una nazione, cosa significherà una “destinazione” politica che trovi sottratta in una fuga radicale la propria icona? Il vuoto introdotto nella Storia dall’automatismo del montaggio bressoniano, quel vuoto che è, infine, Jeanne stessa a rivelare, appare, infatti, caratterizzare anche il “popolo” che sulla sua immagine è sorto, strapparlo alla gravità delle determinazioni e delle identità attribuitegli.
Partendo dai confini del regno e combattendo per una Francia che ancora non esiste, Jeanne non fonda, infatti, nulla. A partire dall’an-archia di una chiamata che si dà senza alcuna garanzia, dalla materialità imprevista della sua soggettivazione, Jeanne combatte in nome di un imperativo infondato e assoluto, che afferma la Francia stessa come puro darsi contingente, provvisorio, eppure decisivo e ostinato, di una resistenza (Badiou, 1997, pp. 29-31) estranea a ogni calcolo. È in nome di questa resistenza, infatti, che Jeanne, battendosi per il delfino, sarà pronta a trasgredirne gli ordini quando questi saranno determinati dalla logica strategica delle alleanze politiche, dall’economia dei giochi storici; è questa resistenza che produrrà qualcosa come un “esercito” solo come coagulo provvisorio, pronto a sciogliersi dopo aver compiuto o fallito ciò per cui era sorto12. È ancora un dislocamento, dunque – come quello iscritto, nell’opera bressoniana, dalla voce del modello-Jeanne nell’istanza probante del potere – l’operazione disgiuntiva che strappa la nazione ad ogni sostanza, il popolo alla rappresentazione di una persistenza identitaria, rivoluzionaria, elettiva. Se non al popolo ma all’autorità e al Regno Jeanne rivolge la necessità paradossale del proprio appello, se Jeanne, né condottiera popolare né profetessa, non guida alcuna insurrezione, è perché un eccesso – ciò che insieme Jeanne e Bresson chiamano grazia – introduce, in ogni popolo – popolo-classe, popolo eletto, popolo-nazione – una frattura. La “contingenza della grazia” di cui l’evento-Jeanne è nome, partecipando della storia, non permette di fissare divisioni e ripartizioni, interrompe la chiusura totalizzante di un universalismo – sia esso quello ecclesiale, quello degli Stati nazionali o quello che, identificando la Francia nella Patria Celeste, sancisce come legittimo il sacrificio dei suoi martiri – che sempre produce le proprie esclusioni. Essa si configura, infatti, come un resto che, non coincidendo con l’universale o con il particolare, impedisce, per il popolo, ogni fissazione.
Che immagine pensare, allora, per questo popolo? Forse ancora il cinema – quello di un regista “bressoniano” come Bruno Dumont, che sceglie di “parlare il mito di Giovanna” profanando, tuttavia, la parola mitica e finanche la parola divina – può suggerire la figura di una comunità che, esposta nell’interruzione del mito, sfugga a un ordine fondativo, divino, eroico.
Forse, però, l’immagine di Jeanne, quella del popolo che la Pulzella ci consegna, è ciò che resta invisibile in ogni immagine, il segreto meccanismo che la abita.