K: Pensando alla figura di Giovanna d’Arco si potrebbe mostrare il suo valore politico/destituente a partire dai suoi tratti visionari. Giovanna non è ribelle in quanto “contesta” il potere istituito (in particolare il potere ecclesiale dei suoi inquisitori), ma al contrario in quanto “gioca” con esso, deformandone radicalmente l’immagine.
C.Z.: Rispetto al taglio che vuoi dare, sono assolutamente d’accordo sul fatto che non si tratta di contestazione del potere. Il suo valore politico destituente non si basa sul conflitto con il potere. Tuttavia non sono neppure d’accordo che si tratti di giocare con il potere, deformandone radicalmente l’immagine. Un taglio che è sullo stile di pensiero di Derrida (il gioco del legato, non legato). Piuttosto, proprio a partire dalla visione, apre uno spazio altro, che però non riesce ad essere trasformativo, nonostante le vittorie nella guerra. E che quindi si richiude su se stesso restando nella sua enigmaticità e non diventando politico in senso ampio.
K: L’espressione “giocare con il potere” è il tentativo di condensare in poche righe una serie di passaggi che vorrò fare per rendere ragione del valore destituente di Giovanna – mi rendo conto che possa risultare un po’ ambigua. A dire il vero mi trovo d’accordo sul fatto che Giovanna apra uno spazio altro – non necessariamente politico – che si richiude di colpo su se stesso; anzi, penso che proprio questa dinamica sia descrittiva in fondo dell’esperienza allucinatoria, la quale diventa delirio non appena il soggetto dialoga con elementi ottici e sonori non ancora simbolizzati.
Il mio intento, in particolare, sarebbe quello di indagare tale dinamica a partire da come evolve la “credenza in Dio” di Giovanna, individuando nella prima allucinazione un momento che è destituente in quanto determina una riconfigurazione inconscia dei significanti che in lei rinviano all’idea Dio (non a caso durante il processo sarà ancora al contenuto delle sue visioni, e non alle sacre scritture, che Giovanna sentirà di doversi attenere per non venir meno alla parola di Dio – sintomo che dalla prima allucinazione in avanti il simbolico su cui si struttura la sua credenza è mutato). Non credo che la destituzione di Giovanna abbia avuto effetti direttamente politici; credo però che il suo caso possa mostrare il valore politico che un certo uso dell’immaginario può avere nel mettere in questione i poteri istituiti.
C.Z: Non chiamerei “allucinazioni” le esperienze di Giovanna. Chiamandole in questo modo si rientra pienamente nel paradigma del moderno, nel quale ci sono esperienze condivise o potenzialmente condivisibili che vengono chiamate fatti, distinte da ciò che non è verificabile con procedure precise. È in questo paradigma che le esperienze non condivisibili vengono chiamate allucinazioni. Prendo come esempio le memorie del presidente Schreber. Sappiamo che si sforzava di comunicare le proprie esperienze con metodo scientifico e fenomenologico, ma i medici le chiamavano allucinazioni, perché si trattava di esperienze solitarie, non compartite.
Nel Medioevo, che si estende fino all’epoca di Giovanna per certi aspetti premoderni, c’era una grande considerazione nei confronti di qualcuno che viveva esperienze non condivisibili, in quanto era “caro a Dio”. La vera e grande preoccupazione per i medievali era se tali visioni o voci fossero ispirate da Dio o dal demonio. Ma era di poco conto che fossero condivisibili o non condivisibili con altri, cioè fatti o immaginazione o allucinazione.
Erano soprattutto donne ad avere visioni e la preoccupazione dei confessori (uomini) era per lo più se la fonte della visione o delle voci era divina o diabolica.
A questo riguardo il testo La Signora del Gioco di Luisa Muraro, dove analizza i processi per stregoneria in Trentino, si ferma sul passaggio dal paradigma medievale a quello moderno, passaggio che trova espressione in una prima tornata di giudizi degli inquisitori messa a fianco di una seconda tornata, dopo circa dieci anni. Prima queste donne vengono condannate perché ispirate dal demonio. Poi vengono condannate perché hanno fatto quel che dicono. Penso che si colga bene la trasformazione di paradigma.
Anche in Al mercato della felicità, sempre di Luisa Muraro, riedito da Orthotes, le visioni vengono lette in questa chiave: un andare e venire tra sogno e realtà. Una caratteristica di tutto il medioevo fino all’inizio del moderno. Ad esempio, il discorso delle tre streghe nel Macbeth di Shakespeare. È un discorso tipico tra sogno e realtà. Non a caso Banco lo considera un sogno, mentre il protagonista lo ritiene indicatore di realtà.
In questo libro Luisa Muraro indica anche la pratica analitica come un andare tra sogno e realtà, senza dover verificare i discorsi dei pazienti, ma senza che questo significhi che sono allora delle fantasticherie. Non è questa contrapposizione il punto essenziale.
Ti direi dunque che leggendo l’esperienza di Giovanna come allucinazione ci si preclude alla complessità di piani della realtà, a cui la stessa psicoanalisi freudiana ha avviato.
K: Ti ringrazio per questa tua precisazione, che trovo molto utile in generale – oltre che nell’economia del discorso – per evitare di creare equivoci nel parlare dei tratti visionari di Giovanna. Non era mia intenzione riferire il termine allucinazione a un’esperienza fittizia, solitaria e tanto meno patologica – cosa che invece mi sembrerebbe suggerire il paradigma del moderno. L’uso che ho fatto del termine presuppone un approccio critico proprio al paradigma del moderno, rinvenibile (fra gli altri) in autori del secondo Novecento francese. Direi che proprio grazie al lavoro di chi ha mostrato come le allucinazioni, in quanto contrapposte a fatti verificabili con procedure precise, siano un’invenzione del moderno (tra tutti Foucault), è stato possibile elaborare, nel Novecento, nuovi e differenti modelli interpretativi, siano essi di ambito filosofico o psicoanalitico. In particolare, e questa è ad esempio la posizione di Castoriadis, se la concezione del moderno è il frutto di un particolare discorso, e dell’immaginario storico-sociale che lo sottende (entro cui è venuto in questo caso a radicarsi, com’è noto, il primato della ragione sulla sensibilità e l’immaginazione), allora la distinzione stessa che essa pone tra le esperienze verificabili (fatti) e quelle che non lo sono (allucinazioni) è a sua volta, in quanto immaginaria, un fatto o una verità non verificabile, un esempio di quelle allucinazioni che per essa andrebbero estromesse dall’insieme dei fatti o delle verità della ragione. Questo rovesciamento implica che le allucinazioni nel senso del moderno siano, al di là di quanto il moderno potesse immaginare, un paradigma del normale funzionamento dell’immaginario in generale, da cui dipenderebbe la forma di tutto ciò che in un certo momento storico, nella società così come nella vita di un individuo, può essere inteso come un fatto, una follia o una verità della ragione.
Passando a Giovanna, sotto questa luce il problema non sarebbe di analizzare il suo caso in senso clinico, dando per buona la distinzione moderna fra allucinazioni e fatti reali, ma di mostrare dall’analisi delle sue visioni il fondo allucinatorio dell’immaginario in generale, l’energia a cui in certi momenti una vita attinge per dare una nuova forma alla realtà o alle verità della ragione. Credo che le sue visioni possano essere un esempio di questo movimento, mostrando il valore creativo/destituente del personaggio. Con la prima visione, nel credere che ciò che vede sia reale Giovanna destituisce il buon senso e le ragioni che la spingerebbero a concludere il contrario. Inizia così un’intera conversione del suo mondo interno, dove all’immagine della Jeanette destinata a sposare un uomo scelto dal padre e a occuparsi per un’intera vita di mansioni convenzionalmente femminili subentra quella di Jeanne la Pucelle, che taglia di colpo con questo mondo, scegliendo la via della castità e iniziando un’impresa ritenuta da tutti impossibile per una donna.
Parlando del fatto che il valore destituente di Giovanna non sarebbe misurabile (se non ho capito male) sul piano politico, dicevi che le sue visioni aprono uno “spazio altro, che però non riesce ad essere trasformativo, nonostante le vittorie nella guerra”. Come intendi questo “spazio altro”? Cosa gli mancherebbe per essere trasformativo? E in che modo ritieni si esprima, ammesso che per te abbia senso parlarne, il valore destituente di Giovanna?
C.Z.: Mi chiedi cosa intendo per “spazio altro” aperto da Giovanna. Le visioni le danno quella forza che ha nel combattere per la Francia e per il re contro gli Inglesi, però si mantiene fedele al suo intento senza lasciarsi invischiare dalle mediazioni della società maschile del tempo. Si muove con libertà rispetto al rapporto tra i potenti, sia quelli più vicini al re sia quelli più lontani. Mostra un orientamento così preciso in questo da sembrare quasi non rendersi conto dei giochi di potere in corso. Comunque non sono una misura per il suo agire. Così apre un modo di essere asimmetrico alla società maschile del tempo. Non dialettico. Non assimilabile. In questo senso altro.
Così si comporta anche durante il processo, dove dichiara di obbedire all’autorità della chiesa ma prima di tutto all’autorità di Dio (che la chiesa non può contraddire; può solo, se mai, mostrare che lei non sa quel che dice oppure che è in malafede).
Come in tanti altri contesti della mistica medievale femminile, il riferimento diretto a Dio, che aggira la mediazione della chiesa, è il nocciolo, la leva della libertà femminile. Mi riferisco all’argomentazione, che adopera soprattutto durante il processo, per la quale prima viene l’obbedienza a Dio e poi all’autorità della chiesa (sempre comunque riconosciuta esplicitamente). È un’argomentazione diffusa: basti pensare a Margherita Porete che in Lo specchio delle anime semplici alla fine del Duecento affermava l’esistenza della chiesa grande composta dalle anime semplici, cioè unificate nell’amore di Dio, accanto alla chiesa piccola, formata dalle gerarchie ecclesiastiche, che parlavano in nome di Dio. E che tra le due chiese non c’era conflitto, pur essendo molto diverse e indicando uno stile di vita differente.
Inoltre mi chiedi perché questo spazio altro aperto da Giovanna non sia stato davvero trasformativo.
Christine de Pizan scrisse nel 1429 un testo di celebrazione di Giovanna d’Arco nel momento di massima riuscita delle sue imprese, prima della cattura da parte inglese. È importante questo testo. Aveva infatti scritto in anni precedenti La città delle dame, per indicare donne forti e fuori dagli stereotipi del tempo. Anche Giovanna per la sua luminosità e coraggio poteva ben rientrare tra queste figure e indicare una strada di comportamento alle donne. Quello che osservo è che tuttavia, nonostante questo, Giovanna non è mai diventata un modello di vita. Non è stata imitata né ripresa nei comportamenti da altre donne. Per contrasto e per farmi capire, accenno a Caterina da Siena. Nonostante la vita di Caterina sia in un certo senso inimitabile, ha avuto tuttavia moltissime imitatrici che aspiravano alla santità fino ancora nel cuore del Cinquecento.
E tanto più penso a Margherita Porete, che è stata la figura più importante assieme ad alcune altre scrittrici del movimento delle beghine, che si è diffuso in Francia, Italia, Belgio, Olanda e Germania per più di un secolo attraversando l’intero Duecento. L’orientamento a Dio, ad altro, attraverso le visioni, è stato – nel contesto di questo movimento – effettivamente trasformativo dei costumi delle donne, degli uomini e delle città in cui erano presenti. Sia Margherita sia le beghine – come intero movimento – sono state dichiarate eretiche, ma dopo più di un secolo. La loro parola e il loro agire hanno modificato figure della convivenza e del pensiero. Per contaminazione, per imitazione.
Per ultimo mi chiedi in che cosa consista, a mio modo di vedere, il valore destituente dell’agire di Giovanna.
A me sembra che la figura di Giovanna sia ambivalente. Da un lato c’è sicuramente quella grande forza femminile che le viene dalle voci, che la porta ad agire con allegria – senza tanto sapere di abitudini cortigiane – sulla strada che desidera e che la guida. In questo senso sì, davvero, ha qualcosa di destituente. Perché si sottrae con semplicità alle mediazioni di potere del tempo. Alcuni uomini ne hanno sentito la forza e l’hanno seguita, comunque solo per quel tanto che permetteva di riportare il potere al re. Dall’altro lato però le sue azioni sono interne a una disposizione di pratiche, di legami, di misure maschili, che non vengono affatto trasformati dal suo muoversi con libertà. Ed infatti verrà molto presto imbalsamata come icona della Francia. Ritorna qui il confronto che facevo con il movimento delle beghine e Margherita Porete, che al contrario non sono mai divenute idoli imbalsamati dal potere e sono state lasciate ai margini della storia dominante.
K: Trovo molto condivisibili i tuoi argomenti circa il fatto che Giovanna apre uno spazio altro. Nella tua lettera attribuisci un ruolo centrale, su questo punto, alle sue visioni. E credo che proprio a partire da esse, in effetti, Giovanna crei uno spazio altro, fondamentalmente immaginario, nel quale una ragazzina di tredici anni (la prima visione è del 1425) può comunicare con gli angeli ed essere destinata da Dio a risollevare le sorti di un intero paese, indossando indumenti maschili, armature pesanti e conducendo su un cavallo (non lo aveva mai fatto prima) l’esercito francese in battaglie sanguinose. Uno spazio, dunque, che definirei utopico in rapporto all’immaginario di quel tempo. Nessuno infatti poteva pensare reale, o realizzabile, ciò che Giovanna diceva di vedere: nessuno poteva immaginare che una giovane potesse attraversare indisturbata mezza Francia, passando per zone sotto il diretto controllo degli inglesi, ed essere accolta e presa sul serio da consiglieri e commissioni di teologi alla corte del Re; nessuno pensava veramente di poter scacciare, in così poco tempo, gli inglesi da Orléans e di poter condurre di lì a poco il Re a Reims per l’incoronazione solenne. Giovanna aveva visto e udito tutto questo, e dopo averlo comunicato ad amici e compagni l’aveva realizzato. Giovanna ha fatto accadere l’impossibile, prima nel suo immaginario (l’unico spazio in cui poteva verificarsi) e poi nella realtà, trasferendo negli altri le convinzioni e la fede che solo lei, in tempi così bui, poteva avere, instillando nel suo popolo sentimenti nuovi, di gioia e di speranza, totalmente irrealistici in rapporto alla situazione drammatica in cui versava la Francia in quegli anni. In questo senso, penso che lo spazio altro di cui parliamo sia stato veramente trasformativo, sia per se stessa che per gli altri. Certo, le sue ambizioni tradiscono un modo di pensare contaminato dalla cultura dominante dell’epoca, che si potrebbe definire “maschile” per il fatto di basare il valore di un individuo, come anche di un popolo, sull’autorità che è in grado di esercitare sugli altri (sia essa politica o religiosa) o sui successi che ottiene in guerra. Ma io credo che questi siano anche stati degli espedienti superficiali, e tuttavia necessari, per arrivare a quelle persone e trasformarle nel profondo. Giovanna non ha proposto un nuovo modello culturale. Al contrario, ha dovuto parlare la stessa lingua della gente che doveva convincere, ragionare come loro, preparando pian piano, in silenzio, il terreno fertile a rendere credibile un’impresa che chiunque avrebbe ritenuto impossibile. Da questo punto di vista credo inoltre che Giovanna non sia stata solamente la ragazzina semplice e ingenua che siamo soliti rappresentarci, ma che abbia agito, in parte, secondo una logica precisa, della quale poteva forse non essere del tutto cosciente, ma che in ogni caso intuì, nella maniera in cui può intuire certe cose una tredicenne particolarmente perspicace.
A tal riguardo c’è da considerare che Giovanna non poteva avere in testa solamente l’ideale della Francia (anche perché a quel tempo doveva ancora nascere il mito della nazione, della patria ecc.). Giovanna aveva vissuto sulla sua pelle la Guerra dei Cent’anni già negli anni dell’infanzia, ancora prima di intraprendere la sua impresa. Aveva sperimentato in prima persona le sofferenze che la situazione infliggeva al suo popolo, tra razzie di bestiame e devastazioni di villaggi. Credo che qui entri in gioco una sensibilità diversa, quasi un’altra versione di Giovanna, che da cristiana fervente qual era dovette provare una profonda pietà per la sua gente, alla stessa maniera con cui ne provava per i poveri mendicanti che passavano da Domrémy e a cui cedeva il suo letto. Credo che fu proprio nel tentativo disperato di risollevare la sua gente che Giovanna immaginò lo scenario in cui Dio avrebbe posto fine alle loro sofferenze. Credo che la storia dell’investitura divina, con tutti i suoi dettagli strategici (l’essere destinati a vincere a Orléans, l’incoronazione del Re ecc.), unita alla celebre profezia secondo la quale una vergine avrebbe risollevato un giorno le sorti del paese – che Giovanna non perdeva mai l’occasione di ricordare a chiunque – sono tutti aspetti di una storia funzionale a infondere nella sua gente una nuova credenza, che lei dovette ritenere necessaria per trasformare i loro cuori e guidarli nella liberazione della Francia. Direi allora che Giovanna è stata trasformativa non in un senso imitativo – per il fatto di aver promosso modelli o stili di vita da seguire – ma in un senso che mi verrebbe da definire “spinoziano”, intensivo, per il fatto di essere riuscita a tramutare, in un momento in cui sembrava impossibile, con una certa forza e intelligenza, in un certo numero di persone, la tristezza in gioia, la paura in coraggio e la disillusione in speranza. Ed è su questo che ella può, eventualmente, diventare un modello.
Ora, io credo che in questa linea interpretativa dell’impatto trasformativo/destituente di Giovanna – che si potrebbe definire “intensivista” – sia possibile collocare anche la prospettiva con cui la nostra rivista ha proposto di leggere, nella call del numero, il valore politico di Giovanna, facendo leva su aspetti della sua femminilità troppo spesso trascurati nella considerazione e nell’uso in chiave politica del personaggio. Fra questi, uno su tutti è rappresentato dalle “lacrime”. A riguardo, mi piacerebbe conoscere il tuo punto di vista, ovvero se partendo da aspetti come questo condividi che sia possibile sostenere che Giovanna d’Arco sia stata destituente o trasformativa in senso politico. Mi spiego meglio… Stando alle testimonianze di chi la conobbe, Giovanna piangeva molto, malgrado ciò sia rimasto per lo più oscurato dalla narrazione che la voleva forte, coraggiosa e abile nello svolgere mansioni tipicamente maschili (portare l’armatura, andare a cavallo ecc.). Un evento particolarmente interessante per misurare in una chiave diversa il suo valore politico/trasformativo è quello della sua esecuzione, durante la quale sappiamo che alle sue lacrime seguirono immediatamente quelle di tutti i presenti (per lo più maschi…), a testimonianza che Giovanna fu in grado di dar vita, anche solo per un istante, a una comunità autentica, più intensiva che ideale, e che si potrebbe forse definire destituente in quanto fondata su un sentire politico diverso da quello dei regnanti, incentrato sull’indifferenza e il dominio dei più deboli. La cosa interessante è che quel momento, oltre che una forma di resistenza, sarebbe stato trasformativo, nella forma del pianto, per i rappresentanti del modello politico dominante (chierici, giuristi e funzionari di vario tipo presenti all’esecuzione), i quali nell’empatizzare con lei, e dunque nel contribuire alla costituzione di una comunità politica nel senso alto del termine – tramite cioè un sentire realmente condiviso –, venivano meno implicitamente ai modelli che fino a quel momento avevano guidato il loro agire politico. È come se nel pianto Giovanna li avesse messi in contraddizione con le istituzioni che essi stessi, volenti o nolenti, rappresentavano, lasciando ai posteri non solo un’immagine destituente della politica, fondata su valori come la vulnerabilità e la solidarietà per il prossimo, ma anche uno specifico modo di farla, accordando fra loro visioni differenti attorno a un sentire che è politico in quanto condiviso.
C.Z.: Ti scrivo subito riguardo a un passaggio che non mi ha convinto, così poi posso passare ad altro. È quando dici che Giovanna “ha fatto accadere l’impossibile prima nel suo immaginario (l’unico spazio in cui poteva verificarsi) e poi nella realtà, trasferendo negli altri le convinzioni e la fede che solo lei, in tempi così bui, poteva avere”. Ora questa affermazione presuppone una concezione delle visioni viste come immaginario. Bisogna intendersi su quel che significa immaginario. Sento in questa tua posizione un presupposto positivista: c’è l’immaginario e c’è la realtà. So che il tuo riferimento più importante in questo senso è L’istituzione immaginaria della società di Castoriadis e ne privilegi l’aspetto per cui l’immaginario è creazione incessante e indeterminata. Eppure, se capisco bene, anche in Castoriadis l’immaginario ultimo è ciò che “non è”.
Nella mistica femminile l’andare e venire tra visione e realtà – aree porose tra loro – si sottrae a una idea di immaginario come luogo a sé stante separato dalla realtà. Come “ciò che non è” pur nella sua creatività. Quindi non sono d’accordo che Giovanna avrebbe fatto accadere l’impossibile prima nel suo immaginario – seppure inconsciamente – e poi nella realtà.
Per questo altrettanto importante è osservare che le visioni non vengono “fatte accadere”. Accadono. Chi le ha è in una situazione passiva. Sono come un dono che si riceve. Non c’è azione soggettiva. È un dono che molte mistiche dichiarano però – ma non Giovanna, mi sembra – difficile da accogliere, in quanto immediatamente pone fuori dall’esperienza che condividono con gli altri. Interpretare che le visioni sono qualcosa che esse inconsciamente hanno fatto accadere vuol dire togliere verità e dunque autorità alla loro parola. Cosicché l’unico e vero passaggio che io vedo è quello dall’esperienza della visione, che in sé isola, alla traduzione di questa stessa in parole, che permettano una condivisione e accoglienza pubblica. Momento chiaramente molto delicato per molte mistiche non solo per non voler tradire il messaggio ricevuto, ma anche in quanto avevano bisogno in genere di un uomo della chiesa che facesse da mediatore e sceglievano in genere uomini, dai quali erano riconosciute come autorevoli. Era facilissimo essere dichiarate eretiche. Hildegarda di Bingen e Teresa d’Avila erano considerate, conosciute e avevano esperienza del mondo. Riuscirono a fare questa mediazione. Giovanna d’Arco era troppo giovane ed estranea alle mediazioni sociali. Il suo slancio era semplice. È la bellezza di questa sua vita. Alcuni uomini e alcune donne di prestigio hanno cercato di aiutarla, ma non fino in fondo.
Ritorno per un attimo al passaggio dalla visione alla sua traduzione in parole e della delicatezza di questo passaggio. A questo proposito Hildegarda di Bingen affermava di avere avuto visioni fin da bambina ma di averle tenute per sé, e che solo attorno ai quarant’anni ebbe una visione che le ingiunse di metterle per iscritto “come il discepolo quando sente le parole del maestro”.
Ho cercato di riformulare quel che tu intendevi. Non so se sono stata per te convincente. D’altra parte i termini che si adoperano riflettono un certo sguardo epistemologico piuttosto che un altro. La parola immaginario è svalutativa dell’esperienza mistica, se la si fa rientrare in qualcosa di non reale. Di mio penso che il lato inconscio della percezione della realtà non è irreale: ne è appunto il risvolto non visibile ma presente e costitutivo. Comunque direi che è meglio sospendere l’opposizione realtà-non realtà affrontando questo argomento, e farne una questione di comunicabilità o non comunicabilità. Di traduzione o meno nella lingua condivisa, con tutti gli aspetti di accoglienza politica in senso lato, che questo comporta.
Una seconda questione riguarda gli effetti trasformativi delle parole e dell’agire di Giovanna. Sono molto belle le osservazioni che dedichi a questo, sulla sua relazione con le persone, sulle sue capacità di infondere coraggio. Le considero vere ed esprimono un tuo entusiasmo nel senso antico del termine. Mi ponevo, nel risponderti, dal punto di vista della storia delle donne. Quanto la sua figura è stata trasformativa per il vivere e il senso di sé delle donne del suo tempo e fino ad oggi? Certo, c’è la grande testimonianza che le dà Christine de Pizan. È fondamentale. C’è stata una ripresa negli anni più recenti della sua figura per parlare di Greta Thunberg, e dunque è qualcosa di vivo nell’immaginario collettivo femminile. Ma per me personalmente rimane una domanda aperta.
Ultimo tema affascinante: le lacrime. Il pianto di Giovanna al momento dell’esecuzione, in quanto partecipato da tutti gli uomini presenti, anche quelli che erano responsabili della sua condanna, crea una comunità impensata. Fuori dall’ordine del potere. Sono d’accordo con te.
Cosa portano con sé come dono, le lacrime? Hanno a che fare con l’acqua, con l’origine, con la vulnerabilità come rigenerazione, un ritrovare e rinnovare il viaggio tra sé e sé. Non sapevo che Giovanna piangesse in tanti momenti della sua vita. Nella brutalità della guerra e della durezza del processo, forse era una via per stare in contatto con il viaggio trasformativo tra sé e sé.
K: I termini riflettono spesso l’epistemologia di chi li utilizza, sono d’accordo, ma in alcuni casi non aiutano la comprensione. Mi rendo conto che effettivamente ho usato la parola “realtà”, nella mia frase che citi, come riferendomi a una dimensione opposta all’immaginario. Tuttavia non ritengo che l’immaginario sia irreale. L’immaginario è reale. Il problema è che il reale è qualcosa di diverso dalla realtà intesa come fatto oggettivo. Ciò che Giovanna vede è reale per il semplice fatto che lo vede. Tuttavia, ciò che vede non è fin da subito un fatto oggettivo, nel senso di accettabile e condivisibile da tutti (motivo per cui per anni se ne guarderà bene dal parlarne). Lo diventerà solo poi, quando per effetto della sua forza persuasiva sempre più persone arriveranno a convincersi della plausibilità delle cose che dice di vedere. C’è una differenza, insomma, tra il reale che è tutt’uno con la produzione immaginaria e la realtà come fatto accettato e condiviso da una comunità di persone, il così detto “senso comune”.
Qui sta anche la chiave per intendere, secondo me, il valore trasformativo di Giovanna. Ciò che lei vede sfida evidentemente il senso comune. Ma se il senso comune finisce per crederle vuol dire che Giovanna è anche riuscita a modificarlo, e così a modificare se stessa, essendo che il suo immaginario era in parte il riflesso delle credenze religiose e politiche del suo popolo. Come ci è riuscita? Ha tenuto un certo discorso su ciò che ha visto. Ne ha parlato in maniera tale da renderlo credibile. La trasformazione non sta nella visione in sé, ma nel convincere se stessa e gli altri che ciò che ha visto significa qualcosa di impossibile nell’ottica del senso comune. È bene intendersi su che cosa accade in questo passaggio. Il senso comune, in quanto sistema di credenze condivise, presuppone un ordine simbolico, un ordine in cui il significato di una certa cosa consiste in una certa rete di significanti. L’immagine che ad esempio Giovanna ha di sé, sullo sfondo di un sistema di credenze condivise, consiste in una serie di luoghi comuni associati al genere, alla condizione sociale e alla giovane età. In quest’ottica Giovanna vede se stessa come una persona destinata a sposare un uomo, a mettere al mondo dei figli e a occuparsi di mansioni tipicamente femminili. A un certo punto accade però che lei identifichi in una serie di immagini e suoni il segno della sua elezione divina, e questo evento muterà radicalmente l’immagine che da quel momento avrà di sé. La trasformazione che è qui in gioco, sebbene di natura simbolica (Giovanna si percepisce ora come una “vergine guerriera” mandata da Dio) non poteva tuttavia avvenire nel quadro simbolico del suo immaginario, dove non era dato a immaginare che una persona come lei potesse avere un simile destino. Ciò vuol dire che Giovanna immagina quello che immagina come per una forza che rompe di colpo con questo quadro. Non si tratta di semplice fantasia, con la quale ognuno di noi può produrre liberamente, senza venir meno a un principio di realtà radicato, le associazioni più assurde. L’operazione messa in atto da Giovanna vìola questo stesso principio – che è il riflesso, nel suo caso, del discorso con cui il senso comune distingue ciò che è reale da ciò che non lo è – per sostituirlo con un altro. Il suo caso mostra così la fonte a cui un immaginario strutturato può ancora attingere per modificare le leggi stesse su cui si fonda. Castoriadis definisce questa fonte immaginario ultimo e radicale. La sua funzione è quella di modificare, agli occhi del soggetto, lo statuto di realtà di ciò che il soggetto esperisce. Giovanna vede così la realtà là dove lei stessa non potrebbe vederla. Vede reale una cosa che reale non è – e non potrebbe esserlo – stando alle leggi del senso comune, che sono quelle a cui lei stessa non poteva fare a meno di attenersi prima di immergersi negli abissi dell’immaginario. Ti direi allora che il “non essere” non è tanto il luogo che oppone l’immaginario alla realtà ma quello che la realtà occupa per l’immaginario che nega un certo discorso su di essa.
Per quanto riguarda la questione attività/passività. Come accade in qualsiasi visione, ovviamente anche Giovanna si ritrova in tal caso in una condizione passiva. La visione rende attivi, direi, nel vedere, ma anche passivi nel non poter che prendere atto di quel che si vede. E ciò vale anche, se ci pensiamo bene, per la percezione ordinaria. Il punto è che la passività di Giovanna non abolisce la tesi che ricollegherebbe le voci e le visioni a dinamiche di Giovanna che le avrebbero promosse. Se esiste, come io sostengo, un nesso tra il senso di queste esperienze e le sue esigenze personali (Giovanna immagina ciò che lei stessa vorrebbe essere convincendosi di essere ciò che immagina), non vuol dire che Giovanna sia in controllo della sua attività immaginativa. Se ammettessimo che ha immaginato volutamente, per sua scelta consapevole, quello che ha immaginato, allora non avrebbe potuto attribuire, come invece ha fatto, quei significanti a Dio e credere d’essere stata scelta da lui. Giovanna è convinta di ciò proprio perché non pensa di essere lei la causa reale di quelle voci e visioni. Tuttavia, questa convinzione di passività rientra perfettamente nel quadro degli effetti dell’attività inconscia di un soggetto. L’alternativa sarebbe assecondare totalmente Giovanna e ammettere che era Dio in persona a comunicare con lei, esattamente come hanno fatto tutte le persone che è riuscita a convincere. Da parte mia non si tratta di negare questa tesi. Il punto è un altro, e cioè che sarebbe possibile ricollegare le voci e visioni a delle pulsioni di Giovanna, che pur non essendo del tutto sotto il suo controllo, agirebbero in risposta a esigenze radicate in lei, maturate negli anni e determinate da fatti biografici ampiamente documentati. Questo apparato di pulsioni costituisce una dimensione inconscia che determina, sul piano immaginario, una serie di risposte che indurranno a loro volta le funzioni coscienti ad operare in conformità a delle esigenze di base, in un dinamismo in cui il soggetto non è complessivamente più passivo che attivo. Certo, sul piano cosciente Giovanna percepisce se stessa come passiva in rapporto alle voci e alle visioni, ma questo risultato è strettamente correlato alla realizzazione degli obbiettivi pulsionali inconsci di Giovanna. È solo percependosi, sul piano cosciente, come veicolo di voci e visioni che non le appartengono che è possibile per Giovanna credere d’essere stata scelta da Dio e soddisfare un’esigenza più profonda.
Sono d’accordo quando dici che chi ha le visioni le vive come un “dono che si riceve”, ma aggiungo che questo è perfettamente coerente con il funzionamento inconscio del soggetto, con tutto il suo apparato di esigenze e pulsioni. Chioserei dunque dicendo che quelle voci e visioni sono “un dono che Giovanna fa a se stessa”, una giustificazione immaginaria per agire in maniera conforme al suo desiderio, un “venire incontro a se stessa” dopo tanta sofferenza accumulata nel tempo. La sua storia conferma come lei abbia riposto in quelle esperienze le ragioni per fare di volta in volta ciò che semplicemente desiderava fare: lasciare Domrémy, vestire abiti da uomo, parlare con il Re, liberare Orléans, incoronare il re a Reims. Solo in quanto Dio la sosteneva era per lei possibile realizzare tutto questo. Giovanna lo intuisce e crea le condizioni per convincersi – e da qui convincere anche gli altri – che Dio era effettivamente dalla sua parte e che nessuno avrebbe potuto ostacolarla nella realizzazione dei suoi scopi. Che Giovanna ci abbia messo del suo, inconsciamente, nella rielaborazione significante di quelle esperienze, lo conferma un passaggio particolarmente interessante del processo di condanna. In un momento di commovente parresia, interrogata da uno degli inquisitori su come poteva essere sicura che fosse veramente Dio a parlarle, Giovanna risponde, con grande lucidità, “ho voluto crederci”. In questa apparentemente innocua risposta Giovanna rende conto del suo stesso funzionamento inconscio. Ci sta dicendo che c’è lei, più che Dio in persona, alla base di tutto questo, e che è lei ad aver reso credibile, a se stessa e agli altri, che alla base di tutto questo c’è Dio.
Mi fermo qui. Scusa se mi sono dilungato. D’altra parte, nell’ultima tua risposta hai messo in luce punto per punto, come è nel tuo stile, le tesi su cui non ti sei trovata d’accordo con me, spiegando a fondo le tue ragioni. Questo mi ha obbligato e permesso di tornare su ogni punto. In alcuni casi per difendere le mie ragioni, in altri per spiegarmi meglio e dissipare i fraintendimenti. In ogni caso mi sento di doverti ringraziare per tutto questo. Per questa tua capacità di generare pensiero nel dialogo, anche attraverso le critiche. Ti confesso di averla sempre apprezzata, fin dai tempi dei tuoi seminari, e di averla riscoperta, ora, con immenso piacere, nel corso di questa arricchente (almeno per me) chiacchierata su Giovanna.