CHI È LEI? È sepolta sotto le glosse e le sublimazioni. È come chi, bruciata e dispersa, avesse nondimeno, dappertutto, innumerevoli sepolcri, nessuno dei quali in grado di pretendere, a differenza dei sepolcri di Mallarmé, di portare a termine il poema della sua esistenza e della sua opera.
Il sepolcro di Cristo, nella meditazione di Hegel, ricava la sua potenza dalla sua unicità, e dal suo vuoto. Gli innumerevoli sepolcri, letterari, politici, storici, religiosi, cinematografici o poetici, di Giovanna, sono invece pieni zeppi di significati disparati. Ma alla fine, questi significati, che siano considerati singolarmente, o nella loro incomprensibile totalità, hanno qualcosa di deludente.
Quante bellezze la ricoprono! L’astratto sublime di Schiller, la foga patriottica di Michelet, poi Péguy, quella sintesi disgiuntiva del socialismo, del nazionalismo e della cristianità universale. Oppure Claudel, che la inchioda al verso e alla musica di Honegger più saldamente che al rogo.
Quanti volti, nell’artificio della riproduzione, le vengono prestati, per farci sognare quello sguardo assente, quel corpo inimmaginabile! La Falconetti di Dreyer, l’Ingrid Bergman di Hollywood, la Florence Delay di Bresson, la Sandrine Bonnaire di Rivette. Lei passa dietro a quei dispositivi captatori di luce come un’ombra all’improvviso convocata per un secondo destino provvisorio. Perché lei, essendo esistita, non è un ruolo, sicché l’interpretazione deve rimanere quanto più possibile vicina a un’impossibile risurrezione. Ma chi è lei? Chi resuscita?
Quante laidezze o equivoci, allo stesso modo. Ciò comincia con i sarcasmi di Shakespeare, il nemico inglese. Ma persino in Francia, c’è l’oscenità di Voltaire convinto che, per schiacciare l’infame, occorra fare di Giovanna una verginella di caserma. A tale trattamento lei resiste. Ma chi resiste? E poi nelle nostre città, tutte quelle statue inette, Giovanna che si erge con lo stendardo su un destriero di bronzo estremamente stanco. Fa concorrenza ai sinistri monumenti dove si può leggere l’interminabile elenco dei massacrati del macello del 1914-1918. Cortocircuito, nella compiaciuta mediocrità della Terza Repubblica, tra una Giovanna nazionalista e una guerra assurda, cortocircuito che è allo stesso modo il dramma della vita di Péguy, la crocifissione del suo poema dalle bassezze dell’epoca. Molto lontano dietro quei feticci calamitosi, Giovanna irradia il suo enigma persistente. Ma l’enigma di cosa?
Chi è lei, perché ci sia l’anti-Giovanna di Voltaire, e la Giovanna incarnazione del popolo di Michelet? La Giovanna nazionalista e cattolica, quella della Francia figlia maggiore della Chiesa, e la Giovanna resistente e emancipatrice? L’ultima guerra porta l’enigma al suo culmine. Perché c’è una Giovanna di Pétain, e una Giovanna della Resistenza. C’è una Giovanna della reazione più nera, della delazione e della collaborazione; e una Giovanna dei comunisti, la stessa che, con il Partito clandestino, restituiva a Aragon i colori della Francia. E tutt’ora, vi è, diciamo, una Giovanna di Le Pen e del Front national. Ovvero una Giovanna di coloro per i quali la parola d’ordine non è più la parola d’ordine di resistenza contro un invasore potente e militare, “cacciare gli inglesi dalla Francia”; ma la parola d’ordine di sopraffazione e di persecuzione di quelli che tra i nostri compatrioti sono i più esposti, la spaventosa parola d’ordine “cacciare i sans-papiers dalla Francia”. Contro tutto ciò, ci si può allo stesso modo riferire a una Giovanna di coloro per chi la Francia non è nulla, se non un imperativo di resistenza. Se non propone, per Giovanna nella preghiera, per noi nella dichiarazione politica, di legare tutto quello che succede a delle massime universali. E di coloro per chi, di conseguenza, si tratta di dichiarare che quelli che vivono qui da anni sono, con o senza documenti, di qui, tanto quanto noi.
Mi sembra che l’enigma di Giovanna risieda in questo: la singolarità del suo sorgere sta nel nodo di predicati distanti, dissimili, ai quali lei, Giovanna, non accetta mai di ridursi, né uno ad uno, né a tutti insieme. Ognuno dei sepolcri di Giovanna tenta invece questa riduzione, o al meglio questa totalizzazione, sicché Giovanna è sempre come il residuo non detto dei tentativi di farle significare questo o quello.
I predicati sotto i quali Giovanna viene arruolata ci sono tutti noti. C’è la Francia, la nazione. C’è la cristianità, la religione. C’è la Monarchia, lo Stato. C’è la guerra, l’esercito, le battaglie. C’è la prigionia, il processo, il supplizio. C’è, in diagonale di tutto il resto, la femminilità, la fanciulla simultaneamente, nel mondo di allora, vulnerabile tra tutti, e tuttavia inaccessibile, debolezza identica alla sua corazza.
Quando si combinano questi predicati, si ottiene ciò che occorre chiamare degli ossimori pratici, delle collisioni assolutamente improbabili. Sono questi che hanno affascinato gli artisti, per i quali l’ossimoro è un’operazione capitale, perché consegna nella lingua delle connessioni impraticabili, che l’arte rende necessarie. E allora abbiamo qualcosa come del sublime in atto: la giovane donna capo di guerra. La contadina che si rivolge personalmente al re. La vittima la cui parola trasparente prevale in ogni istante sulla forza brutale dei giudici. La santa bruciata come eretica e strega.
Ma per quanto forti siano queste collisioni, così singolari, si può ben sentire che Giovanna vi è come monumentalizzata nella risorsa artistica o sensibile. Diventa un repertorio, una collezione di emblemi. E il pensiero di ciò che fu si sottrae, a vantaggio di una potenza significante la quale però è priva del caso che ne costituì il nodo.
Certamente perché oltre a ciò che Giovanna potrebbe esser stata, non si prendono abbastanza in considerazione, come a rovescio dei predicati disponibili, ciò che ha scelto, nella situazione che era la sua, di non essere. Perché attraverso quel “non essere”, Giovanna, tenendosi a distanza da ciò che la situazione imponeva a ciascuno come figura obbligata, o adeguata, è meno una cristallizzazione scintillante e magnifica del tempo che un’eccezione a quel tempo, un evento del tutto casuale e contingente. Ciò che, solo, mette in luce che lei valga ancora, per noi, per tutti, indipendentemente dai predicati che la costituiscono. Non c’è più né monarchia né cristianità. Essere una donna non ha più lo stesso significato. La Francia non si pone più null’altra questione che di sapere cosa rimarrà di sé in Europa. Non si tratta tanto di cacciare gli inglesi dal paese, quanto di sapere cosa fare con loro per non farsi assorbire troppo dalla grossa Germania. Non crediamo né alle sante né alle streghe. Nelle guerre prevedibili, striscianti o apocalittiche che siano, la questione di sapere chi sia il funzionario che premerà i pulsanti non ci interessa per nulla. Eppure, Giovanna rimane un enigma. Rimane, per noi, eternamente disponibile. Come pensare che questa donna, di cui tutti i predicati apparenti rimandano a un quindicesimo secolo ormai opaco, sia così contemporanea? Occorre pure che la sua verità, o la verità che lei stessa è, sia, agli occhi di quel quattrocento, allo stesso tempo totalmente immanente, e tuttavia sottratta. Ad esso destinata, ma, nel modo che la destina, eternamente accessibile al di fuori di esso. Giovanna sarebbe forse questo: l’essenza affermativa di un secolo, proprio perché lei è quel secolo al di fuori di esso?
Colei che se ne va
Ci sono secoli di cui si dice che siano particolarmente oscuri, persino alla luce della lunga serie di massacri e disastri di ogni genere che è ciò che conosciamo della storia dell’umanità. O piuttosto, come diceva Marx, della sua interminabile preistoria. Alcuni pensano, ad esempio, che sia così per il nostro secolo, quello che si sta concludendo, il quale ha portato il crimine di Stato a una tale perfezione che noi potremmo a malapena pensare quanto è avvenuto. Ma forse si può sostenere che ciò che di questo secolo ha valore, ciò che, per dirla con Nietzsche, è in grado di reggere la prova dell’eterno ritorno, è proprio tutta l’ostinazione, la forza di pensiero e il coraggio che ci sono voluti perché sopravvivesse una certa dose di giustizia, di creazione, di resistenza e di visione affermativa universalizzabile, in condizioni spesso tanto barbare e notturne quanto quelle incarnate dal personaggio allegorico di Jünger, che egli chiama il Grande Forestale. Per i tempi a venire, spetterà a coloro che non si sono arresi al Grande Forestale portare il secolo sulle proprie spalle.
L’inizio del quindicesimo secolo, con la sua guerra infinita, le sue bande di mercenari che saccheggiano ogni cosa esistente, le sue figure statali fatiscenti e tortuose e le sue carestie, ha tutte le carte in regola per figurare nell’antologia dei periodi disastrosi. Il quattordicesimo secolo aveva già quale segno fatale la grande Peste Nera. Ma per noi, è in parte Giovanna che porta quel momento nell’essenziale di ciò che rimane, mentre la calamità pubblica non fa che indurire i tratti caotici e regolarmente infami dell’ordinarietà del treno del mondo. Ciò che destina un’epoca miserabile a una qualche verità persistente è sempre nel regime dell’eccezione.
È importante prendere in considerazione il fatto che Giovanna scelga di non essere ciò che il suo secolo le offre come possibilità ordinaria, o come predicato disponibile. In questo senso Giovanna, molto in linea con quella che il romanzo inglese ha saputo designare come funzione d’eccezione della ragazza, è innanzitutto colei che se ne va. Se ne va, non solo da Domrémy, ma da tutto ciò a cui il secolo destina una ragazza della sua età e della sua origine. Se ne va anche dai modi ordinari di andarsene. È, in condizioni anch’esse eccezionalmente tese e oscure, ciò che Virginia Woolf nel titolo di uno dei suoi romanzi, incentrato su una ragazza, chiama The Voyage Out, tradotto in francese molto lontanamente, ma non così male, con: la Traversée des apparences. Ogni apparenza predicativa, la contadina, la cristiana, la patriota, ma anche la guerriera, o la prigioniera, è non indossata o subita, ma attraversata, capovolta, presa in contropiede, dalle successive scelte di Giovanna, di non essere ciò che la situazione le prescrive di essere. In questo lei non smette mai di sorgere, e di essere fedele al proprio sorgere, con quella miscela molto speciale, che è l’evento-Giovanna, di certezza imperturbabile e di stupore per ciò che le accade.
Prendiamo il rapporto di Giovanna con la Francia, con la nazione, che è indubbiamente l’origine dei contrasti più impressionanti nel suo destino postumo. La missione che Giovanna si prefigge, attraverso l’intervento imperativo delle voci celesti, era senza alcun dubbio quella della salvezza nazionale, la cui massima è la resistenza: scacciare gli inglesi, vincere la guerra, liberare il territorio. Ma cos’è di preciso la Francia? Che cos’è la Francia all’inizio del quindicesimo secolo, se non, ancora, un processo complicato, un divenire incerto, come dimostra appunto il fatto che una monarchia inglese vi possa rivendicare la legittima sovranità? Di conseguenza, il principio “cacciare gli inglesi dalla Francia” è, in realtà, nelle condizioni dell’epoca, una massima costituente della Francia stessa, una scelta attraverso la quale la Francia è definita come resistenza e lotta, e per nulla come sostanza o persistenza. Si tratta proprio di attraversare un’apparenza nazionale verso una realtà ancora indistinta.
Questo è il motivo per cui, per quanto esagerata possa sembrare l’identificazione quasi immediata di De Gaulle con Giovanna d’Arco, essa ha almeno la legittimità che, anche per De Gaulle, la Francia non è da ricercare nella sinistra permanenza sostanziale di coloro che svolgono, in un modo o nell’altro, le proprie attività sotto la tutela nazista, ma, esclusivamente, in coloro che si pongono l’imperativo immediato di cacciare i nazisti e i loro complici. Alla luce di ciò, Pétain, burattino dei tedeschi che vincola la Francia ad un terroir immobile, può affermare di essere Giovanna solo nella più completa impostura. Diciamo che Giovanna non cade facilmente sotto il predicato nazionale, in quanto lei ne è più un evento, una capacità creativa, che un risultato. Lei sceglie di non essere ciò che il tempo vorrebbe che fosse: qualcuno che, molto lontano dai centri decisionali, aspetta, interamente attaccato alla propria sopravvivenza, di sapere da che parte penderà la bilancia. Per lei la nazione non è una sostanza definita, un corpo di cui poco importa il padrone o il simbolo. È, come per i resistenti dell’ultima guerra, una massima che deve essere praticata personalmente.
Se si considera adesso la Giovanna popolare, quella che parte dalla sua provincia rurale verso i padroni del regno, si constata che ha scelto rigorosamente di non essere ciò che ci si poteva aspettare: una sorta di profeta popolare, che solleva i contadini della sua regione, giocando sulla trance mistica o sul dono della divinazione, radunando bande opposte alla regolarità dei poteri. Ha scelto di non essere un Jacquou le Croquant al femminile, o un Thomas Münzer prima del tempo. Viene dal popolo, sì, questo è certo, ma non con un intento mezzo religioso, mezzo insurrezionale, come questi tempi ne hanno regolarmente dipinto la figura. Ciò verso cui si volge, solitaria, è lo Stato, il re, la potenza costituita. È convinta, in modo impareggiabile, che se riesce, lei, a parlare con il re, allora il corso delle cose potrà cambiare, e allora lo Stato potrà darsi da solo altri principi d’azione. Alla classica figura dell’insurrezione o della sommossa profetica, Giovanna sostituisce quella di un’azione in direzione dello Stato. Ritiene che sia possibile, che nessuna situazione implichi per questo Stato l’impossibilità di una resistenza conforme ai principi che sono i suoi. Crede che dichiarare la propria convinzione al re possa ripristinare la fiducia in tutti. Non si tratta quindi per nulla di opporre allo Stato la figura del popolo. Si tratta di fare in modo che una dichiarazione proveniente da un altrove, insituabile e laterale, venga ascoltata dallo Stato stesso. Il popolo non è dunque una sostanza o un dato, che costituirebbe una seconda scena, politica o sociale, separata dallo Stato. Il popolo è una capacità aleatoria di prescrivere allo Stato delle decisioni conformi ad alcuni principi. E il popolo esiste solo nell’esercizio di tale capacità.
Le voci di Giovanna
Cosa possiamo dire della Giovanna cristiana, cattolica? A dispetto della revisione del processo, e della legittima fama di infame collaborazionista del vescovo Cauchon, bisogna ammettere che non è stato senza alcune valide ragioni che i teologi hanno potuto dichiarare Giovanna eretica, anche se compivano, così facendo, solo il lavoro sporco dello Stato. Perché in quei tempi in cui la cattolicità ha come corpo reale la Chiesa, bisogna pur dire che non è da quella parte che Giovanna trova la mediazione della propria credenza. Come San Paolo sulla via di Damasco, Giovanna non si dà altra autorità che se stessa, ed è a lei personalmente che Dio fa cenno. Inoltre, è in fondo sul modello non noto degli dèi greci che i santi e le sante le prescrivono il suo compito. Infatti, ecco autorità celesti di cui è sorprendente il coinvolgimento così da vicino nelle guerre nazionali in corso, e il sostegno così risoluto al campo francese. Sono, queste autorità, come Atena, Apollo o Era, interessate per ragioni certamente proprie alla vittoria dei Troiani o dei Greci.
Cosa significano in realtà le voci di Giovanna? Semplicemente che l’imperativo patriottico è incondizionato e autosufficiente, essendo di provenienza superiore. E soprattutto, che non è dedotto dalla situazione in sé, o dai meandri della politica realista, bensì da una pura soggettivazione. E indubbiamente, il possibile che le voci prescrivono deve trovare la sua strada nella pratica reale, alla quale provvedono la lucidità, l’ostinazione e il buon senso di Giovanna. Ma per quanto riguarda il principio, esso dipende, nella forma dell’incontro delle voci, solo da se stesso, dal proprio accadere, e, se così si può dire, la stessa Giovanna non può farci nulla, se deve conformarsi ad esso. Proprio come i resistenti, durante l’ultima guerra, interrogati sulle loro motivazioni, rispondevano quasi tutti che era quello che bisognava fare, e basta.
La cattolicità di Giovanna ovviamente non è discutibile. Ma allo stesso tempo, essa rimane, per quanto riguarda il destino pubblico di Giovanna, stranamente ridotta a un imperativo personale, che dà forma, nelle risorse intellettuali dell’epoca, al carattere in definitiva incondizionato di ogni vera resistenza.
E infine, che cos’è Giovanna come figura femminile? Il motivo della verginità sembra collocarla, in quell’epoca, sotto il segno di Maria. Per i suoi contemporanei, lei è la Pulzella. Sostenitori e oppositori si sono aggrappati a questo predicato in modo stupefacente. Occorre la testimonianza fisiologica delle matrone perché il re possa impegnarsi un poco, e occorre insinuare il dubbio perché gli inglesi facciano propaganda, o perché Voltaire articoli l’anticlericalismo e l’oscenità. Ma alla fine, che importanza ha per noi? La verginità qui è semplicemente il segno di un divario: quello che significa che non è in alcun modo secondo l’uomo, a partire dall’uomo, o in una qualche delega matrimoniale, che Giovanna iscrive la propria decisione. È una donna anteriore a ciò che l’epoca ritiene essere, in politica, una donna, anteriore alle stigmate di potenza che l’uomo può trasmettere ad alcune donne. Si è fatta avanti, come una giovane ragazza partita da sola, e non tramandata, sotto la corazza di una femminilità inavvicinabile e tuttavia decisiva. Indubbiamente, solo una donna la cui bellezza si accordasse a una corazza interiore aveva, nelle condizioni dell’epoca, l’autorità tale da poter dire lealmente, al di fuori di ogni stupro e di ogni mostruosità, soltanto perché questo era ciò che l’epoca esigeva: “Fate la guerra, non l’amore”.
Patriota senza nazione, popolare senza insurrezione, cattolica senza Chiesa, donna senza uomo: è così che Giovanna attraversa le apparenze, e si sottrae a ogni predicato.
Le versioni reazionarie del suo culto consistono tutte nel riportare su di lei, come pesanti totem, o come le statue equestri delle nostre città, i predicati di cui lei era solo la diagonale. Le sono state messe addosso nuove catene per nuovi roghi inapparenti, un nazionalismo della sostanza e della razza, un popolo eletto, una cattolicità da preti e di sottomissione, una femminilità da sacrestia.
Occorre restituirla alla sua erranza, alla sua universalità, all’evento senza sostanza né condizione realistica che fu, e rimane. Di questo primo quindicesimo secolo, i cui orrori ordinari non hanno nulla da dirci, lei è una verità. Infatti, per quanto peculiare e insieme monotono possa essere un momento della storia degli uomini, ciò che nel suo cuore fa eccezione rimane. Ciò che ha saputo, anche in una sola occasione, non ridursi ai predicati di sottomissione che il suo tempo ha imposto, rimane. Giovanna è interamente, per tutto quello che sceglie di essere, e più ancora per quello che sceglie di non essere, del suo tempo, di quell’inizio sanguinoso e decomposto del quindicesimo secolo. Ma ne è una verità, una verità per sempre. È ciò che, della sua epoca barbara, merita il ritorno eterno.
Come tale, lei è davvero dedicata, come disse Péguy del suo poema, “a tutte quelle e a tutti quelli che hanno vissuto la loro vita umana”.