1. Le figure dello scambio
Nel vasto mare del linguaggio simbolico, che ha radici storiche viventi per noi parlanti, le figure dello scambio sono fondamentali per comprendere la posta in gioco a cui ci si sente legati e per dare un’impronta ed un orientamento al patto di civiltà che vorremmo si delineasse nel rapporto tra donne e uomini. È un patto che si è disgregato rispetto al passato, che si sta modificando, e a cui partecipiamo direttamente e indirettamente.
Che cosa sono le figure dello scambio? È un’espressione che riprendo da due testi femministi, che sono molto interessanti per come impostano questa visione filosofica e politica. Intendo prima di tutto Non credere di avere dei diritti (1987), un testo scritto collettivamente dalla Libreria delle donne di Milano, in cui vengono presentate alcune importanti figure simboliche come quella della libertà femminile accanto a quella della disparità tra donne. Si tratta di figure guadagnate attraverso l’esperienza soggettiva femminile e fatte circolare nel linguaggio di tutti per vedere le trasformazioni che provocano attraverso le risonanze a catena nel parlare comune1. Altrettanto importante per cogliere la forma e il senso dell’azione politica di portare allo scambio le figure simboliche guadagnate con l’esperienza è La politica del desiderio di Lia Cigarini (Cigarini, 1995, pp. 170-171). Queste figure sono frutto di desiderio, di incarnazione di esperienze, non sono mai scioglibili da un percorso di soggettivazione che le crea nel mentre che ne viene creato, in un circolo trasformativo. Il legame tra queste figure e il desiderio è descritto con grande forza espressiva e filosofica da Luisa Muraro in Al mercato della felicità, dove mostra che esso è la leva affinché la necessaria mediazione nel simbolico sia una mediazione vivente (Muraro, 2009, pp. 119-137).
Leggendo Medea e ragionando su di lei, mi sono chiesta quale figura di scambio potesse essere per le donne che vanno a quel grande mercato del linguaggio dove ognuna porta quel che ha e quel che è, contemporaneamente. Le due cose essendo inseparabili ed aspetti della medesima realtà in uno scambio vivente e non formalmente legato solo a ciò che si ha, cioè ciò che si sa dire.
A differenza delle figure dello scambio come la relazione e la disparità tra donne, che sono state guadagnate in un percorso politico in cui a poco a poco sono state messe a fuoco come fondamentali e costitutive per una civiltà a venire, con Medea ci troviamo di fronte ad una figura che invece troviamo in un testo delle tragedie greche. Dunque una figura già delineata, precisa. Il percorso per farla divenire una figura dello scambio da parte delle donne è allora diverso. Occorre leggerla e rileggerla nel testo di Euripide, sentirla interiormente, viverla e comprendere quali lati faccia emergere dell’esperienza femminile che altrimenti vengono rimossi e rimangono oscuri. A quali forme politiche condivise la figura di Medea possa aprire una strada. Allora, essa può diventare a sua volta una figura dello scambio. È evidente che il percorso è molto diverso da quello delle figure guadagnate dal portare a parola l’esperienza condivisa di gruppi di donne, ma il punto di arrivo è simile. Possiamo avere infatti anche con Medea una figura che, pur ripresa dalla tradizione maschile, diventa allora una mediazione per un percorso politico e filosofico di donne se passa attraverso la soggettivazione femminile, che ne coglie aspetti inediti.
Penso che si possa fare con Medea quello che ha fatto ad esempio Françoise Duroux con la figura di Antigone. Duroux, criticando le diverse interpretazioni di Antigone date da molti pensatori come simbolo neutro di un’etica contrapposta al potere istituzionale delle leggi, vede in lei la giovane donna che prende una parola pubblica di fronte e contro Creonte sul senso che le leggi della città debbano avere: saranno leggi giuste se commisurate ad una amicizia guidata da eros (Duroux, 2021, pp. 83-97). Dunque il conflitto con Creonte viene spostato sul senso delle leggi rispetto alle quali lei prende parola pubblica. Una parola che tutta la tragedia indica esplicitamente come parola di donna che rompe con la tradizionale divisione dei ruoli e non li conferma affatto.
2. Lo sguardo di un uomo greco
Un primo passo per comprendere Medea alla luce della differenza sessuale è leggere la posizione di Euripide che, come una trama incrociata, emerge dalla tragedia. Colpisce come il vero dramma della tragedia per Euripide non sia solo l’azione crudele ed enigmatica di Medea ma anche la mediocrità di Giasone e pure di Creonte. Non è più quel Creonte che nemico di Antigone scaglia parole dure contro di lei, in uno scontro tra forze, dove egli è consapevole di tutto il potere che possiede. È qui un Creonte più modesto. Così pure Giasone rappresenta il desiderio di potere di un uomo che cerca di conseguirlo obliquamente, attraverso il matrimonio con il potente di turno. Pratica una via di avvicinamento al potere senza troppo clamore, senza ripensamenti e senza consapevolezza chiara delle proprie azioni e delle sue conseguenze. Giasone appare come un uomo un po’ troppo “normale”, come se fosse senza inconscio, senza senso di colpa, senza presentimenti, senza empatia. Naturalmente alcuni di questi termini, in particolare inconscio e empatia, sono contemporanei ed estranei alla cultura greca, e tuttavia servono a leggere bene l’atteggiamento che Euripide attribuisce al suo personaggio maschile centrale.
È facile notare in Euripide un’ammirazione non dichiarata per la forza incontenibile di Medea rispetto alla tonalità grigia di Giasone, che argina, cerca di mediare argomentando per far accettare il suo gesto ingiusto.
Tutt’altro tono Euripide adopera per Medea che, pur andando incontro ed essendo agente della rovina di sé e degli altri, possiede un’assolutezza, un’incandescenza difficilmente dimenticabili. Le due polarità che lei subisce violentemente e cioè l’ingiustizia patita per la rottura del patto consenziente tra una donna e un uomo, da un lato e dall’altro la ferita inferta al suo amore, si presentano squilibrate tra loro. Prevale sicuramente la ferita d’amore sulla rottura dei legami di convivenza, nonostante la palese ingiustizia operata da Giasone.
Euripide sente il fascino di questa donna regina della Colchide, straniera e barbara. Di stirpe divina. Assoluta nell’amore. Del tutto sola. Con una forza tremenda. La mediocrità certo non l’accompagna, neppure nella vendetta distruttiva. Non è per niente imparentata con la figura di Elettra, che per vendetta arma la mano del fratello per uccidere la madre. Vendetta fredda e premeditata, covata nel tempo, senza farsi notare, certo non realizzata nell’immediatezza, né in prima persona. Mentre la vendetta di Medea è per passione e senza misura. Medea agisce da sola e con tale velocità che solo alcune donne vicine a lei si rendono conto di quel che sta per accadere.
Euripide avverte il fascino di Medea, ma, nella struttura stessa della tragedia, si sente l’arcaica paura maschile di un uomo che sa che i figli sono generati dalla donna e teme che così come li ha fatti nascere lei abbia anche il potere di distruggerli, sottraendoli in questo modo a lui per sempre.
3. La nutrice e le donne di Corinto
La nutrice conosce Medea, ne conosce la forza, l’animo impetuoso, l’odio che può provare: “Ha un animo impetuoso e non sopporterà l’offesa” (Euripide, 1989, p. 350). È stata oltraggiata perché sono stati infranti i patti e le promesse “conchiuse con stretta di mano” (p. 349). Quegli accordi cioè che non sono istituiti dalle leggi della città, ma sono garantiti dalla dea Temi, che presiede all’ordine delle cose e del cosmo tutto. Un ordine naturale e umano al medesimo tempo. Ora, è Temi la “custode dei giuramenti” (p. 355) che Giasone ha infranto con leggerezza, senza troppo fermarsi alla forza del loro vincolo. Sposandosi con la figlia di Creonte, ne ha tradito senza remore l’impegno.
La nutrice vede Medea “abbandonata nel dolore, consumando in lacrime tutto il tempo, da quando si è accorta d’essere offesa dal marito” (p. 349). È assolutamente sola. Certo c’è la nutrice, ma è una sottoposta. Ci sono le donne di Corinto (il coro) a cui Medea si rivolge, ma non possono nulla nel distoglierla dalla sua vendetta. La loro visione dei legami con gli uomini è radicalmente diversa.
La nutrice sta dalla parte della sua padrona e critica la crudeltà di Giasone, ma ha paura della rabbia di Medea: “E non desisterà dalla sua rabbia prima di essersi scagliata contro qualcuno” (p. 352). Del resto Medea stessa dice di sé: “Dura con i nemici, buona con gli amici” (ib.) e Giasone, tradendola, è diventato il più odioso dei nemici.
Le donne di Corinto sanno che da parte di Medea è in gioco amore nella sua forma smisurata, che comporta eros, passione e odio. È un amore ben lontano da quello che loro hanno come modello, che coinvolge le regole del vivere bene e in armonia, secondo precise regole che guidano la vita quotidiana nella casa. Sono “gli Amori compagni di saggezza” (p. 375). L’amore smisurato invece non guarda in faccia nessuno e si comprende bene come sia più forte dell’amore per i figli.
4. La rabbia, una figura politica fondamentale
Medea può significare e orientare una delle carte simboliche giocata dalle donne nello scambio tra i sessi. Abbiamo visto: l’amore per Giasone, di fronte alla sua indifferenza, si è trasformato in odio. I patti non scritti che rimandavano ad un ordine profondo sono stati infranti da lui. Non sono più possibili mediazioni tra questa donna e quest’uomo. La rabbia, che nasce dal dolore, invade Medea e diventa protagonista assoluta. Per analogia e per traslato, la rabbia è una delle prime passioni che hanno messo in moto le manifestazioni di piazza e le azioni dei gruppi nel movimento delle donne nei primi anni Settanta. La rabbia per il dolore di un tradimento di fondo da parte degli uomini di cui le donne prendono coscienza per la prima volta in modo esteso e diffuso in quegli anni e costituisce l’humus dell’azione politica di protesta assieme a quello più profondo del senso della libertà, da cui la rabbia non è disgiunta.
Il libro di Carole Pateman, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna, nonostante sia stato scritto nel 1988, permette di comprendere bene la presa di coscienza femminista degli anni Settanta e la rabbia rispetto al tradimento epocale degli uomini nei confronti delle donne. Rabbia come primo moto di rivolta rispetto a patti sessuali ingiusti, fatti passare come naturali. Scrive Pateman: “Le relazioni di subordinazione tra uomini, per essere legittime, devono scaturire da un contratto. Le donne nascono nella soggezione” (Pateman, 2015, p. 80). Il contratto storico e pubblico tra uomini presuppone un contratto “naturale”, per cui le donne sono in uno stato di subordinazione. Nel privato gli uomini hanno il diritto “naturale” di usare del corpo delle donne sia per il sesso sia per la maternità. Con i movimenti femministi degli anni Settanta le donne hanno preso coscienza di questo falso contratto, nel quale risultano subordinate senza aver contrattato niente. La rabbia che esprimono nasce da dolore per essere tradite da uomini a questo livello più profondo, nonostante legami d’amore. Dove l’amore però finisce per rimandare all’accettazione implicita di questa subordinazione “naturale”.
Io credo che non si possa comprendere la rabbia politica femminista senza sentirne la vicinanza al sentimento del dolore per un amore tradito in modo radicale e di cui improvvisamente le donne prendono consapevolezza. Medea può essere una delle figure di scambio che permette di esprimere la rabbia delle donne che nasce da questo senso profondo di tradimento.
Se andiamo a vedere lo stile e la tonalità delle manifestazioni femministe degli anni Dieci e Venti del nostro secolo, vediamo come la rabbia pervasa da dolore è presente nelle manifestazioni contro i femminicidi, e contro la violenza degli uomini sulle donne. La rabbia si esprime violentemente nel riconoscere in ogni uomo un possibile stupratore.
Quando dico che la rabbia nasce dal dolore mi riferisco ad un dolore non elaborato, causa scatenante di un’azione immediata. Sappiamo che il dolore elaborato è quando viene vissuto dall’interno, attraversato passivamente, messo in parole, accolto nei suoi aspetti trasformativi in un tempo lungo. Medea è invece la figura della rabbia femminile per un dolore non pensato, che spinge all’azione subito.
La rabbia, quando è trasformabile in politica, non ha certo una connotazione negativa. Ha un fortissimo potenziale d’energia, che le manifestazioni femministe traducono in potenziale politico. In azione condivisa e visibile. La sua immediatezza si mostra nel fatto che le manifestazioni sono forme politiche collettive dove il perno è l’essere presenti in massa nelle strade e nelle piazze, nel qui e ora. Il loro significato eccede il piano del discorso e della dicibilità, anche se in un quadro più generale c’è un legame tra l’eccedenza di significato della manifestazione di piazza e il discorso che spiega la manifestazione. E tuttavia l’eccedenza di significato della manifestazione non è mai del tutto riportabile al discorso politico che la spiega e l’accompagna. C’è uno iato.
L’azione che si significa nell’immediatezza, sostituendosi all’elaborazione discorsiva, trova una delle sue rappresentazioni nella figura simbolica di Medea. Ricordiamo infatti le parole che rivolge a sé stessa quando prende consapevolezza del tradimento: “Medea: decidi e agisci” (Euripide, 1989, p. 361).
5. La figura femminile della distruzione
Medea porta con sé anche un altro e diverso immaginario. È la figura di donna che non è legata al materno, alla cura dei figli e alla preoccupazione per gli altri. Si comprende Medea proprio in contrasto con la figura del materno, costitutivamente relazionale e mai incarnabile nella solitudine di una donna. Il materno è relazionale per forza di cose, in quanto intimamente legato alla nascita e alla cura dei figli e per traslato degli altri. La figura del materno ha una sua specifica autorità, che ha a che fare con la creazione di una comunità in divenire non fondata su leggi scritte. La sua forza si fonda sul fatto di far crescere gli altri, da cui ne viene riconoscimento. La sua autorità rispecchia così l’etimo della parola latina augere. Medea è invece la donna regale, altera, ricca di poteri e allo stesso tempo distruttiva. Sola.
Viene alla mente la figura di Medea nel film di Pasolini del 1969. Non perché Medea che sto descrivendo come figura di scambio simbolico abbia a che fare con la Medea, che Pasolini ama e presenta come la donna che viene da un mondo antico e che si trova deprivata e resa estranea in un mondo che non la contempla né l’accoglie. Ma perché è indimenticabile la figura di Maria Callas, così forte, enigmatica, con un portamento da regina in ogni fotogramma. Il viso intenso e ieratico. Bello come un’icona senza tempo.
Sappiamo dalla mitologia greca che Medea ha legami con il divino, in quanto in forme diverse, a seconda del mito, la sua figura ha radici nella divinità del Sole, Elio. In più sappiamo dalla tragedia di Euripide che possiede poteri magici.
Mi interessa la figura di Medea perché porta allo scambio il simbolo della donna distruttiva, di radici divine, che proprio attraverso la distruzione porta con sé un senso più profondo e meno narrabile di giustizia. Più oscuro. È un simbolo che manca al pantheon delle divinità occidentali. Come se fosse impensabile che una donna non abbia nei figli il suo senso d’essere e nella cura degli altri l’impegno di un’esistenza. E come se il divenire nei suoi aspetti più fertili non passi anche attraverso la distruzione generatrice.
Nella cultura antica vedica induista, invece, esiste, accanto ad altri dei, il simbolo potente della dea Kali. La dea Nera, uno degli aspetti della Grande Madre, la dea più antica, che si mostra in forme molteplici e diverse. In una delle sue apparizioni è la dea irata e distruttiva, che crea repulsione, e tuttavia in un certo senso apre a nuove strade trasformative.
Per approfondire questa figura, seguo la lettura di Ghiti Thadani, che è studiosa dell’antica mitologia indiana. Scrive in Madre/Matrice/Trasformatrice che nel mondo prepatriarcale la figura della dea Kali rimanda ad una serie di significati molteplici e aperti, che con il patriarcato vengono ridotti ad un unico significato monocorde, quello di una dea dell’oscuro e della distruzione immediata e fine a se stessa, mettendo in sottordine il fatto che essa rappresenta anche la distruzione come via della rigenerazione. Non a caso Kali proviene dalla radice Kal che significa contemporaneamente tempo e oscurità, elementi che rimandano ad un tempo di trasformazione (Thadani, 1992, p. 223). Esistevano più figure di dee legate a Kali, così che è solo con il patriarcato che diviene la rappresentante monocorde dell’alterità pericolosa (p. 224). Scrive Thadani:
Kali rappresenta infatti l’altro femminile, l’antitesi della donna sottomessa e della madre biologica e nutritiva: un altro femminile oscuro ma certamente potente che incarna il tempo, la morte, il desiderio e la sessualità, insomma l’oscurità dell’inconscio o l’ombra nascosta del patriarcato. Tuttavia non appena quest’immagine si esprime coscientemente nel suo aspetto interiorizzato soggettivo, essa si distacca dall’oggettivazione patriarcale e crea una semantica pluridimensionale del sé femminile (p. 195).
È proprio nel senso indicato da Ghiti Thadani che attiro l’attenzione sulla figura di Medea, nella quale vedo in controluce quella di Kali. Immergersi nella figura di Medea può essere allora una via di presa di consapevolezza interiorizzata e soggettiva che apre ad una semantica molteplice di modi d’essere, che possono essere portati allo scambio simbolico. In questo modo anche gli aspetti violenti dell’agire femminile possono diventare figure dello scambio. Senza rigetto. Come una delle carte del gioco grande del linguaggio e della vita per significare quelle trasformazioni profonde che passano attraverso la distruzione a volte necessaria dell’esistente.