«L’origine del mio impulso a fare arte si intreccia con i luoghi in cui sono nato e cresciuto, nel mio caso, la periferia napoletana di Ponticelli negli anni Ottanta-Novanta del Novecento. Si trattava di una periferia urbana intesa come un mondo vuoto di mondo, un ambiente relegato fuori dalla città, privo di relazioni sia interne, sia con la città stessa, in cui la stessa configurazione urbanistica determinava uno stato di estraneità e di confinamento (ricordo ad esempio gli ampi stradoni che tracciavano gli assi del quartiere e che, da bambino, per me erano come dei confini disumani e invalicabili, a dismisura di qualsiasi rapporto, anche fisico). È nell’angoscia provocata da questo vuoto che sento di aver intuito per la prima volta che l’unica strategia possibile di sopravvivenza era di rivolgersi alla creazione di forme, che per me hanno quindi la loro radice nell’eccesso di vuoto fisico, urbanistico, culturale».
Queste parole del pittore, incisore, fotografo, video-artist e (negli ultimi anni sempre più decisamente) scultore Christian Leperino (Napoli, 1979) introducono forse meglio di ogni scheda biografica il senso di un percorso artistico intenso e serrato, nel quale abbiamo creduto di rinvenire tensioni e prospettive affini alle tematiche al centro dell’opera di Lucrezio, così come enucleate in questo numero di “K.”. Ne è nato un lungo e stimolante dialogo, iniziato nel febbraio scorso e protrattosi fino a maggio, in cui l’artista si è generosamente confrontato con le suggestioni poetiche e concettuali lucreziane, parlando liberamente del proprio modo di lavorare e focalizzandosi poi sempre di più su alcuni nuclei di discussione. Un dialogo che si è svolto nello scenario eccezionale del suo atelier, la chiesa della Misericordiella nel Rione Sanità a Napoli, sede oggi del “Centro di Arte Contemporanea SMMAVE - Santa Maria della Misericordia ai Vergini”, fondato dallo stesso artista alcuni anni fa. La possibilità di dialogare in questo luogo non è stato solo un privilegio personale, ma ha costituito anche la premessa, tanto inaspettata quanto indispensabile, per provare a riflettere su alcuni aspetti meno evidenti della scultura di Leperino, del suo modo di lavorare e creare. Vedere il modo in cui viene concepita una scultura, partendo dall’ibridazione di materiali frammentari e di diversissima provenienza, ha infatti costituito la base per porre alcune questioni che, avendo presente solo l’ “opera compiuta”, difficilmente sarebbero potute emergere.
Due parole ancora sulla biografia artistica di Christian Leperino, che, come detto, muove dall’esperienza della periferia non-luogo di Ponticelli e dalla pratica della Graffiti Art. L’artista napoletano prosegue la sua formazione all’Accademia di Belle Arti di Napoli, per poi misurarsi con quasi tutte le tecniche delle più recenti frontiere dell’arte contemporanea. Concentrandosi prima sul corpo umano, poi sulla rappresentazione della metropoli, Leperino ha indagato in diverse installazioni artistiche il rapporto tra lo spazio della città e i suoi abitanti1. Dopo aver attraversato la scena internazionale dell’arte contemporanea2, nel 2015 fonda, come detto, il “Centro di Arte Contemporanea SMMAVE”, dando una svolta (su cui si tornerà più avanti nella conversazione con l’artista) al suo percorso non solo artistico. Da questo punto in poi la scultura diventa sempre più centro focale del lavoro di Leperino. Ciò che colpisce di queste opere plastiche, e che costituisce anche il punto di innesco di questo dialogo nel segno di Lucrezio, è il riferimento, tanto esplicito ed evidente, quanto sofferto e contrastato, all’arte antica, alla statuaria greco-romana.
(Da Abisso, Castello Aragonese di Ischia, 2019)
(Da Abisso, Castello Aragonese di Ischia, 2019)
K.: Di fronte alle tue sculture, in particolare negli ultimi anni, l’osservatore è colpito dai riferimenti, espliciti ma pieni di contrasti, all’arte antica. Qual è il senso di questo tuo intenso dialogo con la scultura classica? Perché questa ripresa della forma classica appare non solo frammentaria, ma avviene attraverso la frammentazione della forma stessa? Perché vi è una ripresa della scultura antica, ma come amputata?
Leperino: Ciò che mi affascina del mondo antico è quel senso di mortalità, di caducità che esso evoca, il suo essere per me ferita, frattura. Nel mio lavoro, al di là di ogni aspetto simbolico, non posso non guardare all’antico come a un tempo felice, integro. Il riferimento all’arte classica è quindi per me come un modo per ricucire un rapporto con l’antico in quanto elemento costitutivo della nostra tradizione culturale. L’antico è come un terreno stabile da cui muovere, non solo per il riferimento ad un mondo formale, ma ancora più per il mondo di cui quella forma diventa espressione.
Ma la statua classica per me non è solo superficie, ma anche e soprattutto insieme anatomico, insieme di significati che ha però perso forza di rispecchiamento, che è ora privo di radici. È come una statua restituita dal mare della storia dopo un immane naufragio. Il problema che si pone quindi a me in quanto artista di oggi è come raccontare, dialogando la forma antica, anche questa sconfitta, questo fallimento, questa perdita, come recuperare un mondo scomparso dicendo anche la sua scomparsa e il suo impatto su di noi. Per questo fare scultura è per me recuperare frammenti della storia in cui innestare schegge dell’oggi, è accettare, farsi carico e attraversare l’angoscia dei vuoti, come quello ad esempio tra il collo e la spalla di una statua. Solo attraversando questi vuoti, i silenzi e le assenze della forma, è per me possibile trovare un luogo in cui l’artista oggi può insediarsi, lavorando non a partire dai punti già pieni e rivelati.
K.: Al di là di banali differenziazioni terminologiche, e proprio prendendo le mosse da questo problema del “vuoto” e dal suo rapporto con la forma, esiste per te una differenza tra “classico” e “antico”?
Leperino: La differenza tra classico e antico è abbastanza semplicemente riconducibile al fatto che ‘classico’ è per me una sorta di derivazione dall’ ‘antico’, nel senso che classico è già una specie di etichetta che in qualche modo sintetizza questa vaga idea di qualcosa “che viene prima”. Più che al classico, sono interessato all’antico proprio perché da un lato riguarda qualcosa che viene da lontano, dall’altro è meno definibile e riconoscibile, e per questo posso in qualche modo inquadrarlo di meno. È qualcosa di davvero “lontano” e proprio per questo la scultura mi è utile e necessaria perché, come artista, io faccio dei viaggi nel tempo. Per molti artisti, realizzare un’opera classica o antica sembra sia semplicemente “rappresentarla” come tale. Per me invece operare nell’antico è soprattutto operare dentro il proprio corpo, nella propria emotività, nella propria psiche, perché la capacità dell’artista è quella di immedesimarsi e lasciarsi angosciare dal vuoto della memoria dell’antico. Ciò è possibile semplicemente attraversando le nostre città, le opere d’arte, le architetture, i templi diroccati che gli antichi del passato ci hanno consegnato come splendore e bellezza, come meraviglia, ma anche come percezione dei materiali. Se mi trovo davanti ad un marmo, un bronzo, una colonna, un tempio, non posso non angosciarmi ed emozionarmi al tempo stesso, chiedendomi da un lato come riempire quel vuoto, dall’altro come abbiano fatto quegli uomini del passato a fare quelle opere, trasportando dalla cava i blocchi di pietra: apro cioè dei varchi temporali, delle connessioni col tempo, cercando di fare dei passi nella storia riconducibili all’opera. L’artista è chi fa dei passi nell’abisso, nel vuoto, un movimento necessario perché forse ci può indicare un percorso, una traiettoria, anche non sempre afferrabile. A volte questi “viaggi” sedimentano per un’intera vita, anche nella forma di esperienze fatte da ragazzi che ritornano decenni dopo. Questo significa non arrendersi a questo incontro col vuoto.
Spesso mi irrito con molti artisti che usano queste “icone” dell’antico, queste tracce immateriali dell’antico. Alcuni riprendono un busto antico e lo “realizzano” con una resina contemporanea, altri riprendono lo stile pittorico di Caravaggio. È chiaro che il risultato, la “bellezza”, metta poi d’accordo tutti. Recuperare un frammento di un tempio greco e spostarlo in una galleria significa fare un’operazione di marketing. Chi non si emoziona di fronte ad un frammento delle rovine di Paestum, o di fronte ad un frammento del braccio del David di Michelangelo, dinanzi ad un quadro di arte contemporanea che, nella grande maggioranza dei casi, è dipinto alla maniera di Ribera o Caravaggio? Il problema è che essere connessi con l’antico, dare un senso all’antico, non va in questa direzione, non per me. Tendere una mano verso l’abisso del passato significa per me attraversare il vuoto, e accettare che questo vuoto sia una mancanza che è al tempo stesso una necessità. Colmare questa mancanza, rispondere a questa urgenza, è un po’ come costruire la propria storia. Da dove veniamo precisamente? Chi c’era prima di noi? Io penso infatti che le opere d’arte, siano esse architetture, manufatti, strade, città, possano essere sempre suggerimenti che ci vengono tramandati da altre generazioni. Un tempio non è mai solo un luogo sacro, dentro di esso è sempre nascosto un messaggio rivolto al futuro, e sta a noi saper interpretare quel messaggio. In tal senso, un’opera d’arte è sempre contemporanea: Fidia è stato un artista di “arte contemporanea”, ragione per cui copiare un artista “antico” è una sorta di plagio, almeno finché si tratta di imitare le superfici. I romani fanno già in parte un’operazione che va in questo senso. Non riuscendo più a comprendere davvero i greci, iniziano a concentrarsi sulle superfici, a copiarle in quanto tali. È chiaro che la statuaria romana, una statua ellenistica o di età imperiale, offra ispirazioni incredibili, che io stesso cerco di attraversare. Ma in esse si palesa anche un vuoto, una sorta di incapacità di leggere l’universo greco, che pure sembra prossimo. Si tratta di due modi di leggere che caratterizzano spesso, se non sempre, il rapporto con l’antico: dialogare con la superficie o con la profondità. Michelangelo riesce a rapportarsi con la profondità, come Caravaggio, Rodin, Kounellis, che pure lavora sulla profondità. Si tratta allora di condurre l’arte, e la scultura in particolare, oltre la superficie dell’opera, tanto che la ferita di un’opera diventi la sua bellezza (come appunto in Caravaggio). Solo in questo modo è possibile sperare, almeno in parte, di sottrarsi alla banalizzazione di quel tipo di immagini.
È in questo ambito che si pone per me anche il problema della tecnica, ovvero di quella differenza tra tecnica come techné, capacità di fare una cosa, e tecnica moderna, tecnica tecnologica. Da un lato cioè vi è la tecnica come capacità di fare qualcosa a partire da un rapporto concreto con un materiale, rapporto che determina anche la forma: un “saper fare” in continuità con il mondo del passato che presuppone un rapporto determinato con il mondo, determinato sia riguardo all’orizzonte in cui il soggetto che fa si trova immerso, sia rispetto al rapporto che chi fa intrattiene, più o meno coscientemente, con una comunità di cui è espressione. Dall’altro la tecnica come logica, linguaggio, pratica di dominio del mondo e delle cose, astratta dal contesto materiale, senza orizzonte determinato, non legata ad una comunità di riferimento (nel senso che non è necessariamente sua espressione, né viene incontro ai suoi bisogni). Questa tecnica moderna costruisce un mondo di cose estranee, rispetto a cui il singolo si trova in un rapporto di estraneità, un ambiente-mondo inteso come vuoto da riempire solo di fantasmi altrettanto astratti. La tecnica che ha un legame con il modo pre-industriale di costruire una cosa (e, quindi, di fare un’opera) deve porsi oggi necessariamente in rapporto con questo vuoto.
(Da Abisso, Castello Aragonese di Ischia, 2019)
In tal senso, la scultura, su cui vado sempre più concentrando il mio lavoro, è l’arte che sento più estranea rispetto allo “spirito dei tempi”, alla tonalità fondamentale della sensibilità di oggi. Prima di tutto, la scultura crea cose fatte di materia, cose “pesanti”, gravitanti sulla terra, tridimensionali, irriducibili alla bidimensionalità virtuale dell’immagine e del digitale. La scultura si sporca ancora con la materialità dei materiali, deve porsi questo problema e risolverlo attraverso la forma. Poi, la scultura evoca necessariamente il problema dello spazio in cui deve porsi o essere posta, cioè, evoca il problema del rapporto con l’altro dell’opera, con cui deve creare un dialogo, fosse pure fatto di contrasto, rottura, estraneità. Da questo punto di vista, non posso fare a meno di rilevare il rapporto poco “onesto” che molte opere d’arte contemporanea rischiano di avere con gli spazi in cui vengono collocate: spesso si tratta infatti solo di giustapporre installazioni, video o opere simili, fatte di materiali asettici o digitali, in spazi antichi, in contesti storici o addirittura in chiese, tutti spazi con i quali queste opere spesso non hanno alcun rapporto, tanto da sembrare solo aggiunte, sovrapposte, non necessarie. Per me invece vale l’inverso: l’opera deve porsi il problema dello spazio in cui si trova, spesso nel senso che è l’opera stessa a conferire un senso di sacro e/o di antico al luogo. Rispetto all’architettura, poi, la scultura non si deve porre problemi di uso, finalità etc. Da un lato, è un’arte “autonoma”, dall’altro è ancorata alla terra, alla materia. È per questo che si propone come una pratica ideale per sottrarsi alle tendenze fondamentali che caratterizzano la contemporaneità (alienazione, smaterializzazione dei corpi e del rapporto con essi, esperienza virtuale, ignoranza o indifferenza rispetto ai materiali, etc.).
Il punto è allora per me quello di porsi in modo sincero rispetto al mondo antico: recuperare sì l’antico, ma per capire fino a che punto è ancora possibile inabissarsi in esso. Per questa ragione non si tratta assolutamente di “tatuare” sul classico qualcosa di contemporaneo, ma, invece, di aprire, anche con attitudine programmaticamente teatrale, il sipario della fantasia per costruire un mondo. Allo stesso tempo, l’artista deve lavorare attraverso il movimento delle sue mani, delle sue braccia, attraverso il corpo. Per questo la tecnica è fondamentale: perché dietro e dentro di essa c’è una forma mentis. Tecnica e idea si condizionano a vicenda. La scultura è infatti un problema fisico, un confronto sul piano materiale dei corpi. Più che svelare qualcosa, la scultura è allora per me naufragare senza appigli nell’antico.
(Da Abisso, Castello Aragonese di Ischia, 2019)
K.: Riprenderemo più avanti il tema del naufragio, che, con la tua “installazione diffusa” Abisso, del 2019, sembra aver assunto una funzione cruciale nel tuo lavoro. Rimanendo invece a quanto hai appena detto, ci sembra che vi sia un altro punto di particolare importanza, perché l’elemento che più colpisce osservando la tua scultura è che tu, nel rapportarti all’antico, rifiuti la “ricostruzione”, segnalando sempre l’impossibilità di recuperare qualcosa nella sua integrità. È come se il tuo lavoro consistesse nel “rovinare le rovine”, affinché non possa nascere l’illusione del classico inteso come canone, potere, imposizione, e possa emergere invece sempre la finitezza, la caducità, la frattura.
Leperino: Certo. Ad esempio, per me un busto romano è classico, un kouros greco è antico. Quando deturpo, graffio, anniento la superficie della mia scultura o della mia opera dipinta è perché quella ferita si ripropone a livello percettivo dentro di me come reazione alla mia incapacità di leggere fino in fondo quel vuoto, quell’interezza perduta. Io ho un momento di abisso, che, nei confronti dell’antico, si traduce per me in sofferenza, perché il mio corpo soffre, perché ho un legame “amoroso” con la mia storia, dal momento che, per evolvermi, devo capire le mie radici. Si tratta di legami complessi, di radici lontane, che creano una sorta di baratro tra me e quel mondo, che però è per me vitale.
Questa angoscia, questa rovina nell’assenza, rende anche il mio corpo una rovina nell’assenza. Dal momento che io mi trovo dinanzi al compito di realizzare delle forme, delle superfici, esse conservano questo tormento. Guardo al classico con spirito contemporaneo, il che mi spinge ad annientare la sua superficie. Quando ad esempio guardo il Partenone, non mi interessa nulla della sua bellezza estetica, una bellezza, ancora una volta, della superficie. Mi interessa come i buoi abbiano trasportato i blocchi di marmo dalle cave all’acropoli, chi e come abbia costruito le impalcature attraverso le quali la bellezza è arrivata su quell’area elevata della città. L’impossibilità, l’erotismo insito in questo tipo di rapporto, mi spinge a ricordare sempre che un capitello non è solo un capitello, ma è un mondo. Quando mi reco in Grecia, la prima tappa è sempre il Partenone. Ma non per cercare quella “bellezza” che ormai è sotto gli occhi di tutti. Quello che cerco è la luce, il tramonto, l’alba: solo guardando quella luce mi sembra che ci sia davvero qualcosa di immutabile. La luce è il filtro, l’unica possibilità di un legame effettivo con un tempo indefinito. Solo attraverso questa modalità dello sguardo, al cui centro è la luce, si apre un varco. Ogni volta che mi attardo ad aspettare la luce del tramonto che filtra dalle colline, mi sembra, per un istante, di afferrare l’antico. In quel momento mi dimentico della superficie. Si tratta di istanti, che sono figli di un doppio distacco: da quel mondo, che però, in quell’istante, è come si avvicinasse; e dall’oggi, che è quanto di più lontano da quel mondo antico visto in questo modo, tanto che quell’attimo di quell’estate non solo non appartiene all’oggi, ma è talmente antico da appartenere al futuro, ad un tempo non ancora nostro. Io devo per forza annullarmi come individuo, devo mettermi da parte, proprio per calarmi in questo vuoto e trascinare all’esistenza l’antico. Per questo accade spesso che, quando si guardano le mie opere, esse sembrano appartenere o al passato, o ad un futuro indefinito. Forse, le mie opere tutto sono, tranne che contemporanee, o almeno, io non mi pongo come un artista contemporaneo.
(Da Abisso, Castello Aragonese di Ischia, 2019)
Per me, simili varchi si aprono continuamente, nel tufo di Napoli, negli ipogei, guardando il sole. È un esercizio di desiderio. Come avviene nel De rerum natura, che prende le mosse da un’invocazione a Venere, anche per me tutto è mosso da Afrodite. L’erotismo è una spinta, un atteggiamento mentale rivolto alla superficie. Mentre l’amore coinvolge aspetti inevitabilmente legati alle nostre strutture psichiche irrazionali, l’erotismo è quel passo in avanti che muove questo vuoto, questa tensione amorosa verso la necessità del contatto, sia esso visivo o percettivo in generale. L’eros non è l’amore, ma subentra in seguito, quando diventa qualcosa che non è più mancanza. L’elemento del desiderio vuole diventare esperienza, contatto, ed è su questa base che stabiliamo delle possibili traiettorie, volte a compensare la cicatrice, lo squarcio dell’amore, che ci portiamo dentro indelebilmente da sempre attraverso il contatto con la materia, proprio affondando le mani in essa. Da questo gioco, da questa relazione/tensione tra erotismo e amore, nascono esperienze che si concretizzano in forme, superfici, immagini, movimento. È come se l’eros fosse la cura dell’amore, generata da noi stessa per sanare la mancanza, il vuoto. L’eros è quella situazione in cui nasce il desiderio di dare forma all’esperienza che dentro si muove sotto forma di amore, è uno scatto in avanti verso il mondo, un vero e proprio antidoto. La mancanza è qualcosa che si muove dentro a prescindere da ciò che il mondo è. È un abisso che ci trasciniamo dentro costitutivamente, come specie, oserei dire. L’assenza è già esperienza vissuta che si concretizza come vuoto, dopo che per così dire abbiamo “toccato qualcosa” che si è frantumata nella nostra vita, e che in questo modo crea un’assenza. A questo proposito mi viene sempre in mente il Mönch am Meer (Monaco in riva al mare, 1808-1810) di D. C. Friedrich. In quel quadro paradossalmente non c’è né mancanza né assenza, perché tutto si muove sul limite. È un quadro “egoico” in cui si non si vuole lasciare nulla da parte, in cui il sublime significa proprio rimanere in bilico su un doppio abisso, quello del baratro infinito che si schiude dinanzi alla figura umana, ma anche quello della sua stessa finitezza.
(Da Abisso, Castello Aragonese di Ischia, 2019)
K.: Torniamo al tema del naufragio. Come sai, con il suo libro del 1979 Blumenberg ha associato in un modo diventato ormai canonico il tema del naufragio (con spettatore) al poema di Lucrezio, fornendo poi una magistrale ricostruzione della vicenda di questa “metafora” nella cultura occidentale fino al secondo Novecento. In Abisso, un’installazione diffusa che hai ideato per il Castello Aragonese di Ischia nell’estate 2019 e da cui da cui sono tratte le foto che costellano questa intervista, ti sei ispirato all’antichissima e stratificata storia del Castello, che venticinque secoli fa fu avamposto greco nella Magna Græcia, lavorando, in una fitta rete di rimandi tra presente e passato, sulle testimonianze di vite che hanno attraversato numerosi luoghi e che hanno lasciato su di essi impronte più o meno chiare. Come hai dichiarato tu stesso, “Abisso per me è la Storia, la vertigine del tempo che ci avvolge e ci sfida, […] un monumento all’umana resistenza, dei sommersi come dei salvati, nel mare della Storia”. In queste sculture in gesso bianco dalle diverse dimensioni, oltre che negli imponenti interventi pittorici, evochi uomini e statue scheggiati dalla violenza del mare, volti e corpi dalle superfici corrose, relitti di viaggi diventati naufragi, resti della storia che si mescolano a reperti del passato dell’arte e a detriti della civiltà occidentale. Come se, attraverso di essi, tu abbia cercato di salvare una traccia di questi destini prima che diventassero pura assenza. Cos’è per te la storia, come prendi posizione rispetto ad essa? E cosa significa per te strappare schegge di passato ad un naufragio?
Leperino: Quando penso al naufragio penso ad una stigmate, ad una sorta di brand occidentale. Per me la cultura occidentale è caratterizzata da un forte “materialismo” (solo per fare un esempio, se pensiamo al sacro, abbiamo sempre bisogno di un’immagine del sacro). Ereditiamo tutto questo dal passato, e per questo siamo fatti di superfici, di oggetti, di materia. Anche per questo le mie opere scultoree sono fatte di brandelli (corde, rottami, legni etc.), cioè perché inevitabilmente questi oggetti sono costitutivi della nostra identità. Presi come frammenti, come cocci, come superfici corrose e combuste, essi mettono per così dire il dito nella piaga dell’atteggiamento “materialistico” occidentale. Quando ricompongo questa carne con i brandelli di questa cultura, è chiaro che ne denuncio anche il declino. L’ala di una mia scultura non è un’ala di piume, come quella della Nike o di un’altra opera d’arte antica, ma recupera quella forma, ovvero quell’atteggiamento nei confronti della percezione della forma, pur essendo fatta di rottami. Eredito la forma, ma non la possibilità di ripercorrere quella modalità, non eredito il tempo che mi sarebbe necessario per fare quell’ala, perché il mio tempo è un tempo della rovina, è un tempo della disfatta. Io non ho il tempo di andare a prendere i miei materiali in una cava, ma devo utilizzare quello che la storia mi offre come frammenti. Non posso permettermi di utilizzare materiali “nobili”, perché non ci sono più mecenati, o forse, ancora di più, perché non c’è una comunità che incentiva, che vuole una simile bellezza.
(Da Abisso, Castello Aragonese di Ischia, 2019)
D’altro canto, ho radicata dentro di me l’urgenza della forma antica, e, visto che forse gli antichi, attraverso un’opera, ci danno anche dei suggerimenti attraverso i loro materiali (legno, marmo, bronzo etc.), probabilmente mi pongo lo stesso obiettivo, quello di parlare al futuro, alle prossime generazioni. Non posso arrendermi al fatto di non avere a disposizione i grandi materiali dell’arte antica (per non parlare delle tecniche), devo comunque provare a far sì che le generazioni future ereditino questo atteggiamento, questa disposizione ad essere corpo, ad essere emozione, nonostante la disfatta, il naufragio. Non smettere di desiderare l’ala anche quando l’ala non può esserci, non perdere il desiderio di trionfare con il braccio sollevato del vincitore, nonostante il braccio ci sia stato amputato, fino ad arrivare a rattopparsi questo braccio con delle corde. Lancio dei sentieri: un’ala si può fare anche con i rottami, si può creare un’immagine recuperando i pezzi della zattera arsa dal tempo e dalla catastrofe3. Si tratta per me di raccontare la catastrofe con la catastrofe. Anche perché è così che si può mettere in moto il desiderio di futuro. È attraverso questo atteggiamento che l’opera può diventare antica, cioè, non limitandosi a copiare una superficie.
K.: Tu hai definito il nostro mondo come “materialistico”, aggiungendo poi che uno dei segni di questa sua cifra sia il fatto di esprimersi in “icone”, di aver bisogno di immagini. Ma c’è un materialismo come questo, che, forse, non è il ‘vero’ materialismo, ma solo la sua tradizione dominante, che sfocia appunto nel simbolico (immagini rappresentative): un materialismo che sembra essere in realtà la negazione radicale della materia, che divora se stesso e che si rivela semplicemente come nichilismo. E c’è poi un materialismo come quello della tradizione a cui Althusser attribuisce la posizione di Lucrezio, che, pur essendo apparentemente “disperato”, genera un altro tipo di immagine, non simbolica, che forse va più nella direzione del gesto.
Leperino: Sì, è così, si tratta di gesti. Anche se io, come artista, non riesco a “schierarmi” nettamente a favore di un’opzione precisa. Piuttosto, cerco di mettere a fuoco delle situazioni. Ad esempio, quando ho viaggiato in Oriente, in Giappone, mi sono accorto che una stanza bianca e vuota in cui entra solo un raggio di luce è per loro una stanza piena. Per un occidentale è solo una stanza vuota, e questo horror vacui forse nasce anche dal fatto che la nostra forma di civiltà ci ha educato a riempire i vuoti con le forme, con le forme simboliche. Allora, per me si tratta anche di pensare a questo: come vedrebbe un orientale una forma che realizzo io, cosa aggiungerebbe o, soprattutto, toglierebbe?
K.: Questo riferimento all’ “immaginazione artistica” orientale, così come quello fatto in precedenza al dipinto di Friedrich (e alla questione del sublime cui esso rimanda), fa venire in mente una questione che credo non sia secondaria nella tua pratica artistica. Nella tua pittura e nelle tue incisioni non sono infatti rari esiti che comunemente sarebbero definiti “astratti”. Ovviamente, per un artista del XXI secolo, la contrapposizione tra figurativo e astratto, se mai ha avuto un senso profondo, ha perso qualsiasi rilevanza teorica. Eppure, pensando al tuo lavoro di scultore, la questione appare non del tutto irrilevante. Che senso ha per te la parola “astratto” in relazione alla tua pratica artistica? Esiste per te una relazione tra astrazione e vuoto?
Leperino: Qualsiasi opera d’arte nasce astratta, perché nasce nel vuoto, nell’assenza. La tela bianca è astrazione. La scultura stessa è dare forma e materia all’immateriale, significa prendere le mosse da qualcosa che non ha forma, che è appunto astratta. Creare una forma è sempre astrarre da un vuoto, che è sempre il punto di partenza. Più in particolare, quando a volte, ad esempio nella mia pittura o nelle incisioni, non faccio riferimento a forme mimetiche della realtà, opera astratta significa restare sempre nell’atmosfera della superficie, anche se non c’è forma. Astrazione è dove, senza utilizzare un’icona o un’immagine, si riesce a leggere una superficie, dove si legge una forma nel vuoto delle forme. Per questo molte superfici sono opera d’astrazione: basta togliere dal contesto un frammento, “astrarre” un dettaglio, che trasmette un’emozione. Dove c’è l’assenza dell’opera, nasce un’opera astratta, la presenza di un’altra opera, come ad esempio proprio nella chiesa della Misericordiella, in cui, al posto della pala d’altare ormai inghiottita dal tempo, dall’astrazione della superficie vuota è emersa una forma.
(Chiesa di Santa Maria della Misericordia ai Vergini, Napoli, particolare)
K.: Passiamo ad un’altra questione sempre legata al rapporto che hai con i materiali del tuo lavoro di scultura: l’ibridazione. Chi ha avuto la possibilità di vedere come realizzi una scultura, ha notato forse prima di tutto che, nella fase iniziale, tu costruisci un’opera ibridando materiali disparatissimi, innestando ad esempio in un tronco che ricorda una scultura antica, frammenti lignei, cordami, etc. Per te questo è un elemento importante? Che ruolo gioca il caso nella realizzazione di una scultura con diversi materiali?
Leperino: Sono cresciuto negli anni Ottanta, in un periodo in cui secondo me è cambiato il concetto, o forse, più ancora, la percezione del tempo. È come se in quel giro di anni fosse accaduto qualcosa che ci ha condotto a sentire che il tempo che abbiamo a disposizione non è più il tempo che è utile alla nostra esistenza, come se fossimo entrati in un tempo compiutamente “non naturale”. Si inizia ad entrare nell’angoscia dell’attenzione che è necessaria a fare le cose, non si ha più tempo a disposizione per fare a lungo una stessa cosa. L’enorme quantità di stimoli, di livelli differenti di vita presenti simultaneamente nella nostra esperienza quotidiana, i “media”, tutto questo dischiude una dimensione del tempo completamente differente da quella della scrittura o del disegno. Questa premessa per dire cosa? Mentre prima c’era quello che metaforicamente chiamo il “tempo della candela”, un tempo che un artista, uno scrittore o un filosofo poteva dedicare con una certa linearità alla creazione, dopo avviene un mutamento genetico: a questa “luce della candela” subentra una “luce infinita”, quella artificiale e stroboscopica del neon, ininterrotta, non legata più a nulla. Questa nuova dimensione diseduca al tempo dell’attenzione continuativa. Facendo parte di questa generazione, io sono stato attratto, più che da una singola tecnica o da un singolo materiale, da una molteplicità di approcci. Nel percorso che mi ha condotto alla scultura, ho appreso più dalle ore dedicate a giocare con i Lego, che non dai manuali di disegno o dalle lezioni dell’Accademia. Ne nascevano forme che modificavo e decostruivo continuamente. Ad un certo punto – ed è forse in questo passaggio che si riassume quella che possiamo chiamare la mia estetica – questo gioco con blocchi modulari e preconfezionati, con queste “cose” dell’oggi, è entrato in contrasto con la lezione dell’antico. Sono stato forse fortunato a poter vivere pienamente, per ragioni generazionali, il trapasso in un certo senso pasoliniano dall’antico al contemporaneo, da un mondo in dissoluzione (quello della matita, della vernice, della creta, degli anziani maestri del liceo) ad un mondo nuovo in definizione, con nuove regole. Nelle mie sculture, allora, si ibridano il blocco “prefabbricato” e il blocco “modellato”, esse sono in un certo senso il frutto di una collisione tra due universi. In questo stare di casa in entrambi i mondi e in nessuno dei due vi è stata la chance di creare un’identità nuova. E inoltre, così come io sono arrivato a capire cos’è l’antico attraverso i mattoncini Lego, allo stesso modo i ragazzi che mi trovo davanti come allievi hanno forse la possibilità di ritornare a comprendere cos’è l’antico, il classico etc., attraverso il digitale o quant’altro. Un universo si satura e va quindi controbilanciato, così come io, dopo aver saturato l’universo delle cose preconfezionate e seriali, ho potuto e dovuto mettere le mani nella creta, nel gesso, nella materia. In questo, il caso non ha un grande ruolo, a patto ovviamente che si sia nella condizione di non essere solo l’artista che ha quell’età in quel momento. Quando ho iniziato a pensare e a realizzare una scultura a partire da un relitto di una barca trovato su una spiaggia, io ero anche il bambino che decenni fa si trovava su quella stessa spiaggia, animata dai bagnanti e colorata dagli ombrelloni. Quando realizzo quella scultura non sto allora solo trasformando quel relitto, ma sto anche ritornando al sogno di un mondo che non c’è più e che parla attraverso quel relitto. Così come provo a pormi in un certo modo nei confronti della storia, facendo cioè dei passi nel passato che mi possano proiettare anche nel futuro, allo stesso modo devo muovermi dentro e attraverso me stesso: quella barca, il cui relitto ora si ibrida nella mia opera, è la stessa barca azzurra che risplendeva in un pomeriggio d’estate della mia infanzia. L’incontro/scontro tra questi due momenti epocali della storia (dell’umanità, della cultura, di me stesso) rende possibile il ritorno, sotto altra forma, dello splendore. Splendore che ovviamente non è né il sogno del passato, né il momento creativo del presente: la necessità dello splendere nasce dal conflitto dei due momenti. Il tramonto del passato vive così nella forma, nel suo splendore, che è l’unica possibile grande sintesi tra immaginari che si scontrano e, possibilmente, si fondono.
(Da Abisso, Castello Aragonese di Ischia, 2019)
K.: Torniamo infine all’aspetto più esplicitamente “politico” del tuo lavoro. Il poema di Lucrezio è attraversato da immagini della fine e della catastrofe, e si conclude con la famosa descrizione della peste che sconvolge Atene. Ma, accanto, o meglio, come reazione a questo, per preservare la possibilità della salvezza comune, il poeta latino concepisce la nostra esistenza umana anche come resistenza. È possibile una resistenza, e, se sì, in che forma? Ricordiamo qui che nel 2015 hai fondato nella cosiddetta chiesa della Misericordiella, parte del complesso comprendente l’ex ospedale e l’oratorio di Santa Maria della Misericordia che si trova ai margini del rione Sanità di Napoli, lo “SMMAVE – Centro per l’Arte Contemporanea”, un’associazione culturale che ha portato avanti il recupero e la valorizzazione di questo sito, facendone in breve tempo un luogo aperto di ricerca, didattica e produzione artistica, anche attraverso una fondamentale collaborazione con storici dell’arte, architetti, artisti, fotografi, restauratori, esperti di cinema e di teatro. Cosa ha significato fare un simile lavoro in un territorio come la Sanità? E, più in generale, qual è la cifra politica del tuo lavoro, non solo artistico?
Leperino: Lavorando in questo luogo, sono due le grandi immagini del passato che mi si sono presentate, ed entrambe parlano del mare, di acqua. La grande storia del naufragio di Ulisse e la narrazione biblica dell’arca di Noè. In entrambi i casi, si tratta di due grandi forme, di due grandi contenitori, per così dire, che galleggiano sull’acqua, e lo fanno per necessità, perché è imminente l’idea di catastrofe e di naufragio. In entrambi i casi, sia quello del mito antico, sia quello del racconto biblico, l’immaginario umano (così come la scultura, che, come ho detto, in un certo senso si oppone al vuoto), colma il tormento e l’angoscia del vuoto con queste due forme: da un lato la zattera, con la quale Ulisse fugge dall’isola di Circe per far ritorno ad Itaca, e che però si costruisce con i relitti della sua nave naufragata, cioè con i fasti della vittoria su Troia, con l’arroganza della nave piena d’oro e di statue, che è stata ridotta in corde secche e tronchi d’albero anneriti. Ulisse recupera questi frammenti e li usa per tornare ad Itaca. La stessa “visione” si ripropone con l’arca, un altro “contenitore” in cui si esprime l’urgenza di un tempo. La cosa più sorprendente dell’arca è che essa non viene costruita in prossimità dell’acqua, va, in questo senso, ancora oltre il mito omerico, è ancora più visionaria, tormentata, folle. Mentre Ulisse ritorna in sé, ritorna ad Itaca, la visione biblica è invece rivolta al futuro. L’arca viene visionariamente costruita nel deserto, in un mondo arso e bruciato, perché si sa che arriverà il ramoscello d’ulivo portato dalla colomba. Questo è stato per me anche il senso della chiesa della Misericordiella: da un lato, la conseguenza della disfatta del mio essere artista rispetto al mio tempo, rispetto al mondo dell’arte contemporanea. Da esso avevo ottenuto molto, ma ne ero stato sostanzialmente sconfitto, anzi, il confronto mi aveva portato ad un vero e proprio collasso. In questa situazione ho costruito prima la mia zattera, che poi è diventata un’arca. Questa chiesa era un luogo abbandonato in un territorio molto complicato, e quando ho ripulito e recuperato questo luogo molti mi chiedevano perché costruissi un’arca in un deserto, in un luogo senza acqua, prosciugato, senza vita. Un territorio con grandi riserve di umanità, ma al tempo stesso vuoto, abbandonato (dalle istituzioni, dalla modernizzazione). Ho cercato di costruire un segno, nella speranza che esso poi diventasse il pretesto per innescare un processo di cambiamento, o, quantomeno, per generare una visione. L’arca è una grande visione, una proiezione verso il futuro. In quest’arca, col tempo, si sono imbarcati in tanti, giovani, ragazzi, che si sono accorti che forse è possibile navigare anche in assenza di acqua.
(Da Abisso, Castello Aragonese di Ischia, 2019)
Se devo dire quale sia per me il modo migliore per opporsi o sottrarsi all’intollerabilità del presente, mi viene spontaneo ripensare alle mie esperienze sportive. Sono stato un bambino silenzioso e appartato, e i miei genitori, preoccupati per la mia tendenza a stare alla finestra ad osservare silenzioso il mondo, hanno tentato di farmi fare tutti gli sport possibili, dal tennis, al calcio, alla pallavolo. Ma quello a cui debbo di più è stata una disciplina orientale, il judo. Pur avendolo praticato per soli due anni, mi ha messo in condizione di capire innanzitutto che davanti a me c’è sempre un potenziale avversario, che è la vita stessa, che impatta inevitabilmente con te, costringendoti ad allontanarti dalla finestra, ad uscire dalla stanza della contemplazione, per scontrarti col mondo. L’impatto genera nel corpo e nelle emozioni una reazione che – insegna il judo – non è negativa. Se nel karate bisogna difendersi o attaccare con pugni o calci, nel judo l’impatto col mondo può essere rivolto a proprio favore se si è in grado di comprenderne la forza, di accoglierlo sul proprio corpo, tanto da trasformare la lotta in una danza con la quale e nella quale si possono stravolgere le regole del gioco. Il judo trasforma lo scontro con l’avversario in una danza piena di erotismo, perché la tensione dello scontro si muta in bellezza, senza eliminare lo scontro, anzi, comprendendo che è possibile vincere solo accogliendo e introiettando l’altro, persino se è qualcuno o qualcosa che vuole distruggerti.
(Da Abisso, Castello Aragonese di Ischia, 2019)












